I “desenterradores” dello stato di Veracruz in Messico | testo di Gabriella Saba

La riscoperta delle Americhe è la  rubrica di Gabriella Saba dedicata all’America Latina sul sito di Reportage.

 

Che nascano lavori nuovi non è sempre un bel segnale. Non lo è di certo nel caso dei desenterradores, anche se sono solo sei, e limitati a una squadra nello stato di Veracruz, in Messico. Desenterrar vuol dire dissotterrare: in questo caso i cadaveri delle migliaia di persone sparite nel nulla e a volte ritrovati sotto terra, spesso in fosse comuni come quelle di Colinas de Santa Fe, a un quarto d’ora d’auto dalla città di Veracruz, un grande terreno brullo in cui la squadra, la brigada, ha localizzato in tre anni 159 fosse e recuperato 303 corpi di cui quattro senza testa, solo diciotto sono stati identificati. I desenterradores sono gli unici al mondo a svolgere, pagati, quel lavoro su incarico dei familiari: e cioè le trecento persone che fanno parte del Colectivo Solecito, un gruppo di congiunti di desaparecidos che, abbandonate dopo tanti anni le speranze di trovare vivi i propri cari, hanno deciso di recuperarne almeno i resti. Nato del 2014 su iniziativa di alcune madri e composto all’inizio da otto persone, ne conta oggi più di trecento, quasi tutte donne. Che impiegano gran parte del proprio tempo a indagare sulle sparizioni, a chiedere permessi e a scavare, una ricerca dolorosa e spesso frustrante che le ha premiate con qualche successo. A mano a mano che le fondatrici invecchiavano quel lavoro diventava però troppo faticoso, ed è così hanno pensato qualche anno fa di contrattare personale apposito ed è nata la brigada dei desenterradores: in cui archeologici forensi lavorano accanto a contadini, esperti autodidatti del terreno come Guadalupe Contreras che, come ha spiegato alla rivista colombiana Gatopardo che ha dedicato alla brigada un lungo e commovente reportage: “Quando un corpo è in decomposizione l’erba non cresce, diventa gialla perché libera gas. Quanto invece un corpo ha finito di decomporsi, serve da fertilizzante e l’erba diventa verde”. Un altro della squadra è Gonzalo Gómez García che quasi è svenuto, la prima volta che ha trovato un cadavere, ma con il tempo si è abituato e adesso parla con i resti dei defunti con affetto come fossero persone. “Amico, se sei lì dammi un segnale. E se mi addormento fammi sapere in sogno dove ti cerco domani”. Dei desenterradores soltanto Contreras ha un desaparecido in famiglia, il figlio Iván sparito nel 2012 a 38 anni. Ma tutti spiegano che è la passione e muoverli e, come nel caso dell’archeologo Carlos Fidel Martínez, “faccio soltanto lavori che mi piacciono, non chiedo mai quanto mi pagheranno”. Ed è per questo che ha accettato, ci racconta, la proposta del Colectivo, tre anni fa. Eppure, benché l’importo complessivo non superi per l’intera brigada i cinquecento dollari alla settimana, quegli stipendi sono un sacrificio per l’associazione, che non riceve sovvenzioni dallo Stato a parte il camioncino con cui la squadra si reca sul terreno. Né i desenterradores né le madri hanno una scorta o protezione, anche se sono esposte ed esposti a molti rischi, e alcune sono state minacciate di morte. “Una volta al mese la Commissione dei Diritti Umani mi chiama per assicurarsi che stia bene, ma per il resto siamo lasciate a noi stesse”, ci racconta la vicepresidentessa Rosalía Castro Toss, la coraggiosa dentista che da quando è sparito il figlio Roberto Carlos Casso Castro, il 24 dicembre del 2011, ha smesso di esercitare e qualche anno dopo ha trasformato il suo studio, affacciato alla piazza principale della cittadina di Huatusco, nella sede del Colectivo. E’ una signora elegante e colta, molto determinata. “Se i delinquenti pensano che rinunceremo un giorno a cercare i nostri cari si sbagliano di grosso perché non smetteremo mai”, ci dice nel corso dell’intervista. Oltre all’ex studio, l’associazione conta su un paio di locali in cui conserva gli attrezzi per la ricerca come pale e machete, organizza le riffe e vende oggetti per finanziare le ricerche. Per inciso, a metà del 2019 l’associazione ha dichiarato concluso il lavoro a Colinas e ha spostato la ricerca in un terreno ancora più vicino a Veracruz, noto come km. 13.5. Alla dottoressa si incrina la voce quando ricorda il giorno in cui le fecero sparire il figlio. Era andato a passare la notte del 23 dicembre con la fidanzata a Veracruz e lei lo aspettava a pranzo il giorno dopo ma invece non lo ha visto più. Non solo lo Stato non le aiuta, ma le denunce languono per anni sulle scrivanie dei procuratori, le indagini non fanno un passo. Molte persone non denunciano perché sanno che è inutile o per paura, ed è per questo che le cifre ufficiali sono inferiori a quelle probabili: 40.000 contro almeno 60.000, il numero indicato da molto analisti. Se quello di Veracruz è il secondo Stato messicano più colpito, è quasi tutto il Messico a soffrire quella piaga.  La maggior parte delle vittime sono ragazzi tra i 18 e  e i 35 anni e ragazze tra i 15 e i 25 ma ultimamente a sparire sono anche bambini. Tutto si riconduce al grande ombrello della criminalità infiltrata nelle istituzioni, in cui delinquenza comune e traffico di droga, sequestri ed estorsioni si mescolano. “Il fatto è che le autorità sono complici e corrotte o nicchiano, per omertà o paura”, si lamenta Castro Toss. Alla vulgata per cui il motivo delle sparizioni sono le ritorsioni tra cartelli, e i desaparecidos sarebbero legati alla malavita, si contrappone una realtà diversa: gran parte delle vittime erano persone come tutte, con una vita normale. E se i numeri ufficiali sono arbitrari, quelli sulle fosse comuni sono difficili da quantificare. Non c’è un date base e le informazioni sono disseminate tra le procure dei vari Stati e organismi come la Marina e la Polizia Federale. Stime autorevoli ipotizzano siano più di tremila. Per inciso, i morti per omicidio nel Paese sono stati circa 240.000 in dodici anni. Nel 2018 il Colectivo si è guadagnato il premio dell’università Notre-Dame “per l’instancabile lavoro a beneficio delle vittime della violenza del narcotraffico e per l’impegno a cercare la verità”. Un’onorificenza che hanno ricevuto solo in dodici da quando è stata istituita, e un riconoscimento prestigioso che non ha indotto però le istituzioni a collaborare seriamente con l’organizzazione.

 

 

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