Pensioni e repressori in Cile – di Gabriella Saba

La rubrica quindicinale di Gabriella Saba dedicata all’America Latina sul sito di Reportage

 

Tutto il mondo è Paese, o quasi tutto. Lo scandalo delle pensioni per i finti invalidi è esploso anche in Cile, un luogo solitamente ligio nell’applicazione delle regole salvo quando si tratta di membri della Forze Armate e addirittura di vecchi collaboratori del defunto generale Augusto Pinochet, molti dei quali percepiscono da molti anni laute pensioni per malattie e disagi che per lo più non sono mai esistiti, o che comunque non ci sono più. La questione era stata già sollevata nel 2004 dal quotidiano La Nación, ma solo di recente è stata raccontata al grosso pubblico dall’emittente nazionale TVN. Sarà che i tempi sono più maturi e che la maggior parte dei cileni ha assimilato e digerito che la dittatura è stata un crimine, o che quando si tratta di fare i conti in tasca agli altri si diventa tutti più sensibili, sta di fatto che quell’inchiesta ha scatenato un putiferio. Mozioni parlamentari, social impazziti. E la faccenda si è allargata dalla frode delle finte malattie all’iniquità di una normativa che stabilisce alte pensioni per i membri delle Forze armate e Carabinieri mentre quelle per i normali cittadini si aggirano mediamente intorno ai 200 dollari mensili. Ad approvare le norme discriminatorie era stato il governo di Pinochet, che nel 1980 aveva praticamente eliminato le pensioni salvo per gli “uniformati”, ma solo di recente i numeri originati da quella normativa hanno cominciato e girare sui media, per esempio si è saputo che quei pagamenti, quasi del tutto a spese dell’Erario, hanno assorbito nel 2012 lo 0,9 per cento del Pil.

Ma torniamo alla pietra dello scandalo. Dunque, tra i beneficiati illegalmente c’è Augusto Pinochet Hiriart, figlio prediletto del dittatore e uno degli uomini più detestati del Cile per le tendenze truffaldine e la violenza (tra le sue molte gesta si conta la compravendita di auto rubate e un famoso caso di corruzione ribattezzato Pinocheques per cui non è mai stato condannato). Il 71 enne rampollo riceve una pensione di invalidità di mille e cinquecento euro al mese da quando, oltre trent’anni fa, venne investito da un camion, la qual cosa non gli ha impedito di svolgere altre attività, per esempio produrre e cercare di mettere in vendita sul mercato di Miami un vino dall’augurale nome Augusto Pinochet. Tutto perfettamente legale, non fosse che lui è sano da molto tempo: il problema è che per la legge cilena una volta stabilita l’invalidità non c’è più bisogno di controlli.

Pinochet Hiriart non è tra i casi più gravi, non solo per l’importo relativamente basso della pensione. Molto più seri quelli in cui a usufruire di quel privilegio sono ex membri della Cni, la Polizia segreta di Pinochet, fondata nel 1977 e prosecuzione ideale della precedente Dina, nata con compiti analoghi e chiusa per pressione degli Usa. Varie decine di loro continuano a percepire la pensione anche se sono stati processati e condannati, o i processi sono stati chiusi per prescrizione benché fosse lampante che avevano partecipato a questa o quella mattanza. Per esempio l’ex agente Emilio Neira che, in prigione per il coinvolgimento nella cosiddetta Operación Albania, percepisce una pensione di oltre quattromila dollari al mese per una sindrome causata da stress post traumatico, dovuta al fatto di aver dovuto obbedire agli ordini. Neira era stato in realtà, secondo i testimoni, un autore molto attivo di quella operazione repressiva in cui dodici militanti del Mir (Movimiento de Izquierda Revolucionaria) vennero assassinati tra il 15 e il 16 giugno del 1987 in diversi punti di Santiago, ma tant’è. Soltanto per ribaltare la versione ufficiale per cui le vittime sarebbero morte durante scontri con le Forze dell’Ordine ci sono voluti anni, non è bastato che l’autopsia accertasse che erano stati colpiti alle spalle. E infatti il capo dell’Operación Albania Krantz Bauer Donoso e responsabile della famigerata Unidad Verde del Cni, qualche anno dopo diventò destinatario, anche lui e fino alla morte avvenuta nel 2012, di una sontuosa pensione di invalidità per sindrome post TEC, otorragia ed emorragia subaracnoidale. Un altro miracolato è il capitano dell’Esercito Pedro Fernández Dittus, condannato per aver diretto la pattuglia che il 2 luglio del 1986 cosparse di benzina e diede fuoco al fotografo Rodrigo Rojas Denegri e a Carmen Gloria Quintana, il cosiddetto Caso Quemados. Il primo morì, la seconda si salvò per caso, ma riportò bruciature sul sessanta per cento del corpo, cioè resto sfigurata. Quanto a Fernández Dittus, è entrato anche lui a far parte del circolo dorato dei pensionati affetti da post-stress (per inciso, la pensione di invalidità è circa il doppio di quella già privilegiata prevista per i militari).

Le pensioni succulente di molti “uniformados” coinvolti negli eccidi non sono legate solo alla presunta invalidità. Secondo una ricerca di Ciper Chile gli “uniformados” condannati o sotto processo per violazione dei diritti umani ma lautamente pensionati sono 38, per un importo medio al mese di circa tremila dollari. Uno di loro è Gonzalo Arias González, condannato a otto anni per sequestro, sparizioni e omicidi compiuti i primi giorni dopo il golpe, beneficiario dal 2005 di una pensione di quasi seimila dollari così come l’ex colonnello dell’esercito Roberto Ampuero Alarcón, che nell’agosto del 2016 fu condannato a quindici anni per il sequestro e l’omicidio qualificato di sei prigionieri nel centro di detenzione di Pisagua, nefasto simbolo del regime. Mentre il tenente Leandro Plaza Perellano, che l’undici settembre dell’83 era a capo della pattuglia che uccise il 22enne Cristián Garrido e venne condannato a cinque anni per quel delitto, riceve oggi tremila dollari al mese. Ed è del maggio scorso la notizia che, nel carcere di Punta Peuco di Santiago, prigione dorata riservata ai criminali del regime, sono diversi i condannati che percepiscono pensioni medie di duemila cinquecento dollari. Benché le cose siano cambiate, e non poco, le Forze Armate sono ancora una casta nella gerarchia cilena, in cui gli ex repressori hanno trovato spesso rifugio e protezione, una sorta di solidarietà di gruppo. Si aggiunga che il Cile ha faticato non poco a fare i conti con il passato, a elaborare i lutti e a assumersi responsabilità che vanno ben oltre quelle di un gruppo di golpisti esaltati. Omertà e titubanza, vecchi legami e una paura assimilata hanno complicato lo svolgimento delle indagini, indotto molto giudici a sentenze “prudenti”. Valga per tutti il caso di José Hernán Godoy Barrientos che, tenente dei Carabinieri nell’ottobre del 1973, partecipò al sequestro dei fratelli Guido e Héctor Barría Bassay nella città di Río Negro, tuttora desaparecidos. Sottoposto a processo con altri cinque della pattuglia, fu condannato nel 2005 a dieci anni e un giorno dalla Corte d’Appello di Santiago ma non scontò mai la pena, per prescrizione del delitto. Fu l’ultima prescrizione in un processo per violazione dei diritti umani, ma intanto Godoy, pensionato dal 2000 con il grado di generale, riceve una pensione di oltre cinquemila dollari mensili.

A tutto questo si aggiunge la questione delle doppie pensioni, molti ex “uniformados” che prestano attività nell’esercito accumulando dunque, con vari sotterfugi, un doppio emolumento. Ed è così che anche tra i cileni più moderati comincia a serpeggiare l’insofferenza verso una prassi che fino a poco tempo fa era considerata acquisita, un retaggio storico. Nel maggio scorso, il deputato socialista e presidente della commissione della Camera che ha indagato sulle pensioni di invalidità, Leonardo Soto, ha denunciato l’illegalità di quegli emolumenti. La cosa buona è che cominciano a parlarne anche i media e che quella storia, vergognosa, ha smesso di essere un tabù.

 

 

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La straordinaria vita di El Cuauh, da asso del football a sindaco inetto (ma amatissimo)

 

Capita a volte che un personaggio molto popolare venga eletto per qualche carica politica e il suo consenso si mantenga anche nel caso in cui combini pasticci, e si dimostri inadeguato o incapace. L’ex idolo del football messicano Cuauhtémoc Blanco, 44 anni, è ancora amatissimo benché nell’anno che ha passato, finora, alla guida della città di Cuernavaca, non abbia fatto che collezionare denunce e gaffe, l’accusa di essere manovrato dai cartelli e scivoloni da buzzurro come quelli di aver ringraziato pubblicamente un presidente della Repubblica che era in realtà morto nel 1872. Negli ultimi mesi Blanco, nome calcistico El Cuauh, è stato addirittura sottoposto a tre processi che avevano lo scopo di destituirlo dall’incarico, sospesi per lo sciopero della fame che ha dichiarato all’inizio di dicembre: quando si è avvolto in una coperta e si è sdraiato nella piazza della cattedrale dove è rimasto per 36 ore senza toccare acqua né cibo. “Mi odiano perché la gente mi vuole bene, e mi vuole bene perché sono come loro”, non fa che dire da quando hanno cominciato a mettergli, come spiega, i bastoni tra le ruote. In quali ruote è difficile capire, visto che El Cuauh non ha fatto in realtà assolutamente niente, salvo licenziare i dirigenti del partito che lo ha portato alla vittoria e nominare come vicesindaco il suo ex procuratore calcistico José Manuel Sanz, a cui ha affidato la gestione di sicurezza e finanza. Eppure, non solo il suo consenso si mantiene alto ma quando ha scioperato centinaia di suoi concittadini hanno sfilato per protesta. Tarchiato e panciuto, un’espressione non precisamente astuta, l’ex asso del football ha mantenuto i modi grevi e la mancanza di controllo di quando era il Cuauh, tre volte ai Mondiali e uno degli attaccanti messicani più famosi di tutti i tempi. Che apostrofava i guardalinee donne chiamandole “zoccole” e dava agli avversari degli “uomini senza palle”, mentre la sua abitudine di picchiare in campo gli è valsa l’espulsione e l’allontanamento per un anno. Ragazzo di famiglia povera del quartieraccio di Tlatilco della capitale Città del Messico, rappresentava il sogno di riscatto di molti messicani disposti a perdonargli qualunque eccesso a causa delle strabilianti esibizioni a cui diede il nome, come la Cuauhtémiña (il salto del canguro) che nella partita del Mondiale del 1998 Messico-Corea gli permise uno storico goal e come le centinaia di cross e azioni in cui si produsse nelle squadre in cui giocò: dalla storica América con cui conquistò nel 2000 il favoloso record di nove reti in dodici partite durante la Copa de Libertadores, alla Nazionale in cui giocò in ben tre campionati del mondo. Fu solo a 37 anni che decise di appendere le scarpe al chiodo sia pure con qualche interruzione: per esempio quando, era già sindaco di Cuernavaca, ha giocato per più di mezz’ora tra le grida del pubblico adorante nel grandioso stadio Azteca di Città del Messico in cui si era esibito tante volte. Nel suo fittissimo curriculum c’è il fatto che era stato dichiarato uno dei tre migliori calciatori della Major League Soccer quando giocava con la statunitense Chicago Fire, l’ultimo campionato della sua carriera, e il primo giocatore messicano ad aver segnato in tutti i Mondiali a cui ha partecipato. Ora, ci sono sono persone che, geniali in una disciplina, sono un disastro in tutto il resto e Cuauhtémoc Blanco è tra questi. Scritturato come attore secobdario nella popolarissima soap opera Triunfo de amor, recitò così male da indurre perfino i più fanatici tra i fans a minacciare l’emittente televisiva che avrebbero smesso di guardare la telenovela se El Cuauh non se ne fosse andato. Ed è così che il calciatore si è buttato in politica. O meglio, lo hanno buttato. Un partitino in coma da anni, il Psd (Partido Social Demócrata), decise di candidare il Cuauh per guadagnare visibilità, ma nessuno di quella formazione politica avrebbe scommesso un peso sulla sua vittoria. E invece ecco che Blanco vinse, benché la sua oratoria fosse elementare e il suo spagnolo fosse una lingua basica inframezzata da argot e turpiloquio, in cui inseriva di continuo scivoloni come confondere la città per cui correva da sindaco con uno Stato, nella disperazione dello staff. Non che abbia avuto granché modo di parlare. Blindato dal team del partito e istruito su come comportarsi, a un certo punto smise perfino i toni aggressivi e cominciò a esprimersi con voce bassa e modulata fino ai primi giorni della sua elezione, in cui si destreggiava tra assalti di giornalisti e fans. Il suo discorso di insediamento durò non più di un minuto, durante il quale El Cuauh si limitò a ripetere, molto compenetrato: “Siamo brava gente e chambeadora. I problemi arrivarono in fretta. Litigò subito con la gente del partito e allontanò dal Consiglio quegli stessi che lo avevano candidato per circondarsi di persone di sua fiducia, non importa che non sapessero niente di politica né di molte altre cose. Poi, si mise contro il governatore dello Stato di Morelos di cui è capitale Cuernavaca, favorevole all’incorporazione della Polizia Municipale nel cosiddetto Mando Unico di competenza dello Stato. “Ti rompo tua madre” lo aveva apostrofato in pubblico, salvo cambiare idea e accettare il Mando. Il tempo della pacatezza è durato poco. Cuernavaca è una città grande e difficile, una delle più pericolose del Messico e uno dei centri di cartelli come Guerreros Unidos e Los Rojos con cui sono colluse gran parte delle istituzioni. Sta di fatto che a un certo punto il Psd ha abbandonato e rinnegato El Cuauh, che ha denunciato per aver accettato un compenso di 400.000 dollari in cambio della candidatura, e hanno mostrano ai giudici il contratto con la sua firma. Blanco ha ribattuto che quella firma era falsa e ha accusato con i toni consueti gli ex sodali di essere d’accordo con la malavita che lui cerca di combattere. A loro volta, quelli assicurano che è proprio la malavita a manipolare il sindaco, approfittando della sua ingenuità. Ed è per questo che, a detta loro, cercano di fargli abbandonare l’incarico, ma lui non ne vuole sentire e lotta come un gladiatore contro le decisioni dei giudici, assistito come è da un pull di ottimi avvocati. Il fatto è che, nonostante tutto, alla gente quel sindaco piace, benché sia totalmente inetto (ma quanti non lo sono, dicono gli estimatori? E quanti sono così attaccati e ridicolizzati dai media come Cuauhtémoc?). Non è soltanto il fatto che sia stato un idolo. Convince la dichiarazione in cui si riassume il Cuauh pensiero: “Io sono come voi, gli altri sono lontani dalla gente e corrotti”. O forse è solo che si fa fatica a prendere le distanze da un mito.

 

 

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Uribe, il nemico numero uno degli accordi di pace in Colombia

Il nemico numero uno degli accordi di pace in Colombia si chiama Álvaro Uribe Vélez, è stato presidente del Paese dal 2002 al 2008 e il suo ascendente sulla gente è tale che si deve a lui se il referendum popolare che avrebbe dovuto chiudere quattro anni di dialoghi tra il presidente attuale Juan Manuel Santos e le Farc, prima a Oslo e poi all’Avana, sono stati bocciati da un inaspettato No: di misura, appena cinquantamila voti di vantaggio, ma pur sempre un No.

Uribe non è in realtà contro la pace, piuttosto è contro la pace patteggiata da Santos, a detta sua esageratamente accomodante con le Farc e in particolare è contro quella parte che permette ai guerriglieri di candidarsi alle elezioni. Nella sua strenua, invasatissima campagna contro gli accordi, Uribe ha demonizzato quel punto dell’accordo storpiandolo nello slogan “Avremo il capo della Farc come presidente della Repubblica”. E se molti dei suoi connazionali, che detestano (non senza ragione) il movimento guerrigliero e adorano l’ex capo di Stato, hanno votato No, è stato proprio per la paura irrazionale di essere un giorno governati dalle Farc, e per l’idea che Timochenko, il leader della guerriglia, diventi un giorno presidente. Subito dopo il referendum, il presidente Santos ha sentito tutte la parti, si è consultato con i vari comitati per il No, ha dialogato perfino con i gruppi evangelici e nel giro di quaranta giorni ha firmato un nuovo accordo che teneva conto di molte proposte di modifica, ma anziché convocare un altro referendum ha chiesto il placet al Congresso, che ha approvato il testo con larga maggioranza.

Adesso che si tratta di implementare le misure (molte e complesse) previste dall’accordo – un processo in cui influirà la campagna presidenziale per le elezioni del 2018 – Uribe si presenta ancora una volta come il principale ostacolo, e né gli appelli di Santos né quelli delle stesse Farc, ammorbidite dal tempo e dalla vita nella selva, dall’esodo di uomini e dalle sconfitte, e dal fatto che tutto ha una fine, perfino la più antica e irriducibile guerriglia del pianeta, hanno scalfito l’avversione dell’ex presidente non solo per quell’organizzazione ma per il fatto di considerarla un interlocutore alla pari, e non il nemico umiliato da schiacciare, e che riconoscente ringrazia.

In questa soffertissima trafila di quattro anni, scandita da tensioni e da cessate il fuoco promessi e disattesi da entrambe le parti, da polemiche continue ma anche da un avvicinamento delle due delegazioni, da pacificazioni umane prima che politiche, dal perdono dei familiari delle vittime e da autodafé, Uribe si  è distinto per essere l’unico protagonista, sia pure esterno, a mantenersi uguale a quello che era stato durante gli otto anni del suo mandato: un politico inflessibile e animato da una visione messianica del proprio passaggio in questo mondo, un uomo che divide in bianco e nero, in buoni e malvagi. Di questi ultimi fanno parte le Farc, contro cui l’attuale senatore aveva condotto una guerra strenua quand’era al governo, in ossequio alla cosiddetta politica di sicurezza democratica che voleva dire, in soldoni, mano dura e nessuna pietà. Nemmeno molti scrupoli, visto che per amplificare i notevoli successi ottenuti aveva addirittura permesso, o coperto, l’uccisione di civili innocenti che il suo esercito spacciava per guerriglieri delle Farc (lo scandalo dei cosiddetti falsos positivos). Eppure, a prima vista lo diresti anonimo. Un viso ascetico e vagamente agro che si svela autoritario e violento quando ti azzardi a contraddirlo. Cattolico appassionato, si sveglia alle cinque per pregare, chiedendo a Dio ispirazione per le sue azioni. E’ sposato e con due figli, Jeronimo e Tomas e passa per essere un nonno affettuoso e marito fedele. Politicamente è un ultra-conservatore legato al mito della purezza delle origini e all’idealizzazione di quel mondo arcadico in cui ha vissuto nella natale Antioquia, terra di latifondisti e contadini in cui “la vita era sana e bella” e il piccolo Alvaro veniva educato con disciplina militare che ricorda con rimpianto. Fu in quella cornice naturale di gare equestri e campagna sub-tropicale che tre emissari delle Farc uccisero il padre Alberto, il 14 giugno del 1983. Ed è da lì che è nato il desiderio di vendetta, si è alimentato l’odio che Alvaro aveva assimilato, in realtà, fin da molto prima dell’omicidio del padre. Nella sua lotta all’illegalità, prima come governatore dell’Antioquia e poi come presidente della Colombia, Uribe ha sempre visto la legge come la guerra alle Farc, ma ha favorito platealmente i paramilitari, colpevoli dei peggiori eccidi che realizzavano in collaborazione con l’esercito e con la Polizia. Benché non sia mai stato condannato per vincoli con i paracos, le denunce e le testimonianze contro di lui anche da parte di questi ultimi sono continue.  Il fratello Santiago è stato arrestato di recente per aver fondato la banda paramilitare Los doce apostolos, responsabile di massacri negli anni Settanta. Il cugino Mario è stato condannato a sette anni e mezzo per associazione in banda armata. Un fratello era fidanzato con una donna considerata il contatto tra El Chapo e il narcotraffico colombiano. Nessuno è responsabile per i propri parenti, ma l’humus in cui è cresciuto Uribe è difficile da separare dalla sua impostazione politica: in quel consesso conservatore in cui si condividevano la passione per i cavalli e il terrore per il marxismo e per qualunque rivendicazione che contemplasse una visione meno feudale di quella che vigeva ai tempi, per Uribe fu del tutto normale appoggiare la creazione dei gruppi di autodifesa chiamati Convivir, che diedero vita ai paramilitari delle Auc, le micidiali Autodefensas Unidas de Colombia: legate fin dal principio ai narcotrafficanti, a Escobar, ai cartelli di Cali, mentre le Farc approdarono alla droga vari anni dopo. Finì per diventare una guerra di espansione, di controllo del territorio, di abusi da entrambe le parti. Può darsi che Uribe abbia deciso a un certo punto di risolvere davvero quel conflitto che dava una cattiva fama al Paese, e allontanava gli investitori stranieri, ma lo ha fatto da quel suo punto di vista parzialissimo, fuori fuoco. La prima misura che ha utilizzato per sbrogliare la violenza è stata la cosiddetta Ley Justicia y Paz: dai sei agli otto anni di prigione per i paramilitari colpevoli dei crimini più gravi a patto che confessassero e deponessero le armi, oltre a risarcire le famiglie delle vittime. Considerato come un modello di mediazione bellica, la legge è vista oggi come un fallimento: meno di tremila paracos sono stati processati dal 2003 al 2006, degli oltre 31.000 smobilitati, solo cinquanta sono stati condannati. Molti si sono uniti alla cosiddette Aguilas Negras o hanno dato vita alle Bacrim, le Bandas Criminales. Qualcuno è stato estradato, come Don Berna, uno dei supercapi che in una clamorosa testimonianza davanti a una corte degli Stati Uniti si è vendicato del presidente (che non era riuscito a evitargli l’estradizione) raccontando che era stato l’allora presidente a commissionargli la morte di un testimone scomodo. Uribe ha smentito, come ha sempre fatto. Quando la rivista Newsweek ha pubblicato la lista della Dea in cui compariva il suo nome, si è difeso pubblicamente con dovizia di argomenti, ma quell’esternazione non ha fermato la valanga di denunce: tra le altre, di avere avuto legami con il cartello di Medellin e di essersi circondato de delinquenti come Jorgue Noguera, capo del Das (Departamento Admistrativo de Seguridad, i servizi colombiani) e condannato a 25 anni di prigione per omicidio e associazione a delinquere. “La mia opinione è che non sia mai stato un criminale”, aveva tuonato Uribe. Come per ogni autocrate che si rispetti, le analisi degli psicologi si sono sprecate: secondo la famosa Gloria H. “è tale la rigidità emotiva e fisica del presidente che, guardate le mani! non riesce nemmeno a piegare le dita. Rigide, tese, così come le sue idee, la sua testardaggine, le sue ossessioni, la sua rabbia. E’ un uomo con seri problemi di comportamento che, come Hitler, può portare un popolo alla barbarie”.

Di buono nell’arresto dei paramilitari c’è che molti hanno parlato e raccontato, e grazie a quei racconti è esploso lo scandalo che, noto come parapolitica, ha fatto saltare fior di nomi dell’entourage del presidente: deputati e senatori accusati di prezzolare i paracos per convincere gli elettori a votarli e alcuni dei quali sono stati condannati.

“Non so niente di questi crimini”, ha dichiarato Uribe, così come le innumerevoli volte in cui il suo nome è stato legato ai peggiori delinquenti della scena del Paese, tra cui quel Salvatore Mancuso che, ex capo delle Auc, si era sottoposto con solerzia alla trafila della legge Justicia y Paz ma non gli era piaciuto che lo avessero trasferito da una prigione tutta rose e fiori a un carcere di massima sicurezza. Un po’ per ripicca e un po’ per spaventare Uribe aveva “soffiato” che l’allora presidente aveva nessi forti con i paracos. “Non ho mai avuto a che fare con i paramilitari, non ho mai incontrato Salvatore Mancuso”, aveva ribadito l’accusato, con la consueta sicurezza. Nell’intrico di verità e manipolazioni, calunnie e vendette, è difficile individuare con esattezza responsabilità e coinvolgimenti. Ma è evidente che nel disegno messianico dell’uomo forte del Cambio Democratico (il partito di cui è oggi leader Uribe) ci sono pesi e misure, e che in quel modo personale di considerare la realtà i paramilitari hanno un peso leggerissimo che permette loro di librarsi e di dissolversi nell’aria dopo aver svolto il proprio atroce compito. Mentre le Farc continuano a pesare parecchio, non meno di quando Uribe faceva loro una comprensibile guerra ma rifiutava, meno comprensibilmente, di patteggiare una pace che non fosse alle sue condizioni, e le insultasse di continuo dando loro dei criminali e banditi. E anche in questo non è cambiato.

 

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Jaime Garzon: l’omicidio di Stato del comico che aprì gli occhi alla Colombia 

Il comico colombiano Jaime Garzón era così sicuro che lo avrebbero ammazzato che aveva scelto per tempo la canzone per il funerale, una salsa allegra intitolata Quiero morirme de manera singular, con un adios de carneval, e l’aveva ballata e cantata durante l’ultima intervista concessa alla tv, pochi mesi prima di essere crivellato di colpi da due sicari in motocicletta mentre, a bordo della sua auto, si accingeva a raggiungere gli studi di registrazione di Radionet in cui lavorava. Un’ora dopo, le strade intorno alla radio erano intasate di auto e di persone affrante e incredule, e il giorno del suo funerale, che si celebrò ventidue chilometri dalla capitale di Bogotá, una folla immensa salutava il geniale buffone che aveva fatto tremare l’establishment raccontando senza paura quello che tutti sapevano ma che nessuno si azzardava a denunciare: l’impunità di una classe politica corrotta e criminale, governata dai Cartelli e dai paramilitari e la rassegnazione di un Paese condannato da decenni alla violenza. In prima fila nel corteo funebre c’erano le centinaia di lustrascarpe a cui Garzón aveva dato voce, interpretando il popolarissimo personaggio Heriberto de la Calle, un limpiabotas che intervistava i protagonisti della politica mentre lustrava loro le scarpe, facendo domande che a nessuno sarebbe venuto in mente di fare, e che gli intervistati accoglievano in apparenza con grande risate. Dalla sua morte, si parla di Garzón non solo come il comico colombiano più famoso di tutti i tempi ma come la coscienza critica del Paese, un portavoce coraggioso dalla bruttezza proverbiale su cui scherzavano sia lui sia gli amici, a cominciare dall’ex reginetta di bellezza Paula Turbay. “Quando mio marito partiva l’unico uomo con cui potevo uscire senza che si arrabbiasse era Jaime. Gli dicevo: “Sei così brutto che non credo avrò problemi a uscire con te”. Soltanto alla fine si fece aggiustare i denti, o meglio aggiunse denti finti ai pochi che gli erano rimasti e con cui si presentava nei programmi, ma nella iconografia ufficiale l’immagine di Jaime è quella sdentata: un viso mobilissimo a cui i dentoni irregolari davano un tocco di grottesca umanità.

Chi ha ucciso Jaime? Soltanto nel marzo di quest’anno la Fiscalia ha sposato la tesi dell’omicidio di Stato e diretto le indagini in quel senso. In diciassette anni di indagini abortite e depistaggi, l’unico condannato era stato Carlos Castaño, il capo della sanguinaria formazione di estrema destra Auc, la Autodefensa Unida de Colombia, che però era morto nel frattempo, in una faida familiare per mano del fratello Fidel. Eppure, dalle deposizioni di testimoni eccellenti e dalle denunce era emerso quasi da subito che a far uccidere Garzón erano stati alti ufficiali dell’esercito in collaborazione con il DAS, il famigerato Dipartimento Amministrativo di Sicurezza smantellato dopo una serie di scandali e il cui allora vicedirettore José Miguel Narváez è stato accusato qualche anno fa della paternità intellettuale del delitto, un processo che si è però insabbiato. Tra gli ufficiali coinvolti ci sarebbero anche l’ex colonnello dell’esercito Jorge Eliécer Plazas Acevedo e l’ex generale Rito Alejo del Río, che sta scontando una condanna a 25 anni per un altro omicidio in collaborazione con i paramilitari delle Auc. E proprio da queste ultime, d’altronde, era stato minacciato il comico, che un giorno prima di morire aveva addirittura contattato il latitante Castaño per concordare una intervista, ma invece lo hanno ammazzato prima. Ad ogni modo: secondo le anticipazioni consegnate dalla Fiscalia alla emittente televisiva Noticias Caracol, ad ammazzare Jaime sarebbero state la Auc di Castaño per incarico degli alti comandi militari del Das in combutta con l’esercito, da cui i sicari vennero consegnati dopo il delitto al capo paramilitare Don Berna, alias di Diego Fernando Murillo, che vide bene di farli sparire. Lo ha confessato lo stesso Murillo dal carcere di massima sicurezza negli Stati Uniti dove sta scontando una condanna a trent’anni per narcotraffico. A pagare per l’esecuzione del delitto furono invece due poveracci che, incastrati da testimoni falsi, sono stati poi assolti in appello dopo cinque anni di carcere per la totale inconsistenza delle prove.

Nel famoso ristorante El Patio, nel quartiere degli artisti de La Macarena, a Bogotá, il piatto più richiesto è ancora la parrilla Garzón, dal nome della pietanza preferita di Jaime, cliente fisso di quel ristorante in cui era noto per fare scherzi a tutti: per esempio si improvvisava cameriere e faceva la parodia dei politici in mezzo agli avventori stupefatti. Irridente e sfrenato, non limitava i propri scherzi ai suoi sketch ma li applicava anche nella vita quotidiana. Molti colleghi ricordano di quella volta in cui si era spogliato durante una riunione di redazione e si era messo a correre per i corridoi della radio fermandosi davanti a una segretaria notoriamente bacchettona a cui aveva mostrato il pene, scusandosi: “Perdoni se è poca cosa, ma è con tanto affetto”. Figlio di genitori di classe media, studente svogliatissimo e aspirante prete, aveva abbandonato l’università in cui era iscritto alla facoltà di legge per arruolarsi nell’Eln, la formazione guerrigliera di estrema sinistra in cui gli venne affibbiato il soprannome di Heidi. Non partecipò ad alcun combattimento e in generale pare fosse un disastro, tant’è che l’unico compito che gli venne affidato era dissotterrare periodicamente i soldi nascosti per evitare che si rovinassero con l’umido. Nemmeno quella piccola mansione gli riuscì: era distratto e dimenticava sotto terra le banconote che finivano per marcire. Più tardi diventò sindaco di un piccolo comune e fu lì che cominciò a imitare la gente, assecondando una vecchia passione. La fama di quelle performance gli guadagnò l’attenzione di un presentatore televisivo che lo invitò per qualche comparsate e cominciò a quel punto la parabola ascendente di Garzón che si concluse con la sua morte. I suoi programmi sono entrati nella storia della televisione latinoamericana. Il primo fu Zoociedad in cui, nelle vesti del presentatore e intrattenitore faceva il verso ai vizi del Paese, poi ci fu Quac dove inventò la galleria di personaggi-simbolo della società colombiana che gli guadagnarono (e si guadagnarono) l’affetto della gente: dalla cuoca del Palazzo Presidenziale Dioselina Tibaná, specializzata nelle “ricette del potere” all’avvocatucchio di estrema destra Godofredo Cinico Caspa, prototipo del cialtrone amorale e colluso la cui biografia comprendeva la consulenza a un paramilitare così come una docenza sui diritti umani. Di loro si serviva per bastonare presidenti della Repubblica e ministri, paramilitari e Farc, e non è che ci andasse leggero. Per esempio, dell’allora presidente dell’Antioquia Álvaro Uribe, che sarebbe diventato presidente del Paese per due mandati, disse che era una minaccia per la Colombia, sarebbe stato un dittatore dalla mano dura, e avrebbe finito di rovinare la Colombia. Chiuso Quac, si inventò quell’Heriberto de la Calle e la sua satira diventò così politica che furono in molti a preoccuparsi per la sua incolumità.

Se la questione di chi abbia ucciso Garzón è ancora poco chiara, benché intuibile, più ambigue ancora sono le ragioni. Per i suoi scherzi atroci e per le bacchettate al potere? Intervistato da Heriberto de la Calle, l’allora ministro dell’Interno Fabio Valencia Cossio aveva dichiarato davanti alle telecamere: “Mi dicono persone di cui mi fido che la manderanno via”. Ed Heriberto, senza fare una piega: “Ah sì, e perché?”. “Perché lei prende in giro un po’ troppo, e alla gente questo non piace”. (Valencia Cossio era stato indagato per vincoli con i paramilitari e poi assolto, mentre il fratello Gonzalo sta scontando per quel crimine quindici anni di prigione). E’ però anche probabile che la decisione di farlo fuori fosse dovuta anche al suo impegno di mediatore nei sequestri delle Farc, cominciato nel 1998. Molti sequestri si risolsero grazie a lui, per esempio quello dei quattro cittadini Usa che erano andato nella selva a fare birdwatching. Durante quell’attività era venuto a conoscenza di alcuni scheletri negli armadi come il fatto che alcuni membri dell’esercito vendevano sequestrati alla guerriglia, e in generale non doveva piacere, alle Auc, che i sequestri si risolvessero senza violenza grazie a lui. Tra le innumerevoli testimonianze di amici e colleghi che lo celebrano da quando è morto, c’è chi ha spiegato che inconsapevolmente cercava la morte, visto che molte volte aveva dichiarato di non voler vivere più del padre, mancato a 38 anni. Jaime Garzón ne avrebbe compiuto 39 il 24 ottobre, morì prima.

 

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Colombia: morte annunciata di un quasi presidente che combatteva i narcos

Il fotografo della campagna presidenziale di Luis Carlos Galán, José Herchel Ruiz, aveva appena trovato l’inquadratura giusta del candidato che come sempre prima dei comizi salutava la folla con le braccia alzate quando lo vide scivolare. Attese un attimo che si risollevasse ma invece non solo non lo vide ma non vide più niente: le luci nella piazza e nel quartiere della città di Soacha, in Cundinamarca, si erano spente di colpo mentre la gente urlava: “Hanno colpito Galán, lo hanno colpito!”. Si nascose dietro una casa e aspettò che si placasse l’urlo delle sirene, il rumore della folla che scappava, le grida e i pianti e il rombo delle auto che portavano via il candidato ferito ma solo dopo due ore di notizie che si accavallavano e si rincorrevano seppe con assoluta certezza che el doctor Galán era morto, così come l’assessore comunale della città di Soacha Julio César Peñalosa che si trovava accanto a lui sul palco e all’agente di scorta Santiago Cuervo che gli aveva fatto scudo alla prima scarica di mitra, sparata da sotto il palco e a cui nessuno aveva fatto caso, all’inizio, persa com’era tra il rumore dei festeggiamenti e della adunata. Erano le nove di sera del 18 agosto del 1989, Galán avrebbe compiuto 46 anni un mese dopo e si accingeva a vincere, stando ai sondaggi che lo davano al settanta per cento, le elezioni presidenziali che avrebbero sancito, secondo il suo programma, l’inizio di un’epoca nuova per la Colombia e il compimento della principale promessa elettorale: la guerra al narcotraffico e il mantenimento della legge di estradizione per i suoi ras e in particolare per colui che era il protagonista del fenomeno, l’allora 35enne Pablo Escobar, fondatore del Cartello di Medellin e artefice di quella piovra che in pochi anni si era non solo impadronita dello Stato a furia di mazzette astronomiche ma aveva precipitato il Paese in una spirale di violenza e attentati, per lo più impuniti. Dall’omicidio sono passati 27 anni e se è vero che i grandi personaggi sopravvivono alla propria morte fisica non c’è giorno in cui Galán non sia sopravvissuto, o che qualcuno non ne ricordi l’etica e il rigore, ma soprattutto l’impegno per un Paese diverso.

Soltanto molti anni dopo i tribunali sancirono con tanto di sentenze (insufficienti rispetto al grado impressionante di coinvolgimenti) quello che tutti in Colombia sapevano dall’inizio, e cioè che era stato Escobar a ordinare di uccidere Galán, in combutta con il senatore Alberto Santofimio che dal 2011 sta scontando una condanna a 24 anni, ma paradossalmente l’ex senatore alleato della mafia è stato uno dei pochi a pagare per quel crimine, nonostante i molti processi, le denunce e i pesi da novanta della politica coinvolti in quella morte che è stata molto di più che una tragedia personale, visto che distruggeva il sogno di gran parte dei colombiani, a partire da quel milione che parteciparono al funerale, in lacrime. “Si era spezzato il sogno ed era morta la speranza di una Colombia diversa, e noi tutti ci sentimmo come disperati”, ha dichiarato più tardi il fotografo, José Herchel.

Senatore della repubblica da undici anni ed ex ministro dell’Istruzione sotto il governo del liberare Misael Pastrana, Galán firmò la sua condanna a morte il giorno in cui dichiarò, a Medellin, che non avrebbe mai accettato l’aiuto di una persona di cui non fossero assolutamente chiare le origini della ricchezza. Non era una dichiarazione in sé rivoluzionaria, non fosse stato che Escobar era riuscito a farsi eleggere come senatore e in un vago tentativo di redenzione sociale si era offerto di aggregarsi al nuovo partito fondato da Galán: quel Nuovo Liberalismo che il senatore aveva costruito come la costola del partito Liberale da cui era uscito per candidarsi nel 1982 alle elezioni presidenziali in cui arrivò soltanto terzo, e in cui tornò a correre dopo essersi accreditato come uno dei pochi politici che combatteva seriamente per il bene del Paese. Dopo il rifiuto pubblico a Escobar, Galán diventò l’uomo più minacciato della Colombia, un condannato a morte che la mafia aveva cercato di eliminare qualche settimana prima del comizio a Soacha, e che fallì soltanto perché una signora aveva visto dalla sua finestra i potenziali assassini con razzi e armi e chiamò la polizia. Ma l’omicidio era soltanto rimandato. Il vertice tra Escobar, Santofimio, il socio del Cartello di Medellin Rodríguez Gacha, detto el Mexicano e il braccio destro di Escobar, Jhon Jairo Velásquez Vásquez, alias Popeye, si era tenuto poche settimane prima e la sentenza era stata inappellabile. Galán aveva promesso come prima misura nel caso fosse stato eletto che non avrebbe annullato l’estradizione e la minaccia era troppo seria per non far di tutto per neutralizzarla.

D’altronde, per Galán la guerra al narcotraffico era solo il primo e necessario passo per la rifondazione del Paese. Per molti mesi lui e i suoi stretti collaboratori avevano lavorato a un progetto di Assemblea Costituente che contemplava dai diritti umani alla tutela delle risorse locali, uno dei chiodi fissi del politico, convinto che il governo non li valorizzasse nell’interesse della gente. Un altro leit motiv era il decentramento: potenziare la politica locale in modo da avvicinarla ai cittadini, ricostruendo la fiducia nelle istituzioni. E poi c’era lo Stato interventista, e una economia non troppo aperta e libera da penalizzare i prodotti del campo, rendendoli così poco redditizi da spingere i contadini a coltivare coca e marijuana. “La forza del popolo sta nella coscienza dei suoi diritti e nella coscienza dei suoi doveri. Nella comprensione che la Colombia sta cominciando un’altra epoca storica”, gridava Galán nelle piazze gremitissime, e a tutti sembrava che quel signore dagli occhi azzurri e dai capelli scomposti, trascinatore e carismatico, li avrebbe davvero guidati in un mondo nuovo, credibile ed equo.

Non è un ragazzo del popolo, Luis Carlos, ma il figlio di una famiglia bene con studi nelle migliori scuole del Paese che ha frequentato con risultati brillantissimi. Diventa giornalista del quotidiano El Tiempo e poco dopo si sposa con una giornaliste etoile del giornale, Gloria Pachón, sorella della futura ministra dell’Istruzione Maruja del cui sequestro da parte delle Farc avrebbe raccontato Gabriel Garcia Marquez nel romanzo Notizia di un sequestro. Aveva poco più di vent’anni quando decise di buttarsi in politica. Era brillante e coraggioso, convinto che il bene trionfi prima o poi sul male, fiducioso nel genere umano e inoltre energico, combattivo. Soltanto dopo molte insistenze riuscirono a fargli indossare il giubbotto antiproiettile, la sera del comizio a Soacha, ma fu comunque inutile visto che la mitragliatrice usata dal sicario riuscì a forare anche quella protezione. La sua ostinazione per la guerra alla droga non si doveva a un moralismo proibizionista, e il figlio Juan Manuel, oggi senatore, è certo che se fosse stato al posto suo si sarebbe battuto per la legalizzazione della marijuana, esattamente come sta facendo lui.

Se ancora non si è arrivati a condannare tutti i responsabili si deve al fatto che molti testimoni sono stati eliminati. L’esecutore dell’omicidio morì poco tempo dopo, in una operazione di polizia così come molti protagonisti del complotto. Per esempio il colonnello dell’esercito Luis Bohórquez, capo militare di Puerto Boyacá e socio della mafia di Escobar: lo ammazzarono un anno dopo il crimine, mentre si accingeva a confessare quello che sapeva del “magnicidio”. E Orlando Monroy, detective del DAS che aveva cominciato a parlare dell’attentato prima che venisse realizzato, sparì nel nulla mentre Alberto Romero, eminenza grigia dello stesso Das, stava per essere ascoltato dai giudici nel 2012 quando morì improvvisamente. Informatore del DAS e considerato il punto di passaggio tra il Cartel di Cali (coinvolto anch’esso, secondo le ultime indagini) e il generale Maza Márquez, allora direttore del Das, l’ex ministro Rommel Hurtado venne invece fatto fuori a colpi di pistola in una strada della città di Antioquia.

Altri politici a militari di alto rango coinvolti nei fatti non sono stati nemmeno chiamati a dichiarare, e dire che le testimonianze c’erano, e le denunce. La parte più squallida di tutta la vicenda è il depistaggio a cui si sono dedicati gli addetti alle indagini. Dell’omicidio fu accusato il chimico Jubis Hazbún, benché molti assicurassero di averlo visto in quelle stesse ore lontano da Soacha. Condannato e poi prosciolto in appello dopo aver passato quattro anni in prigione, morì di infarto poco dopo la scarcerazione. A mano a mano che venivano fuori testimonianze, denunce e soffiate, il quadro di quell’omicidio mostrava una trama sempre più inquietante, collusioni ai più alti livelli e la partecipazione di tutti gli organi di polizia e dei servizi, a partire da Miguel Maza Márquez che diventò più tardi un eroe antinarcos, ma intanto fece di tutto per sviare le indagini, e degli ufficiali della polizia di Cundinamarca che dopo l’omicidio brindarono con abbondante whisky alla morte “di quel figlio di puttana”. E infine i vertici del Sijin (la Polizia Nazionale) e i responsabili della sicurezza del comizio che, per ordini superiori, ridussero scorte e polizia molto al di sotto degli standard minimi. “Era una morte decisa e annunciata, un omicidio di Stato”, hanno dichiarato molti analisti.

Cos’è rimasto di Galán, oltre al ricordo e ai sogni infranti, che solo di recente la Colombia è riuscita a ricostruire, almeno in parte? Non molto, in realtà. Morto lui, il galánismo si è stemperato e annacquato in una miriade di personaggi più interessati a capitalizzare il credito del candidato per conquistare del potere che per idealismo. Diversi galánisti sono entrati a far parte del governo di Ernesto Samper, la cui campagna elettorale era stata finanziata con i soldi dei narcos. L’annullamento dell’estradizione venne approvato, e solo a quel punto Escobar si consegnò alle forze dell’ordine dichiarando “generosamente” di farlo per la pace nel Paese, e in cambio gli venne assicurata la reclusione farsa in cui faceva il bello e cattivo tempo come se si trovasse nel suo regno, permettendosi di convocare personaggi che puniva e prezzolava, a seconda dei casi.

Probabilmente, l’eredità di Galán consiste nel ricordo del suo impegno, e nell’esempio etico e politico sancito dal martirio, non importa che nessuno sappia dire con esattezza se la sua presidenza avrebbe davvero cambiato il corso delle cose: l’assurda alternanza di due partiti pressoché identici e altrettanto corrotti e lo strapotere dei cartelli, ai tempi in cui la droga rappresentava il cinque per cento del Pil e ci voleva parecchio coraggio e molto senso dello Stato per sradicarla in nome di un’onestà che molti nel Paese consideravano una zavorra inutile, o una pretesa da borghesi ingenui.


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In Perù gogna pubblica per i politici inadempienti

Non si sa bene come sia andata. Come si è svolto il processo, ammesso ci sia stato. Se il condannato era colpevole, o è stato vittima di un errore collettivo. Sta di fatto che, una mattina dello scorso maggio, il sindaco distrettuale di Pampa Hermosa, paesino nella regione peruviana di Loreto, una delle più povere del Paese, è stato convocato insieme a due funzionari dalle autorità comunitarie per rendere conto di un progetto mai realizzato, benché promesso in campagna elettorale. Il sindaco si è difeso, accampando giustificazioni, ma le autorità non gli hanno creduto e per punirlo lo hanno caricato su un mulo e portato in giro per il paese, in una sorta di gogna ambulante che ha scatenato l’entusiasmo degli abitanti. “È stata una umiliazione terribile”, si è lamentato poi Aníbal Jiménez Guerrero, il sindaco, parlando con i giornalisti. “Macché processo. Ci hanno teso una imboscata e legati e caricati su quegli asini senza spiegarci perché. Non c’è nessuna promessa incompiuta, avevo già spiegato ai miei concittadini che il budget era stato ridotto del 45 per cento e i soldi non sono bastati per tutto”. Eppure gli è andata bene, considerato che all’inizio volevano frustarlo nella pubblica piazza, e hanno cambiato idea soltanto alla fine, probabilmente per paura delle conseguenze legali. Pochi giorni prima, il sindaco del paese di Juli era stato sottoposto a una fustigazione pubblica per motivi simili: aveva promesso ai suoi concittadini la costruzione di una certa sala per riunioni e a due anni dall’insediamento di quel progetto non si era visto niente. Esasperate dall’attesa, alcune autorità cittadine lo hanno trascinato nella piazza principale dove, davanti a una folla inferocita che gridava Mentiroso (Bugiardo), gli hanno appioppato una solenne scarica di frustate ma non solo: a chi cercava di filmare la scena sono toccati colpi e calci, e solo pochi frammenti della ben poco edificante cerimonia sono arrivati a un noto portale. Salvato dalla polizia, l’alcalde ha dato una versione che non coincide affatto con quella dei suoi “giudici” ma questo è ininfluente.

Più rilevante è l’intervista rilasciata dal giudice per la prevenzione della criminalità che, arrivato sul posto, ha dichiarato molto scontento: “Non possiamo più accettare queste cose. Non si può permettere che una popolazione insoddisfatta si arroghi il diritto di castigare i propri governanti, facendosi giustizia da sola”. Già, perché i due casi del maggio scorso non sono affatto un’eccezione, almeno in una larga fetta dell’interno del Perù: dove l’impunità sistematica delle autorità e le distanze non solo fisiche dai centri della giustizia hanno prodotto una sorta di giustizia fai da te, che a dire il vero nasconde in molti casi vendette personali e faide e confonde spesso giustizia comunitaria con giustizia popolare, le regole di antica storia della tradizione indigena-campesina e le abitudini violente e recenti. Pescando nel torbido, alcuni si richiamano al diritto consuetudinario per giustificare infatti la giustizia amministrata dagli abitanti mentre altri, di segno opposto, puntano il dito sulla tradizione indigena come se fosse responsabile di abusi e gogne pubbliche.

Nessuna delle due parti ha completamente ragione, visto che la giustizia comunitaria è sostanzialmente pacifica ed è riconosciuta perfino dall’articolo 149 della Costituzione, che la considera un sistema complementare a patto che non violi diritti fondamentali come l’integrità fisica del condannato, mentre la seconda è assai più banalmente l’aspirazione della comunità a farsi giustiziere. Se la prima ha come scopo la risoluzione delle controversie, la seconda ha come ratio la tentazione della vendetta di branco che dalla punizione dei politici si estende a quella di qualunque reo: come negli innumerevoli tentativi di linciaggio e nei casi di presunti ladri catturati e poi bruciati vivi dagli indignati concittadini, salvo scoprire a volte che erano innocenti. “Se lo Stato è imbelle spetta a noi tutelarci”, ha dichiarato uno dei molti pasionari della giustizia popolare. E nella pagina facebook dell’organizzazione Chapa tu choro y…(Acchiappa il tuo ladrone e…), che ha molte varianti tra cui Chapa tu choro y dejalo paralitico e Chapa tu choro y descuartizalo (squartalo), centinaia di visitatori rivendicano il proprio diritto a castigare chi viola le regole. Lanciata dalla fujimorista Cecilia García dopo che la magistrata del Juzgado Especializado en lo Penal de Lima, Haydee Vergara Rodríguez, aveva decretato il rilascio di 52 dei 56 accusati di aver saccheggiato una abitazione privata, misura che aveva scatenato le ire di molti, Chapa tu choro è la campagna di maggiore successo tra quelle che, al grido simbolico di Più sicurezza per il Paese, vellicano istinti non molto illuminati ma diffusi: secondo una inchiesta realizzata nel settembre scorso dalla agenzia Datum, circa il 53 per cento dei peruviani sarebbero d’accordo con l’idea della Garcia. Interpellata in quell’occasione da tutti i media, a dire il vero molto critici, la donna aveva spiegato con orgoglio: “La nostra iniziativa deve servire da lezione ai delinquenti dato che applica una legittima difesa proporzionale”. Poi, si era buttata in politica.

 

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Cile: il genero di Pinochet dietro gli scandali della politica 

Nemmeno con uno smisurato sforzo di immaginazione i cileni che uscivano dalla dittatura avrebbero potuto immaginare che a dominare la scena politica sarebbe stato, di lì a pochi anni, l’allora genero di Pinochet, l’oggi settantunenne Julio Ponce Lerou. Magnate del litio e del salnitro che si arricchì ai tempi della dittatura grazie alla privatizzazione di varie aziende di Stato ma i cui legami con le alte sfere si era convinti si sarebbero estinti con la fine del regime.

E invece eccolo qui, sulle prime pagine di tutti i giornali: associato ai nomi non solo di politici di destra ma anche di molti dei più autorevoli esponenti del centro-sinistra che dal ’90 governa il Paese: personaggi del calibro dell’ex presidente Eduardo Frei Montalva e del senatore socialista Carlos Ominami, accusati di aver accettato soldi per le campagne elettorali spacciando quei finanziamenti, irregolari, come compensi per servizi inesistenti: studi che non sarebbero mai stati fatti, ricerche false ma certificate da tanto di fatture.

Ad applicare quel sistema sarebbero gran parte dei grossi gruppi economici cileni e in testa a tutti la potentissima Soquimich o Sqm, compagnia che sfrutta e commercializza salnitro, potassio e litio e di cui era presidente fino all’aprile dello scorso anno Ponce Lerou, appunto, mentre a gestirla da qualche settimana è il fratello Luis.

Scoppiato poco più di un anno fa, lo scandalo Sqm si è gonfiato con un effetto valanga in cui ogni nome di politico coinvolto ne porta con sé altri fino a raggiungere, finora, la bella cifra di circa duecento indagati tra intermediatori, politici e imprenditori di alto calibro tra cui svetta appunto El Yerno, Il Genero, come per molto tempo lo hanno chiamato i cileni: un ingegnere con vaghe simpatie di sinistra che dopo il matrimonio con Veronica Pinochet, nel 1969, diventò un imprenditore spregiudicato e uno degli artefici, negli anni Ottanta e in piena dittatura, del processo di privatizzazione delle più grosse compagnie di Stato a cui deve non solo la sua carriera ma anche l’esponenziale aumento della sua fortuna personale. Caduto il dittatore grazie al referendum popolare del 1988, Ponce Lerou cominciò a tessere legami con i politici che all’inizio si limitavano alla Udi, il partito di estrema destra e legato all’ex dittatore, e a mano a mano si estesero a tutti gli schieramenti: perfino al centro-sinistra del presidente e poi candidato presidenziale Eduardo Frei Montalva, che nella scorsa campagna elettorale la Sqm avrebbe finanziato indirettamente pagando “servizi” sia al fratello sia ad alcuni tra i suoi più stretti collaboratori. Eppure, proprio il padre dell’ex candidato, l’ex presidente Eduardo Frei Ruiz-Tagle, era stato nei primi anni Novanta tra i più agguerriti avversari dell’ex Yerno (che nel frattempo si era separato da Veronica), per i sistemi feudali con cui quest’ultimo gestiva le miniere di salnitro nel nord del Cile, sottoponendo i dipendenti a orari inumani e a un pesantissimo clima di intimidazione.

Le condizioni dei lavoratori sono ovviamente cambiate, a mano a mano che la democrazia prendeva il posto del regime non solo sulla carta, e sono cambiati anche i rapporti del magnate con i politici. Secondo Forbes, la fortuna di Ponce Lerou ammonta oggi a 2.100 milioni di dollari, è il nono uomo più ricco di un Paese in cui le ricchezze si concentrano nelle mani di diciotto famiglie. Tra i casi più eclatanti dello scandalo Sqm c’è stato il pagamento della consueta fattura all’ex ministro dell’Economia del precedente governo, Pablo Longueira, che non a caso ha poi proposto una legge sulle royalties per le aziende minerarie (approvata il 10 ottobre del 2010) il cui testo gli era stato dettato parzialmente dal direttore della SQM. D’altronde, è ovvio che i finanziamenti ai partiti siano un modo per ungere le ruote della macchina politica, predisponendo benevolmente parlamentari e ministri verso i finanziatori. Un altro beneficiato i cui rapporti con El Yerno hanno scioccato l’opinione pubblica è Marco Enríquez-Ominami, figlio dell’eroico fondatore del Mir, Miguel Enríquez, ucciso a 26 anni dal regime. Ex candidato di centro-sinistra alle precedenti elezioni e giovane faccia della politica, avrebbe non solo accettato pagamenti per servizi mai esistiti dalla Sqm ma, anche, utilizzato nei tre mesi di campagna presidenziale del 2009 un aereo privato il cui pagamento non ha mai denunciato. Tra i vari fratelli di Ponce Lerou c’è anche un maestro di yoga abbastanza conosciuto che difende Julio: “Se c’è uno yogi in famiglia è lui. E’ completamente tranquillo, la personificazione del Buddha”.

 

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La letteratura e i dialoghi di pace tra Farc e Stato colombiano all’Avana

Da quando gli hanno diagnosticato una pesante malattia degenerativa che lo sta portando alla cecità, il guerrigliero delle Farc Jesús Santrich (nome di battaglia per Seusis Pausivas Hernández) ha cominciato a leggere in braille e ad ascoltare gli audiolibri. Non solo non ha abbandonato la passione per la letteratura ma la coltiva più che mai, in particolare da quando è entrato a far parte della delegazione dei dialoghi di pace tra Farc e Stato colombiano all’Avana e passa le giornate in quel conclave che di giorno impegna i delegati a negoziare e la sera li inchioda a saggi di politica ed economia per puntellare le reciproche richieste, o ampliare gli orizzonti per definire la Colombia che verrà.

Bandita la televisione, i componenti delle due delegazioni si dedicano dunque alla lettura durante le ore libere e il settimanale colombiano Semana è riuscito a intercettarne alcuni e a farsi raccontare i rispettivi gusti letteral-saggistici e i libri di corvée. Ed è così che sono saltate fuori letture inaspettate, passioni che i dogmatici troverebbero in contrasto con le ideologie professate. Vedi quella per Mario Vargas Llosa del sessantatreenne Pablo Catatumbo, comandante del Bloque Occidental e membro del Segretariato delle Farc, l’uomo che informalmente ha realizzato i primi abboccamenti per la pace con il presidente Juan Manuel Santos (sfociati poi nei dialoghi cominciati a Oslo nell’ottobre del 2012): appassionato di riviste di gossip e romanzi storici che in questi giorni è molto concentrato su una biografia di Franklin Delano Roosevelt e sulla “Corrispondenza segreta di Stalin con Churchill, Attlee, Roosevelt e Truman”, autentica chicca che ha scovato in una libreria dell’Avana. “E’ vero che Vargas Llosa è di destra”, ha dichiarato. “Però se si analizza la sua opera si trovano somiglianze con la nostra società e un grande realismo. Due esempi sono “La festa del caprone” e “La guerra della fine del mondo”.

Anche la predilezione di un altro delegato-guerrigliero, Pastor Alape per Jorge Luis Borges, non certo un esempio di impegno di sinistra, può sembrare strana date le posizioni molto radicali delle Farc, ma al giornalista che gli chiedeva se le due cose non stridessero, Alape ha risposto saggiamente che idee politiche e letteratura sono cose diverse, che non è necessario pensarla come uno scrittore per apprezzarlo. Tant’è che le poesie di Borges sono tra le letture preferite anche del generale in pensione e componente della delegazione del Governo Rafael Colón, con cui Alape scambia libri così come fa l’ormai cieco Santrich con l’altro ex generale-delegato Jorge Enrique Mora, a cui ha regalato un suo scritto sulla dislocazione delle basi Usa in Colombia. La passione di Santrich per la letteratura risale all’infanzia ma ha dovuto accantonarla negli anni di guerriglia e selva, quando le esigenza della lotta rendevano difficile la rilettura dei suoi classici preferiti tra cui l’Ulisse di Joyce, libro di culto anche per il commilitone Alape.

Per quanta poca simpatia si possa nutrire per la sua causa, Santrich è un personaggio interessante. Appassionato di pittura, musica e letteratura, fanatico di Rembrandt e Beethoven e autore di una raccolta di racconti brevi ispirati alle narrazioni dei tayronas, i gruppi indigeni che vivono nella Sierra Nevada, ha dichiarato in una intervista alla rivista Resistencia che la perdita della vista ha fatto nascere, nel suo caso, possibilità compensatorie. “Non si vede solo con gli occhi. Bisogna avere sensibilità, bisogna osservare con gli occhi dell’anima, che normalmente non utilizziamo”. E ha aggiunto: “Il mio fratello maggiore, che è stato assassinato, era musicista e pittore. Credo che se non fossimo stati in guerra, saremmo stati pittori o cantanti. O ci dedicheremmo a declamare, che è meglio che andare in giro a sparare”.

Aveva 21 quando si è unito alle Farc, fresco di laurea in Scienze Sociali e da allora ha fatto una notevole carriera visto che è diventato uno dei membri dello Stato Maggiore Centrale. Provoca sempre una certa commozione vederlo entrare nelle sale appoggiato a un bastone o sorretto da Iván Márquez, il pezzo forte della delegazione guerrigliera che ha preferito non parlare delle sue letture (si sa soltanto che passa molto tempo a leggere a voce alta per il compagno cieco). E intanto i libri creano sodalizi, servono da collante anche trasversale. Oppure aprono spiragli, curiosità per le idee avversarie. Il superdelegato del governo e Commissario per la Pace Sergio Jaramillo è per esempio alla prese con una biografia del Che, anche se si tratta di quella non troppo elogiativa di Jon Lee Anderson, inviato del New Yorker ed espertissimo di America Latina. “Mi ha fatto capire l’atmosfera che si respirava in un’altra epoca e che ha ubriacato molta gente, ma non ha toccato me”, ha dichiarato a Semana. Jaramillo è un vero erudito, studioso di lingue antiche e in particolare del greco.

Le sue letture spaziano da Robert Walser a Kafka, a “La caduta dell’impero romano” di Peter Heather e ha appena partecipato al festival di letteratura dell’Hay di Cartagena insieme a Humberto De La Calle, l’altro stratega dello Stato dei dialoghi di pace anche se la sua storia è un po’ diversa da quella del collega. Seguace del movimento nadaista quand’era giovane, partecipò ai vari falò per bruciare i giornali di destra e nel frattempo fondava, con alcuni amici, il circolo Las 13 Pipas dove leggeva a voce alta i testi di Julio Cortázar e Gabriel García Márquez. Più tardi è diventato avvocato e politico, editorialista e magistrato della Corte Suprema di Giustizia in anni caldi della storia colombiana.

E’ un uomo colto e aperto, che legge dall’immancabile Borges a Stephen Hawking e le cui ultime letture sono “Combatientes, rebeldes y terroristas. Guerra y derecho en Colombia” di Iván Orozco e “La Oculta” di Héctor Abad Faciolince. Entrambi i libri sono pertinenti ai dialoghi, ciascuno a suo modo. Il primo è un saggio sulla depenalizzazione del delitto politico e l’altro un romanzo che parte da una finca, una fattoria: una famiglia la cui storia ruota intorno a una finca. La terra come elemento fondante della società antioqueña e colombiana in generale, catalizzatrice di sentimenti opposti come conservatorismo, accaparramento o, al contrario, distribuzione. Vengono a galla questioni controverse come l’etica del lavoro e della ricchezza e il senso della sinistra ai giorni nostri: dove per sinistra si intende un pensiero di giustizia sociale, antiautoritario e tollerante, insomma molto lontano da quello delle Farc, o forse delle Farc prima dei dialoghi. Perché tra le righe delle interviste ai guerriglieri il fosso che separa le due fasi traspare spesso, per esempio quando Catatumbo dichiara mestamente che la cultura protegge dalla guerra, dalla violenza, e dagli errori che nascono dalla violenza.

 

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Lulu e l’arte a Città del Messico 

Ha preso il nome dal negozio di succhi di frutta proprio accanto: vetrina di ananas e mango affacciata sulla larga e vivace calle Baijo del quartiere Roma, zona di artisti e atelier. Martin Soto Climent e Chris Sharp vi fanno colazione tutti i giorni e in segno di ringraziamento hanno adottato il nome, Lulu, per la galleria che dirigono da due anni, la più piccola del Messico e probabilmente del mondo, almeno tra quelle di una certa importanza: nove metri quadri in tutto, una camera nemmeno troppo grande all’interno dell’appartamento in cui vivono i fondatori. Un cubo candido che ospita artisti di nome ma poco noti a Città del Messico e gioca sulla filosofia del meno è più: lo spazio piccolo costringe al rigore. “Sono un fanatico dell’economia”, spiega Chris Sharp, 40 anni, nato a New York ma residente a Città del Messico. “Amo Borges e le storie brevi di Donald Barthelme, penso che l’unico romanzo veramente perfetto che sia mai stato scritto sia Spanking the Maid di Robert Coover e che la perfezione sia imprescindibile dall’economia”. Curatore di mostre indipendente, Sharp ha conosciuto Martin in occasione di un’espozione di quest’ultimo in Australia, si è stabilito a casa sua a Città del Messico ed è da quella convivenza-sodalizio che è nata Lulu, non proprio l’unico artist-run space della capitale ma il solo di quelle dimensioni. “Lo abbiamo fatto per stupire? No. Per vanità come c’è stato chiesto? Rispondo con una domanda: e se anche fosse? E’ più importante la motivazione o il risultato? Quello che conta è che gli abitanti di Città del Messico possono accedere a opere di artisti che non hanno mai visto nel Paese”. I genitori di Martin, e parte dei suoi familiari, sono designer industriali di successo e lui sembrava destinato a seguirne le orme, ma si era appena laureato quando capì che la sua strada era l’arte. Ed è così che cominciò a creare installazioni con oggetti che trovava intorno alle sale destinate a ospitare le sue esposizioni (bottiglie, pezzi di biciclette) e trasformava senza però alterarli, né distruggerli. Le sue creazioni sono state esposte in musei importanti anche se al momento è soprattutto preso da quel progetto di Lulu che, accolta al principio con diffidenza o stupore, ha ospitato finora una decina di mostre di artisti interessanti come la newyorkese Lisa Oppenheim, già habituée di spazi come il Moma e il Guggenheim con le sue opere sui legami delle immagini con le proprie origini. E la neozelandese Kate Newby, cosmopolita vissuta a New York e a Fogo Island, autrice di un percorso che dallo spazio della galleria prosegue tra le piante del cortile e sul tetto. Nota per i lavori in cui la presenza dell’artista è minima, la Newby aveva fatto scalpore quattro anni fa realizzando presso l’Hopkinson Mossman di Auckland lo show I’ll follow you down the road, in cui invitava i presenti a superare un’apertura nel muro che separava la galleria dalla strada, seguendo un sentiero di capocchie di chiodi sulla falsariga delle briciole della fiaba di Hansel e Gretel. Benché i criteri con cui vengono scelti gli artisti non siano facilmente codificabili, tra i requisiti c’è la capacità di superare i vincoli convenzionali imposti dal linguaggio, per dirla con le parole di Martin, e la capacità di interagire con il paesaggio della capitale: da molti anni uno dei laboratori artistici più interessanti dell’America Latina, che spazia dall’elaborazione delle tradizioni alla tecnologia applicata all’arte. La cosa singolare è che Lulu si finanzia da sola, o meglio sono i due fondatori a farsi carico di tutto, visto che le visite sono gratuite. Una sorta di attività mecenatesca, anche se ai curatori non piace la parola. “Non voglio pensare che questa nostra iniziativa abbia a che fare con la generosità perché ci metterebbe in una sorta di filantropica posizione nobile”, spiega Chris Sharp. “Allo stesso tempo credo che abbiamo creato una realtà vincente. In altre parole, abbiamo fatto del nostro meglio per ospitare mostre belle, bene organizzate e professionali senza chiedere soldi allo Stato”. E’ probabile ci siano riusciti, visto che la galleria ha impressionato dal direttore del Moma Glenn Lowry alle scolaresche di liceali che arrivano da tutto il Paese.

 

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L’Ejercito del Pueblo Paraguayo

In questi tempi trucidi di efferatezze e morti atroci che troppi gruppi criminali non solo eseguono ma mostrano sul web, basta davvero poco ai delinquenti per risultare vagamente umani: per esempio che i sequestrati vengano trattati decorosamente e che soltanto pochi vengano alla fine uccisi, ma senza sofferenze inutili. L’Ejercito del Pueblo Paraguayo non solo è il movimento guerrigliero più piccolo al mondo – una ventina di uomini che cercano con impegno di destabilizzare il Paese – ma mostrano qualche tratto di empatia, osservano qualche banale regola di civiltà come quelle che si leggono nel manuale per il vero combattente, trovato qualche anno fa e pubblicato nella versione completa dal quotidiano La Nacion: l’obbligo di trattar bene i prigionieri, appunto, la cui inosservanza comporta pene severissime. Quando li guardi su you tube, in cui hanno attivato un canale loro, quei guerriglieri che sembrano boy scout in mimetica e ridono tra gli alberi, o lanciano discorsi al popolo e allo Stato con la parlata dolce, languidissima della loro terra, non viene voglia di prenderli sul serio. E men che meno quando cominciano con quella cantilena fuori tempo il cui appeal si è perso a mano che cambiava il mondo. “Il Epp è una organizzazione guerrigliera marxista-leninista, nutrita con gli ideali dei padri della patria. E’ un esercito popolare rivoluzionario dei poveri, per difendersi dalle vessazioni e dagli omicidi, commessi dai sicari, dagli allevatori, latifondisti della soja e e dalle forze repressive dello Stato”, scandisce in un video il nuovo leader del gruppo, Osvaldo Villaba detto Comandante Javier González, un tipo giovane dall’espressione affabile, accanto a lui una ragazza giovane e carina che poi risulterà essere la sorella, perché nel piccolo Epp si fa tutto in famiglia, o quasi.

Eppure quel movimento a cui non daresti due lire (e che da qualche anno si è perfino scisso, dando vita alla Aca, Agrupación Campesina Armada), è una delle priorità del governo di Horacio Cartes, molto discusso presidente di destra dall’agosto del 2013 che, pochi giorni dopo l’insediamento, ha proclamato lo stato di emergenza perenne che permette l’invio di truppe dell’esercito nella zona del Nord in cui si muove l’Epp: una misura la cui ricaduta sono le violazioni sui campesinos – stando alle denunce di molte ong – accusati di fiancheggiare i guerriglieri. Benché esigui, questi ultimi hanno dato parecchio da pensare ai vari governi fin da parecchio tempo prima della loro nascita ufficiale, il 1 marzo del 2008. Il gruppo fondatore arriva dal partito Patria Libre, sciolto per la forte contiguità con il suo braccio terrorista e tra i cui membri c’erano personaggi come l’irriducibile Alcides Oviedo Brítez, un tipo dalla faccia dura che in una udienza del processo in cui è imputato per sequestro si è buttato addosso al giudice e ha cercato di picchiarlo, approfittando di un momento in cui gli avevano tolto le manette. E la moglie di questo, Carmen Villalba, capelli neri e fitti e una perentoria camminata da cow-boy, sulle cui gesta c’è una monumentale e non lodevole bibliografia: condannata a quindici anni di prigione per sequestro e considerata un elemento di alta pericolosità, ha minacciato e preso in ostaggio più volte le compagne di cella, catturato e cercato di ammazzare una guardia carceraria e organizzato la propria evasione mandando messaggi in codice camuffati da disegni per bambini. Da qualche tempo si proclama portavoce dell’Epp e tra le doti guerrigliere vanta un fisico allenatissimo da ore di ginnastica nella sua cella e un’esemplare abilità nel maneggiare le armi. Benché compresa nel suo ruolo e molto fiera della sue varie imprese, la Villalba ha sempre negato il coinvolgimento nel sequestro di Cecilia Cubas, 31enne figlia del’ex presidente della Repubblica che, rapita nel 2004, venne trovata morta cinque mesi dopo nonostante il pagamento del riscatto. La madre di Cecilia, la senatrice Mirta Gusinky, è tra le deputate che hanno votato a favore dello stato di emergenza, due anni fa: nessuno ha mai pagato per l’omicidio della figlia, che si imputa ai membri di Patria Libre, è comprensibile la sua amarezza. Su quel filone inaugurato dal sequestro Cubas si innesca l’Epp, che nonostante le dimensioni ridicole ha già ammazzato quaranta persone in sette anni – tra poliziotti, militari e civili, di cui alcuni campesinos – assaltato stazioni di polizia e commissariati e sequestrato proprietari terrieri e militari, alcuni dei quali sono stati uccisi. Si è concluso invece felicemente il rapimento più mediatico, quello del diciassettenne Arlan Fick, figlio di un possidente il cui fondo era stato attaccato dall’Ejercito del Pueblo nell’aprile dell’anno scorso e il cui rilascio è avvenuto dopo nove mesi quando ormai tutti lo davano per morto, dato che la famiglia aveva pagato un riscatto di 500.000 dollari ma del ragazzo per mesi nessuna traccia, nemmeno l’ombra di una prova di esistenza in vita. Biondo, occhi chiari e un viso angelico più giovane della sua età, il giovane Arlan ha emozionato per quasi un anno il Paese e quando, intervistato dopo poche ore dal suo rientro a casa, felice come una pasqua e senza tracce di rancore, ha rilasciato le prima dichiarazioni la gente è rimasta un po’ stupita: “Mi hanno trattato benissimo, non mi hanno fatto mancare niente, ho mangiato molto bene. Ma sono felice di essere tornato, felice come non si può dire”. E qualche giorno dopo, era saltato fuori che lui e il padre stavano preparando cento pacchi dono da consegnare a Natale alle famiglie povere di una certa zona, su richiesta dei guerriglieri. “A un certo punto mi hanno chiesto: “Per caso sei taccagno?”. E io ho risposto: “No, non tanto”, e a quel punto mi hanno proposto di preparare dei pacchi dono per i poveri, una volta che fossi stato liberato e io ho detto che sì, mi sembrava una buona idea”. Quella delle ceste da regalare è una richiesta piuttosto frequente che i terroristi fanno ai sequestrati. Nelle zone rurali in cui operano, la povertà è ancora altissima nonostante il Pil del Paese sia in crescita (un paraguayano su cinque è povero e uno sui dieci vive in condizioni di povertà estrema stando alla Banca Mondiale, in un Paese in cui il due per cento della popolazione controlla l’85 per cento del territorio).

Ed è per questo che se ad Asuncion, la capitale, e nelle zone meridionali e centrali quello dell’Epp è un fenomeno lontano, marginale, e in genere esecrato, tra i campesinos del nord il consenso è maggiore, eppure alcuni esponenti dell’opposizione sostengono che il gruppo è una messinscena, un nemico amplificato per giustificare iniziative drastiche contro i contadini, per esempio mandarli via da una terra in cui sono in programma grandi opere come l’apertura di miniere e lo sfruttamento intensivo di terre. Sta di fatto che i militanti continuano a non farsi prendere e che l’attuale leader, il giovane Villalba, per almeno tre volte è riuscito a eludere l’accerchiamento delle forze militari. Possibile, con una organizzazione così ridotta per quanto ben fornita di armi, da AK-47 a FAL M-16 e lanciagranate? Benché la principale fonte di finanziamento siano i sequestri, in cambio della liberazione dei rapiti i terroristi/guerriglieri non sempre chiedono soldi ma il rilascio di militanti in carcere. E’ il caso del sottoufficiale Edelio Morínigo, catturato nel luglio del 2014 e per cui tutti, a cominciare dalla madre, pensano al peggio. Il fatto è che il sedicente esercito del popolo pretende la liberazione di sei compagni in prigione e il governo ha detto niet, picche, e da quel momento di Edelio non si è più saputo niente. Scuro, capelli corti e neri e un’aria bonacciona, è apparso l’ultima volta in un video insieme ad Arlan, prima che questi venisse rilasciato. Erano entrambi in un accampamento di una qualche zona della selva, né legati né bendati o in manette. Edelio è un figlio del popolo, la sua famiglia è poverissima e viveva in gran parte dello stipendio di quel ragazzo militare. La madre è la tipica campesina, fa tenerezza quando parla del figlio. Dice che le speranze si stanno diluendo. E che lo Stato li ha piuttosto abbandonati. In occasione della “Giornata dell’Agente”, nell’agosto scorso, ha organizzato una messa a cui ha invitato i commilitoni di Edelio, nel paesino settentrionale di Arroyito in cui vive la famiglia. Non è andato nessuno, soltanto qualche vicino. Gli alti comandi dell’esercito tuonano che la liberazione del sottoufficiale è una priorità, ma non è vero. Non gliene importa niente, è solo un povero, senza influenze. E’ solo un povero anche per l’Epp, che infatti non lo libera.

 

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Manuela Escobar, la principessa infelice

Ed eccola Manuela Escobar, o meglio le sue foto. Capelli scuri, lisci, viso dolce. Un personaggio quasi inedito, dato che le ultime notizie che la riguardano risalgono al ’99: quando il fratello Juan Pablo e la madre María Victoria detta Tata vennero arrestati per riciclaggio di denaro e tutti seppero a quel punto che la famiglia Marroquín, di classe media, che da cinque anni viveva in un quartiere residenziale di Buenos Aires altro non era che la famiglia di Pablo Escobar, fuggita dalla Colombia nel ’94, un anno dopo che una straordinaria operazione di polizia e Dea aveva messo fine all’impero del Capo, sparandogli mentre scappava sui tetti di un quartiere di Medellin, la sua città natale. Tata e Juan Pablo vennero scagionati dalle accuse e messi in libertà (dopo diciotto mesi la prima e 45 giorni il secondo) ma nel frattempo la placida esistenza di Manuela, vivace adolescente che in Argentina aveva trovato un equilibrio, molti amici e la tranquillità di una ragazzina normale, era crollata sotto lo strepito mediatico e il trauma degli arresti. Smise di andare a scuola e si chiuse in casa, troncò con le feste, gli amici e le uscite. Si mise a studiare privatamente con professori che le impartivano lezioni a domicilio. Passò per varie crisi depressive e sembra abbia cercato di togliersi la vita. Quando, molti anni dopo la chiusura del processo, madre e fratello cominciarono a dare udienza alla stampa, Manuela (che in Argentina aveva adottato il nome di Juana) rifiutava di presentarsi, o di far parte dei ritratti di famiglia. Mentre Juan Pablo, alias Sebastián Marroquin, approfittava della fama paterna confezionando certe magliette molto trash con la faccia del Capo come monito a non ripeterne le gesta e scriveva addirittura un libro autobiografico, Manuela cercava di sfumare nell’anonimato, e di lei si sapeva soltanto, e con vaghezza, che aveva studiato pubbliche relazioni. Finché non hanno cominciato a circolare quelle foto, due mesi fa, e in contemporanea è uscito il libro Cierra los ojos princesa, del giornalista e scrittore paisa (di Medellin) Alejandro Castaño. Che, nel 2007 aveva passato venti giorni a Buenos Aires con i familiari di Escobar, nella cui casa cui si recava la mattina presto per farsi raccontare la loro vita all’estero e scrivere una storia che, alla fine, non ha mai visto la stampa. In quelle visite quotidiane, Manuela non c’era. Faceva in modo di uscire prima, e di rientrare soltanto quando era sicura che il giornalista se ne fosse andato. Ed è così che quando Castaño ha poi deciso di scrivere un libro non più sulla famiglia ma su di lei, ha dovuto basarsi su testimonianze, e per lo più di quando era bambina, che poi alla fine era la parte che interessava i lettori: l’infanzia anomala dell’adorata figlia del più famoso narcotrafficante di tutti i tempi, quei primi nove anni iperprotetti e così viziati che a Manuela bastava dire che voleva una giraffa perché il padre gliela facesse portare dall’Africa. O che esprimesse il desiderio di possedere un unicorno perché don Pablo ordinasse di applicare il corno di un toro sulla testa di un cavallo per accontentarla, non importa che poi il cavallo sarebbe morto per un’infezione. Il ritratto che viene fuori è di un padre affettuosissimo, innamorato di quella figlia minuta a cui lo scoppio di una bomba – un attentato nell’edificio in cui vivevano gli Escobar nel 1988 e in cui la famiglia si salvò per miracolo – aveva lesionato un timpano, affronto di cui Pablo si era vendicato con speciale ferocia sugli autori, gli uomini del suo nemico Pacho Herrera del Cartel de Cali. E va da sé che anche Manuela era attaccata morbosamente al padre, che vide sempre come una specie di supereroe, un uomo estremamente buono. Per esempio, per molti anni dopo la sua morte dormì con la maglietta che lui indossava quando gli spararono e con un ciuffo della sua barba sotto il cuscino. Da allora, molte cose sono cambiate nella Colombia della sua infanzia. Il Paese ha smesso di coincidere con quell’immagine di violenza arcaica legata ai Cartelli e ha perso il primato di produttore mondiale di cocaina. Gli accordi di pace con le Farc hanno messo fine a una guerra civile durata cinquant’anni e Medellin è una metropoli moderna e vitalissima con aspirazioni di Silicon Valley sudamericana e vari primati di innovazione tecnologica. La guerra ai narcos è ancora un problema centrale e la macrocriminalità ha sacche di efferatezza come quella in cui sguazza il nuovo Escobar, tal Otoniel, nuovo patrón della droga e uno degli uomini più ricercati al mondo la cui nota grottesca, molto mediatica, è di tradire la moglie Blanca con le tre sorelle di questa, che ha costretto a sottoporsi a chirurgie estetiche per diventare uguali. In questo quadro mosso, cangiante riesce strano, e fa una certa tenerezza, conciliare l’immagine della bambina Escobar con il profilo defilato di una donna che cerca di essere qualunque fuggendo dal carico da novanta di un cognome tremendo e di ciò che evoca, per quanto sia difficile.

 

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Il filantropo cileno odiato dall’establishment

Sul cileno Leonardo Farkas ci sono centinaia di gruppi e pagine su facebook. La più frequentata si chiama Leonardo Farkas, Comunidad Oficial del Líder y Filántropo Chileno e conta più di 820.000 followers, un’altra è Leonardo Farkas, presidente 2018 benchè lui abbia dichiarato in più occasioni che non correrà per la presidenza. Nel profilo ufficiale spicca la foto del quarantottenne “Leo” in giacca azzurra e cravatta rosa, una fascia con i colori nazionali gli attraversa il petto. Il viso, che da qualche anno è entrato a far parte della vita quotidiana dei cileni, è tondo e chiaro, la capigliatura è boccoluta e bionda e lo sguardo, a dire il vero, non è quello che ci si aspetta in un imprenditore che ha fatto soldi a palate: fisso e stralunato. In altre parole, non è uno sguardo sveglio. Anche se il milione di seguidores della comunità ufficiale, nata nel 2008 e in costante crescita, sono evidentemente di diverso avviso.

Farkas 2Leonardo Farkas Klein – magnate del ferro, ex rockstar, personaggio eccessivo sotto molti punti di vista – è da qualche anno l’uomo del momento in Cile, benché abbia trascorso nel Paese soltanto sette anni della sua fase adulta e sia tornato dal 2012 a vivere a New York, da cui rientra di continuo in patria. Secondo un sondaggio del giugno scorso è percepito dai cileni come la persona più potente del Paese e di gran lunga la più affidabile. Ci sono un sacco di persone che pensano sia l’uomo giusto per cambiare il Cile, da un anno sommerso dagli scandali, e dire che lui non ha mai avuto un programma, una idea, una proposta. La sua dichiarazione che si debba credere nei sogni e combattere per realizzarli ha fatto stragi. Benché non sia ben chiaro in cosa consistano quei sogni, la frase ha un bel suono. Il sogno di Farkas era diventare ricco e rilanciare le miniere di ferro del padre, ebreo ungherese ed è probabile che il personale dream dei suoi fans sia dello stesso tenore: il sogno americano, più che non quello collettivo di equità e giustizia (va detto per dovere di cronaca che una parte del sogno farkasiano, stando alle dichiarazioni del miliardario, era dare lavoro ben pagato a diecimila persone e anche quello l’ha realizzato). Un certo numero di donne aspirava fino a qualche tempo fa a essere la sua amante (c’era una comunità intitolata Voglio essere amante di Farkas!!!!, con le varianti Voglio che Leonardo Farkas sia mio amante e Voglio che Farkas sia mio amante), e a qualcun altro piacerebbe tuttora esserne il figlio (altra pagina facebook, molto frequentata: Voglio che Leonardo Farkas mi adotti, che ha preso il post di Io sono il figlio perduto di Leonardo Farkas, numero degli iscritti 81.341). Molti dei fans portano parrucche ricciolute e bionde e i messaggi sono di questo tenore: Chi è lui? La cosa più grande che può esistere in questa terra, magari fosse che questa gente piena di soldi che si riempie il borsellino a spese degli altri fosse come lui !!! ). C’è chi ha fondato il gruppo Leonardo Farkas el gran benefactor de Chile e chi lo ringrazia per, testuale, averci insegnato a vivere. In che modo Farkas insegni a qualcuno a vivere è un mistero, ma molti lo credono e tanto basta.

Il bello è che fino a poco più di otto anni fa, “Leo” era uno sconosciuto in Cile. Benché cileno, aveva vissuto per più di quindici anni negli Stati Uniti. Adesso è periodicamente su tutti i giornali. Intervistato, interpellato, più spesso ridotto a caricatura e proprio per questo adorato da una parte dei suoi compatrioti. Tecnicamente, è un miliardario come tanti, ma non ha spocchia né discrezione, e la sua schietta mancanza di misura lo rende, nonostante tutto, simpatico. Gira in Rolls Royce Phantom Drophead e in Limousine, veste abiti Ermenegildo Zegna che recano sull’etichetta la scritta Confezionato per Leonardo Farkas, indossa orologi d’oro con inserti in diamante e ha prenotato un viaggio nello spazio insieme alla moglie Bettina Friedman Parker detta Tina, la bionda erede della catena americana alberghiera Concord, che Leo ha sposato vent’anni fa negli Stati Uniti e si è portato dietro in Cile, insieme ai tre figli, con poca gioia della suddetta Friedman.

Dunque, mediaticamente il personaggio Farkas esiste da circa otto anni. Il grande lancio avvenne durante la festa televisiva della Teletón, nel dicembre del 2007, kermesse di beneficienza per bambini con handicap. Salì sul palco un tipo sui quaranta con una bizzarra pettinatura riccioluta e gialla e un’espressione imbambolata, tenuto per mano a una distinta signora bionda. Dichiarò che avrebbe donato 345 milioni di pesos per quei ragazzini (l’anno dopo, nella stessa festa, è salito a mille), fece molti sorrisi e un po’ di show e se ne andò. Il giorno dopo era su tutti i giornali. Aveva però già fatto parlare di sé qualche mese prima, quando affittò tutte le sale dell’Hotel Sheraton per festeggiare i suoi quarant’anni, avvenimento che celebrò facendo arrivare il gruppo Kc and The Sunshine Band e un dj da New York. Quaranta brasiliani vennero ingaggiati per intrattenere gli ospiti tra cui non c’erano vip, soltanto gli amici di infanzia e il suo maestro di tennis.

Sta di fatto che adesso è un personaggio pubblico. Al punto che, quando saltò fuori, nel 2009, che si sarebbe potuto candidare alla presidenza come indipendente, la destra cilena non fu per nulla contenta. Secondo i sondaggi, Farkas avrebbe contato sul due per cento, una percentuale nemmeno così bassa per un signor nessuno. Il problema è che Leonardo fa presa. Pur non essendo di sinistra né di destra, critica l’egoismo escludente del suo Paese, ma allo stesso tempo si dichiara un solido figlio del capitalismo. Il suo programma non era nemmeno confuso, non c’era. La sua pratica di vita conciliava uno spaventoso showing off che offendeva la morigerata oligarchia cilena e un’altrettanto smodata generosità che le era ancora più estranea. “Gli imprenditori del mio Paese sono taccagni”, dichiarava al settimanale satirico e di inchiesta The Clinic, ed ecco che il giorno dopo la posta della redazione veniva inondata dai messaggi di cileni entusiasti, votati per sempre alla causa Farkas. “Perché qui non è permesso donare più del due per cento, quando ci sono multinazionali che guadagnano dieci miliardi di dollari?”, si chiedeva lui, indignato. “Perché le leggi sono fatte per aiutare i ricchi, my friend?”. Ed ecco che la pagina ufficiale di Farkas, quella del suo fan club e gli infiniti spazi dedicati al filantropo vengono sommersi da decine di migliaia di richieste di aiuto e da inviti a cena, perfino un giovane affetto da una leggera alopecia gli chiede con il cuore in mano di pagargli il trapianto. E Ivan, tra i molti, gli scriveva qualche tempo fa: “Leonardo, credo che la tua capacità di amare e di donare sia più forte di qualunque cosa, sarei felice se un giorno volessi accettare di mangiare con me un completo” (il completo è, in Cile, un panino con wurstel, maionese e avocado). Tanto alla mano sembra Farkas, e alla portata di tutti. Per inciso, non solo paga benissimo gli impiegati ma distribuisce soldi in giro, lascia mance esagerate nei ristoranti, e in più finanzia progetti sociali. Per esempio, ha fatto installare internet e telefono a sue spese a El Salado, un paesino minerario del Nord e finanziato la regolarizzazione delle proprietà di ottanta famiglie, tra le altre cose. Inoltre ha regalato parecchi soldi, non si sa quanto, alle bambine povere del Hogar di Viña del Mar. Le ragazzine, schierate in fila, cantavano a squarciagola: Vogliamo un mondo ideale, grazie zio Farkas. Bello per le bambine, però che spettacolo. Ovunque arrivi, migliaia di persone circondano la sua auto come fosse la madonna. Gridavano, fino a poco fa: “Se siente, se siente, Farkas presidente”, lo slogan coniato dai suoi fan. Ovazioni isteriche, uomini e donne che gli chiedevano soldi e gli proponevano affari lucrosi. Lui esce dall’auto e saluta la folla, sembra un papa benedicente. In realtà, Leonardo Farkas è una icona pop, un po’ come Paris Hilton, che però non regala soldi, e inoltre lei i soldi li ha sempre avuti. Farkas no. Se li è fatti in America, cantando nei piano bar a Miami, e negli yacht dei ricconi.

farkas 1La sua famiglia di origine non era povera, il padre possedeva miniere di ferro nel Nord, ma le miniere non andavano bene. Aveva il sogno nel cassetto di diventare musicista, lo realizzò attraverso il figlio che mandò a studiare piano e tromba. Il ragazzino diventò bravo e cominiciò a esibirsi nelle feste finché mise da parte un bel gruzzolo che gli permise, finita l’università dove aveva studiato Ingegneria Commerciale, di andare negli States. Il suo strumento era una pianola con quindici tasti che riproducevano il suono di altrettanti strumenti. Fu per questo che lo chiamarono l’uomo orchestra. Aveva talento e fece furore. Conobbe Tom Jones e Donald Trump. Aveva, anche, un buon fiuto per gli affari. Lo invitarono a suonare nelle ville degli sceicchi e a Dubai. Conobbe persone che gli sarebbero servite. Conobbe anche Bettina e si sposarono con un matrimonio sfarzoso a New York, nel frattempo lui aveva messo da parte il suo primo milione di dollari e con quello si ritirò dalla musica e si dedicò ad altro. Cose più serie come negozi di vidoegiochi, esportazioni di scope dal Brasile e importazioni di shampoo in Centroamerica. Nel 1995 cominciò a investire nelle miniere del padre. Le miniere si chiamano Santa Barbara e Santa Fé, la società che le gestisce è la Japonesa. Qualche anno fa le ha chiuse ed è tornado negli Stati Uniti, con moglie e figli a cui ha deciso di dedicare quel che gli resta della vita. “Sono venuto qui per realizzare il sogno di vendere dieci milioni di tonnellate di ferro e di avere diecimila impiegati ben pagati”, aveva detto ai tempi. “Fatto questo, tornerò negli Stati Uniti perché non sono Madre Teresa”.

Manuel Antonio Garretón è un pezzo da Novanta della sociologia cilena, autore di quaranta libri e insignito di premi prestigiosi, e non parla volentieri di Farkas. “Io credo sia rappresentativo del peggio della società cilena”, spiega. “Parlando in astratto, ci sono due tipi di caratteri che formano il consenso. Un carattere personale di bellezza, simpatia, carisma e un altro che consiste nel creare una necessità collettiva intorno a una persona che risolva i tuoi problemi. In altre parole, intorno a un personaggio la gente costruisce una necessità, un sogno. Farkas, in sé, non ha bellezza né carisma, però è eccentrico, e in una società in trasformazione dove i parametri di valutazione stanno cambiando, dove i reality show sono l’espressione feroce della trasformazione sociale, e propongono un modello di concorrenza in cui uno solo vince, in cui quello che conta è il mercato e come ti muovi nel mercato, ebbene è comprensibile che Farkas abbia un suo consenso. Appare come uno che ha fatto i soldi facili e li divide con tutti. E il fatto che non sia troppo fine è perfino un vantaggio, perché permette a molti di identificarsi. Parecchie persone, per esempio, non si identificano nei potenti politici e imprenditori di destra, però si identificano con Farkas”.

Qualche anno fa, ho cercato di intervistare Farkas, avrei voluto che mi portasse in giro sul suo jet privato come la show girl di origine croata Tonka Tomicic e farmi raccontare di lui e delle sue storie, capire il segreto di quel successo che mi appare strano nonostante le spiegazioni di Garretón, ma non ci sono riuscita. Il gentilissimo ufficio stampa mi ha tenuto in ballo per giorni senza mai darmi una risposta e alla fine mi sono rassegnata a fare al magnate, per sette ore, una posta inutile davanti al palazzo in cui ha sede la Japonesa, sperando che uscisse per andarsi a mangiare il completo con Ivan, il ragazzo che gli ha mandato il messaggio sul sito.

Ma non è uscito nessuno dal grattacielo in vetro e alluminio, sbilanciato verso l’alto come un gigantesco, bizzarro trapezio e affacciato su un lungo fossato dalle pareti in marmo scuro su cui scivolava una sottile, e silenziosa cascata. Ho guardato e riguardato la strada coperta di ciottoli e il parchetto per bambini e i gruppi di impiegati in camicia bianca che camminavano di fretta sotto il sole rovente, i profili dei palazzi moderni che sfilavano su quella strada, El Golf, in piena Sanhattan, da Santiago e Manhattan, ma niente Farkas.

Ho raccolto testimonianze di chi conosce chi lavora con lui. “Una mia amica dice che paga benissimo e per il suo compleanno le ha regalato 400 lucas”. Vuol dire 400.000 pesos, circa 550 euro. “Le ha detto: “Che ci fai qui, oggi? Prendi questi soldi, e vai a divertirti”.

Perché ha deciso, Farkas, di tornare nel suo Paese? Fino a dieci anni fa viveva a Boca Ratón, in Florida, con Tina e figli, senza patemi. C’era, certo, il sogno delle miniere. Uno dei tre, confessa oggi. Il più difficile e duro. Un altro sogno era quello di dare alla festa di beneficienza della Teletón, la somma piu alta che quella avesse mai ricevuto. E infine c’era la vecchia fantasia infantile di partecipare come giurato al Festival di Viña del Mar, una specie di Sanremo Nazionale, con artisti prestigiosi che arrivano da fuori. Ha realizzato anche quello, e non solo. Durante il Festival gli è scappata la mano e si è messo a cantare e ballare, saltando come un indiavolato da una sedia all’altra e sedendosi poi alla sua famosa tastiera per riproporre brani vari. Inoltre – un gesto plateale – ha regalato quindicimila sandwich al pubblico. Naturalmente, è stata una nota di colore e la gente ha riso, ma i giornalisti in sala stampa morivano di vergogna e inoltre Leonardo non suonava da sette anni ed era fuori forma. Insomma, i media lo hanno fatto a pezzi, e dire che lui voleva solo divertirsi. A Tina, la rampolla Concord, hanno dato della cabarettista per il lusso un po’ kitsch nell’abbigliarsi. Bettina, a quell punto, voleva tornare in Usa. Non ne poteva più. Non si aspettava un Paese ingrato. Pensava gli avrebbero fatto ponti d’oro, al marito, o almeno che li avrebbero lasciati vivere. “Mi ha detto: “Ti ho sposato per il tuo buon umore e adesso sei sempre arrabbiato”, ha riferito il magnate alla rivista Paula. Eppure il biondo Leo aveva vissuto per vent’anni in Cile e doveva saperlo che uno come lui non passa inosservato, e che il chaqueteo (il denigrare, letteralmente), nel suo Paese, non è un affare da stomaco debole. Un imprenditore in camicia sgargiante costellata di strass che fa capriole in un Festival non è uno spettacolo abituale in Cile. “Mi discriminano perché ho i capelli lunghi e sono ebreo”, si lamenta Farkas che dichiarava, inoltre, di fare una vita solitaria, di non frequentare imprenditori e di uscire colo con la sua signora.

Se l’establishment lo esclude, c’è però quella folla adorante che lo acclama ovunque vada. Ovunque ci sia da aiutare Farkas c’è, o potrebbe esserci. “Ho un comitato apposito che valuta tutte le richieste di aiuto che vengono fatte su twitter e facebook e seleziona le più urgenti”, ha dichiarato alla rivista Caras. Alle famiglie dei 33 minatori rimasti intrappolati cinque anni fa ha regalato cinque milioni di pesos, e una casa a quelli tra loro che non l’avevano. II minatori lo hanno ringraziato pubblicamente da dentro la miniera, ma quella parte del filmato è stata tagliata, ha denunciato Farkas qualche giorno fa postando il video completo trasmesso dalla Bbc. Nel film su quella vicenda, appena presentato in Cile, interpreti Banderas e la Binoche, anche Farkas recita una particina, cioé se stesso. Ha organizzato per l’anteprima una grande festa nella sua spettacolare casa nel nord del Cile, con canti e balli fino all’alba. L’ultima sua campagna è l’offerta di contribuire con mille milioni di pesos alla diffusione dell’internet gratuito in tutto il Paese. In occasione della Coppa America ha regalato quarantamila bandiere del Cile, un’altra donazione sportiva sono i mille palloni da football ad altrettanti ragazzini di una scuola di Viña del Mar. Va da sé che sia stato il primo a muoversi dopo il terremoto e lo tsunami del 2010, con l’invio di molti camion zeppi di viveri e milioni di contributi cash. “Avere questo potere è favoloso”, ha detto in una intervista di qualche mese fa. “Non che mi creda Dio, ma a chi non piacerebbe avere un bottone che basta premere per risolvere la vita alle persone?”. E la gente gliene è grata. “Mio eroe Farkas”, gli scrive Taly Abarca. “Mi chiedo come sarebbe il Cile con te presidente, con giustizia per i delinquenti come in altri Paesi civili dove gli tagliano la mano”. Amputazione a parte, è probabile che Farkas si commuova, anzi è sicuro. Dopo tutto è un buon diavolo. Però non ha intenzione di tornare a vivere in Cile. E’ un tipo democratico e non tollera, tra le altre cose, il razzismo del suo Paese, basato su una cavernicola gerarchia in cui i biondi dagli occhi chiari stanno in cima. Il suo passaggio in patria non è stato, in ogni caso, un disastro. Non aveva immaginato il rifiuto, gli insulti e il resto ma nemmeno, probabilmente, che sarebbe diventato un santo.

 

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Chi è Nadine Heredia, la “primera dama” peruviana?

Se è vero il detto “molti nemici molto onore”, la first lady peruviana Nadine Heredia, trentottenne moglie del presidente Ollanta Humala eletto nel giugno del 2011, è donna di non poco spicco. Tra i detrattori più accaniti non c’è soltanto il comprensibile avversario Alan Garcìa, ex presidente della Repubblica e leader del partito di opposizione Apra, ma anche il vecchio suocero Isaac, patriarca dell’abbondante famiglia Humala e fondatore, molti anni fa, di un improbabile partito etnocacerista il cui obiettivo era la restaurazione dell’impero incaico. “È ubriaca di potere”, ha sentenziato di recente su quella nuora il cui sorriso angelico e il dichiarato impegno per i più poveri le avevano conquistato alla fine del 2012 la simpatia del 62 per cento dei peruviani. Quell’imponente percentuale è scivolata però all’undici per cento secondo i dati pubblicati due settimana fa da GFK, e nelle fila dei nemici ci sono adesso molti di coloro che un tempo l’adoravano. Colpa dell’eccessiva esposizione mediatica ma, soprattutto, dell’apparente ingerenza nelle attività del governo di cui la primera dama sembra arrogarsi spesso il ruolo di portavoce, commentando di continuo su twitter le iniziative dell’esecutivo per i suoi 700.000 followers e scavalcando il marito nelle occasioni pubbliche. Come quando, durante la cerimonia di investitura alla presidenza di Michelle Bachelet in Cile, ha preteso di camminare sul tappeto rosso riservato ai capi di Stato nonostante avessero cercato in tutti i modi di allontanarla. “Il ruolo di first lady non è quello di una funzionaria pubblica che ha doveri e compiti strettamente definibili”, ha liquidato l’argomento in una intervista alla Bbc. “Ci sono molti aspetti da considerare e qualche moglie ha deciso di scegliere più protagonismo e qualche altra meno”. Ma è opinione diffusa nel Paese e nell’establishment che non si muova foglia che Nadine non voglia. Per esempio si deve (stando a quanto si dice nei corridoi del Gabinetto) a una polemica con la primera dama se l’ex Primo Ministro César Villanueva si è dimesso, un anno fa, mentre alla presidenza del Consiglio dei Ministri c’è dal luglio scorso la fedelissima di Heredia Ana Jara e a capo della Fiscalia e della Superintendencia Nacional de Administración Tributaria sono stati nominati due cugini della primera dama.

A intorbidire la figura di quest’ultima è poi intervenuta la recentissima apertura di due indagini per riciclaggio di denaro sporco e corruzione, una delle quali a dire il vero era stata già archiviata sei anni fa.

Va da sé che il presidente difenda la moglie a spada tratta, accusando l’opposizione di montare false accuse come quella di volersi candidare alle presidenziali del 2016 infrangendo la Costituzione, benché lei continui a smentire.

Non che Nadine abbia bisogno di paladini. Che avesse grinta si era capito dai tempi della seconda campagna elettorale quando era ancora, nonostante avesse già tre figli, una ragazza semplice e bellissima che accompagnava ovunque il marito in jeans e maglietta, attirandosi le critiche delle esperte di moda.

Con il tempo è diventata una signora raffinata ma per il resto non è cambiata da quando studiava Comunicazione (in seguito frequentò anche un master alla Sorbona) e oltre a collezionare voti altissimi cantava in una band in cui sfogava la passione per la musica.

Humala è suo nipote di secondo grado, benché sia più anziano di lei di quattordici anni, e il loro sodalizio comprende un progetto per il Paese a base di promesse di inclusione e di rilancio dell’economia, un obiettivo ambizioso in un Paese che vanta indicatori macroeconomici impressionanti ma, anche, un tasso di povertà del 22,7 per cento (dal 23,9 del 2013), diseguaglianza e arretratezza soprattutto nelle sterminate zone rurali. Nel 2005 Ollanta e moglie hanno fondato il Partido Nacionalista di cui Nadine è oggi presidente, e neanche i più accaniti detrattori ne minimizzano l’acume nel gestirlo, l’intuito politico.

Le sue missioni nelle zone più sperdute del Paese, dove promuove i programmi sociali del governo, le hanno guadagnato un rispetto che per alcuni (soprattutto i più poveri) sopravvive alle inchieste giudiziarie e all’ingombrante egocentrismo. Nominata nel 2013 ambasciatrice internazionale della Fao per la quinoa, prodotto nazionale che da qualche anno ha conquistato il mondo, si batte parecchio per il marchio Paese.

In questa sovrapposizione di luci e ombre, a vedere soprattutto le prime non sono solo il marito Ollanta e i fedelissimi della first lady ma lo scrittore Mario Vargas Llosa che ha dichiarato di recente: “Credo sia ora che il Perù abbia un presidente donna e che Nadine Heredia abbia condizioni assolutamente magnifiche per essere la presidente del Paese”.

 

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Una “radionovela” per Evo Morales

Dopo un primo anno di rodaggio, la radionovela è partita recentemente su larga scala: da qualche mese viene trasmessa in quattro lingue (aymara, quechua, guarani e spagnolo) in tutto il Paese. Quaranta puntate in tutto, dai tredici ai venti minuti l’una. Il titolo è La vida del primer presidente indígena: storia di Evo Morales, da quando era bambino e pascolava lama nelle montagne di Isallavi alla vittoria elettorale nel 2006. Da allora è alla guida della Bolivia, il suo terzo mandato è cominciato all’inizio di quest’anno. In questa veste ha vinto gran parte delle sfide, superato ostacoli, attraversato momenti bui, pause di stallo, ma nel complesso i boliviani lo apprezzano, pensano abbia fatto un gran lavoro. Una sua grande sostenitrice è la settantacinquenne Emiliana Rojas, regista e sceneggiatrice del documentario, dove recita anche una parte: “Lo ammiro molto e mi sono sempre detta: prima di morire devo fare la radionovela, perché conosco Evo Morales da quando ero ragazzina e lavoravo come reporter”. Finanziata da Ypfb con 56mila bolivianos e frutto di un lungo lavoro di ricerca e di interviste ai familiari in quel di Orinoca (luogo natale di Evo), in particolare il fratello Hugo e la sorella Ester, la novela racconta l’impegno politico dell’attuale presidente e la vita di ragazzino povero che per sopravvivere ha lavorato come panettiere e muratore, trombettista e falegname per poi spostarsi nella zona cocalera del Chapare e militare come sindacalista, senza dimenticare la sua passione per il football. Sorvola, invece, sulle brevi e scombinate relazioni sentimentali da cui sono nati i due figli Eva Liz y Álvaro, oggi ventenni.

La radionovela consegna insomma, al netto di una certa ma non preponderante agiografia, quel personaggio onesto e determinatissimo che ha conquistato alle ultime elezioni oltre il 60 per cento dei consensi. A interpretare i familiari e amici del mandatario sono circa quaranta attori professionisti tra cui il noto Felipe Achu, che per la verità ha una voce molto diversa da quella del presidente, ma è un dettaglio ininfluente per i moltissimi aficionados della novela, come i campesinos che la ascoltano mentre si recano al lavoro alle sei di mattina, l’ora a cui viene trasmessa, e i mattinieri boliviani appassionati di questo genere di storie. Vestita con gli abiti della tradizione aymara (pollera e bombin), una lunga treccia che le cade sulle spalle, la Rojas è d’altronde una giornalista (oltre che attrice) di esperienza, ha lavorato in varie radio e conosce la realtà delle province indigene per essere originaria di una di quelle. Rappresenta, insomma, l’incarnazione del riscatto indigeno che ha affrancato i cholos dall’emarginazione e li ha portati alle leve più alte delle istituzioni, della cultura e della comunicazione. Ha scelto la formula della radionovela perché è un genere molto seguito in Bolivia, dove anche i progetti di sviluppo e per i diritti umani vengono spesso divulgati utilizzando quelle opere come nel caso de La Caldera, interpretata dai migliori attori di cinema e teatro del Paese e il cui obiettivo è allertare gli adolescenti dal pericolo delle tratte (tra i finanziatori c’è la Oficina de las Naciones unidas contra la droga y el delito). Oppure Corazon de mujer, una sorta di manifesto contro la violenza domestica e, specularmente, un inno al rispetto dentro la famiglia. Anche sul fronte fiction la radionovela va per la maggiore, e infatti tra i grandi successi dell’anno scorso c’è Belicena Villca, la ùltima princesa inca, una storia di realismo fantastico i cui si mischiano miti ancestrali ed esoterismo.

L’idea dell’opera sulla vita di Evo farebbe forse ridere o potrebbe rasentare il culto della personalità in un Paese diverso dalla Bolivia, ma qui ha un altro senso: ricordare ai cholos la propria storia attraverso quella del presidente aymara e alimentarne il senso di appartenenza. In un sondaggio del 2013 solo il 42 per cento degli intervistati si sono riconosciuti  in una delle tre etnie indigene, contro il 62 di undici anni prima. Il segno distintivo della Bolivia è sempre stata la forte prevalenza indigena, su cui si basavano tra l’altro le teorie del vicepresidente e sociologo Álvaro García Linera sul marxismo andino e la vitale rivoluzione chola. Che minaccia di affievolirsi e perdere di identità proprio adesso che molti di quei cholos sono arrivati in alto.

 

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Nel carcere di massima sicurezza di Altiplano

Non è di quelle cause che hanno smosso le coscienze, né scatenato campagne di solidarietà. L’unica petizione è in realtà la lettera di undici pagine che gli stessi interessati, 140 detenuti del carcere di massima sicurezza di Altiplano, nello Stato del Messico, hanno inviato alla Commissione Nazionale dei Diritti Umani, infarcita di errori di grammatica ma chiara nei contenuti: la reclusione in quella prigione è inumana, la Commissione deve intervenire perché venga migliorata. Tra i firmatari, alcuni pezzi da novanta del narcotraffico mondiale, vedi La Barbie, El H e la “leggenda” Joaquín Archivaldo Guzmán Loera detto El Chapo, ex leader del Cártel de Sinaloa, l’uomo più ricercato del mondo fino al suo arresto, realizzato nel febbraio dell’anno scorso con una spettacolare azione di polizia e della Marina che ha messo fine a una latitanza di tredici anni. Non solo i detenuti reclamano condizioni di detenzione più accettabili ma accusano il direttore tecnico del carcere di corruzione e la sua assistente di trattare crudelmente i carcerati. Lontani i tempi in cui Pablo Escobar e altri importanti capi narcos scontavano le condanne in ville di lusso, circondati da stuoli di secondini-camerieri, i detenuti del Altiplano, tra cui molti dei più potenti narcos del pianeta, lamentano cibo con i vermi o andato a male, l’insalubre condizione delle celle e cure mediche quasi inesistenti.

Già nel luglio nell’anno scorso, El Chapo e i suoi colleghi avevano organizzato uno sciopero della fame di ben mille compagni di prigionia dopo che venti di loro erano rimasti intossicati da cibo avariato, eludendo le rigide norme della prigione che prevedono celle di isolamento per i detenuti più pericolosi. Durato quattro giorni, lo sciopero sembrava aver sortito un qualche effetto che però è durato poco. Ed è così che El Chapo è tornato alla carica. A 58 anni, l’uomo la cui fortuna ammonterebbe a mille milioni di dollari e che ha fama di uno dei più sanguinari nella storia del narco-crimine mantiene un certo carisma nonostante le umilianti condizioni del carcere e la perdita di status: da superuomo che ha vissuto al di sopra della legge a detenuto come tutti, costretto a reclamare per i propri, elementari diritti. “Merita tutto il peggio perché è un diavolo”, dice Luis, nome di fantasia di un messicano del Sinaloa che ha perso parte della famiglia nella guerra tra cartelli. Eppure quella lettera sgrammaticata, insieme alle patite condizioni nel narco-capo, inducono a una certa pietas e riportano a scenari di infanzie miserabili e violente nei contrafforti della Sierra Madre Occidentale, sottocultura e ansia di riscatto: un mondo in cui i diritti non esistono, e men che meno lo stato di diritto. D’altronde, quando la polizia lo stanò dall’appartamento (per l’esattezza dal bagno) di Mazatlán, sulla costa del Pacifico, in cui si era rifugiato alla notizia del blitz e in cui vivevano la moglie ventiquattrenne Emma Coronel, ex reginetta di bellezza e le due figlie gemelle, El Chapo aveva stupito per l’atteggiamento sottomesso, in una sorta di regressione a quel ragazzo di famiglia povera da cui si era smarcato con fatica. Si rivolgeva a tutti con un untuoso “Dottore” e proclamava tremante la propria innocenza. Riprese fiato e grinta quando Tomás Zerón de Lucio, direttore della Agencia de Investigación Criminal e forse il poliziotto più famoso del Messico lo interrogò e, prima di essere riportato in cella, gli chiese come si chiamava. “E’ che lei mi ha trattato bene”, si era giustificato. Induce a una certa pietas, anche, il passaggio dal mondo ipertrofico, pompato di narcodollari e privo di regole in cui El Chapo si era costruito una propria, sontuosa credibilità a quello meno appariscente che aveva sempre disprezzato: in cui la vita è governata da diritti e da doveri e la convivenza da paletti e tutele, proprio quelle a cui si è rivolto il jefe una volta in carcere.

 

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L’ironia latinoamericana di Galeano

Chissà se il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, avrà poi letto il libro che lo scomparso Hugo Chavez gli aveva regalato nel loro primo e unico incontro pubblico, alla quinta Cumbre de las Américas, a Puerto Espana, nell’aprile del 2009. Obama aveva ringraziato gentilmente ma non aveva dato segno di conoscere il titolo né l’autore (Le vene aperte dell’America Latina dell’uruguayano Eduardo Galeano, scomparso a Montevideo il 13 aprile scorso). E dire che quel testo da oltre trentacinque anni era un bibbia per la sinistra non solo latinoamericana: tradotto in diciotto lingue per un totale di trenta edizioni, racconta la storia dell’America Latina dalla parte di chi aveva perso, o meglio la controstoria per chi sapeva poco di quella Terra o conosceva soltanto la versione dei “vincitori”. Era, anche, un “manuale di divulgazione”, come lo aveva definito lo stesso autore, scritto come un romanzo.

Se Obama non l’ha letto, sarebbe interessante lo facesse, perché in quel libro si riassumono molte cose del continente desaparecido – della sua indole, della sua storia e delle sue molte anime – difficili da cogliere per chi non è vissuto a ridosso della cordigliera o del Caribe, in mezzo a una realtà spesso iperbolica e a una narrazione che sembra a volte di fantasia, ma invece è solo un modo per raccontare il bene e il male dilatandoli in due mondi contrapposti e trasformando il primo in epica: quella dei poveri e diseredati abitanti originari la cui emarginazione e sfruttamento ha imposto per molti decenni una polarizzazione, la stessa che ha spinto un moderato come monsignor Romero su posizioni vicine ai comunisti.

Se Galeano è diventato un’icona, un riferimento fin da giovane, lo deve a quel libro che ha scritto tra i 27 e i 30 anni, pubblicato nel 1971 e che gli è valso l’esilio dall’Uruguay e la censura in tutti i Paesi del Cono Sud governati in quegli anni dalle dittature. Pietra miliare nella storia letteraria dell’America Latina, dopo il regalo di Chavez a Obama il libro ha scalato in pochi giorni le classifiche di vendita in Europa fino a diventare il quinto più letto nel continente. Qualche anno dopo, però, alla II Bienal del libro y la lectura de Brasilia, Galeano sconfesserà parzialmente quel testo definendolo pesantissimo e noioso e dichiarando che tornando indietro non lo avrebbe riscritto, visto che all’epoca gli mancavano le sufficienti nozioni di economia. Era troppo intelligente per non capire che il continente latinoamericano era cambiato e che per interpretarlo occorrevano logiche più duttili. E troppo aperto per non aver elaborato una visione che la storia degli ultimi quarant’anni aveva reso più flessibile e relativa. “Non esistono le verità assolute”, aveva dichiarato in un intervista al quotidiano argentino La Nacion di qualche anno fa. “Ci sono solo nella testa dei nostalgici dello stalinismo, il dogmatismo che ti dice che c’è un’unica maniera di capire la politica e la solidarietà umana. O in quelli che ritengono che il sistema che governa oggi il mondo sia l’unico possibile”. In un’altra intervista, a chi scrive, nel 2005, aveva spiegato che i governi comunisti si erano sgretolati come castelli di sabbia perché la gente non si riconosceva più nel potere, ma questo non voleva dire che non ci fosse in assoluto la possibilità di un governo comunista buono, sano e rappresentativo, o che non ce ne fossero in quel momento, riferendosi a Cuba. Eppure aveva criticato fortemente Castro quando, dodici anni fa, condannò oltre settanta persone per reati di opinione.

Era una icona non solo per l’impegno politico, Galeano, o per le notevoli doti di scrittore. Nei festival di letteratura a cui era invitato, e sono stati molti, si aggirava discreto portando in giro la sua faccia scolpita da intellettuale sfinito. Partecipava alle tavole rotonde – sulla scrittura, il terrorismo, la guerra – stemperando il clima a volte militante con ironia latina, divertiva i molti spettatori con calembour non scontati, attaccava in più occasioni gli americani, ma difendeva i diritti umani e la libertà di pensiero.

Passerà sempre, nel bene e nel male, per uno scrittore politico, un clérigo de la izquierda per dirla con le parole di Vargas Llosa che pure lo apprezzava e che aveva definito molte sue pagine di grande lirismo. Ma il Nobel peruviano era troppo anticomunista per non rimarcare che Galeano avrebbe interpretato come un gesto anti-imperialista perfino un tiro al volo di Messi, l’idolo calcistico che aveva soppiantato nel cuore dell’uruguayano, per sua ammissione footbalista frustrato e privo di talento, l’ex mito Maradona.

La sua produzione letteraria comprende libri di racconti, un’altra memorabile opera di divulgazione storica, un magnifico libro sul calcio e volumi di frammenti che con gli anni diventavano sempre più concisi. In Le labbra del tempo, edizioni Sperling & Kupfer, quei frammenti erano quasi aforismi che raccontavano la vita, la storia, l’amore e la giustizia viste con gli occhi dell’autore: con amarezza e ironia. Ha trattato di ambiente, politica, calcio, storia ed economia e tra le novità più attese della “Fiera del Libro” di Bogotà della scorsa settimana, il suo libro “Mujeres” appena pubblicato era una della più attese. Non solo perché postumo né perché l’autore è appena morto, ma perché tratta di un tema con cui Galeano non si era finora misurato: il tema femminile, le donne, attraverso una galleria di ritratti tra cui Rigoberta Menchú, Eva Perón e Marylin Monroe.

Benché non fosse il tipo a cui piacevano i bilanci, gli anni e la malattia (il cancro ai polmoni contro cui combatteva dal 2007), avevano smorzato certe reticenze, qualche rigidità di quando, più giovane di dieci anni e ancora sano, dichiarava: “Non faccio bilanci perché ancora guardo avanti, penso che ci saranno molti cambiamenti nella mia vita, soprattutto nella mia vita interiore. Con questo non voglio dire che i bilanci mi spaventino. Tengo molto alla mia memoria, non ho nessuna invidia per Adamo ed Eva che, per forza di cose, non ne avevano. Io non rinuncio alla mia memoria, con tutte le sue ombre. Soltanto, i bilanci non mi piacciono”.

 

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In Guatemala è tornato alla sbarra per genocidio l’ex dittatore Rios Montt

Il Guatemala è un Paese di tragica e rara bellezza in cui l’ex dittatore Efraín Rios Montt si ostina a sentirsi un re. Benché siano passati più di trent’anni dai tempi in cui era alla guida del Paese – appena diciassette mesi in cui il regime dell’oggi 89enne ex generale commise il più alto ed efferato numero di atrocità in una guerra quarantennale costata in tutto più di 200.000 vittime – quei crimini sono ancora impuniti, e il molto sbandierato processo per genocidio e lesa umanità che tenta di inchiodarlo da tre lustri è di nuovo a un punto e a capo.

Ripreso da tre mesi, quel processo si dibatte tra molte polemiche, prime fra tutte quella sulla attendibilità dei magistrati giudicanti, accusati dagli avvocati di Rios Montt di pregiudizi e la richiesta di sanzionare la giudice Yassmin Barrios che, due anni fa, aveva condannato a ottant’anni di reclusione l’ex generale: la prima condanna per genocidio emessa da un tribunale nazionale contro un ex dittatore, annullata però subito dopo dal Tribunale Costituzionale per un presunto vizio di forma. Tutto da rifare, dunque.

Ma, come è avvenuto per il processo precedente, il giudizio sta dividendo in due il Paese o, meglio, sta evidenziandone le spaccature: da una parte i mummificati sostenitori dell’ex generale e della sua sommaria politica di terra bruciata, gli evangelici fondamentalisti e i collusi con il defunto regime, dall’altra i difensori dei diritti umani, la parte laica della società civile, qualche settore della destra meno arcaica e, ovviamente, i familiari delle vittime che il dittatore e i suoi scherani hanno sterminato dal 23 marzo 1982 (data in cui Rios Montt prese il potere con un golpe) al 8 agosto del 1983, quando venne a sua volta deposto dal suo stesso Ministro della Difesa. In tutto fanno 1.700 maya dell’etnia Ixil (dei diecimila guatemaltechi sterminati durante il suo regime), che il generale aveva ordinato di annientare in ossequio a una rituale teoria di lotta alla guerriglia: togliere l’acqua ai pesci, dove per acqua si intendevano le popolazioni indigene “abbindolabili” dai guerriglieri di sinistra che combattevano contro i governi fascistoidi e corrottissimi e che dal 1978 si erano accorpati nella URNG, la Unión Revolucionaria Nacional Guatemalteca.

Ai familiari delle vittime non ha fatto un grande effetto che l’ex dittatore sia arrivato in tribunale, i primi del gennaio scorso, sul lettino di una ambulanza, coperto da un drappo bianco, accompagnato dalla figlia e disegnato come vittima in una grottesca rappresentazione capovolta che trasformava il carnefice in oppresso. A parte gli inevitabili segni dell’età, Rios Montt non era cambiato molto rispetto ai tempi d’oro della sua presidenza, perfino l’espressione furba e vagamente innocua dietro i baffetti da furetto era la stessa di quando, molti anni prima, tuonava che ogni buon cristiano doveva avere in una tasca la Bibbia e nell’altra la mitragliatrice, e non si riferiva ai guerriglieri cattolici. Allora come adesso non dava l’impressione di un tiranno, ammesso che i tiranni abbiano un aspetto particolare e non si camuffino dietro un’arietta da ominicchi come nel caso, per esempio, di Videla e Pinochet.

Rios Montt somigliava vagamente al primo, ma a differenza di quello era un fondamentalista evangelico che predicava cose assurde per conto della Chiesa del Verbo, emanazione locale della Gospel Outreach con sede a Eureka, in California e a cui convertì parecchi indigeni, prima di prendere il potere: per “addomesticarli” ed evitare che si unissero ai sovversivi. La vox populi dice che stesse spiegando la Bibbia in un tempio quando un manipolo di ufficiali gli comunicò di aver deposto il presidente uscente Fernando Romeo Lucas García e gli chiese di assumere la guida del triumvirato golpista. Ma gli analisti più seri ritengono che avesse partecipato al colpo di Stato fin dall’inizio. Oltre che un predicatore era un generale e aveva già provato nel 1974 a conquistare la presidenza sia pure democraticamente. Con tutta probabilità, ci sarebbe anche riuscito se le elezioni non fossero state truccate. Furioso per i brogli, Rios Montt incolpò la chiesa cattolica e lasciò il Paese per diventare addetto militare a Madrid, poi abbandonò il cattolicesimo e quando tornò in patria si convertì a quella religione stramba che aveva fatto ingresso nel Paese dopo il terremoto del 1976.

Fu grazie a essa che lasciò il vizio dell’alcool in cui si dibatteva da tempo, e diventò così integralista da trasformare il credo rudimentale degli evangelici nell’ossatura di un programma politico che riassumeva nella lotta ai quattro cavalli dell’Apocalisse: fame, miseria, ignoranza e sovversione. Peccato che, nel suo anno e mezzo di governo, l’allora dittatore si disinteressò completamente dei primi, concentrandosi sul quarto. I testimoni degli eccidi che hanno sfilato a deporre nei due anni del precedente processo hanno raccontato con dovizia di particolari i sistemi agghiaccianti con cui l’esercito e le Pac, le Patrullas de Autodefensa Civil fondate dal generale, facevano terra bruciata nei villaggi delle zone occidentali di Quiché e Huehuetenango, la cittadina in cui era nato il dittatore: contadini ignari torturati e castrati, ragazze incinte a cui veniva squartato il ventre, feti lanciati in aria con cui i soldati giocavano al tiro a segno. E il solito corredo di donne stuprate e uccise, di vecchi e bambini fuggiti nelle montagne e spariti per sempre.

Rios Montt fu così gratuitamente feroce da diventare imbarazzante. Perfino gli Stati Uniti a cui pure aveva fatto comodo ne suggerirono la destituzione, la Chiesa cattolica gli dichiarò una sorta di guerra occulta. Il cauto ottimismo con cui era stato accolto alla guida del Paese era sfumato in pochi mesi. Il generale fu costretto ad andarsene e non se ne fece mai una ragione. Il presidente che ne prese il posto non fu molto meglio quanto a violazioni di diritti umani, e si dimostrò altrettanto inefficiente nella lotta alla povertà e alle spaventose disuguaglianze, ma aprì la strada a una relativa democrazia. Eppure quando Rios Montt si presentò, nel 1994 e due anni prima degli accordi di pace, alle elezioni legislative con il Frente Republicano Guatemalteco che aveva fondato mettendo insieme scampoli di vecchi e decaduti partiti di destra, ottenne un successo che lasciò stupefatti gli osservatori internazionali: il 32 per cento degli elettori (in realtà l’astensione era stata altissima, intorno all’ottanta per cento) aveva votato per il Frente, la maggior parte erano gli indigeni di quelle zone – mal collegate e poverissime – in cui i suoi sgherri avevano commesso i peggiori massacri.

“Figli miei”, gridava il dittatore alle masse attonite che incontrava durante i comizi, e a cui si rivolgeva nella lingua locale che conosceva alla perfezione. “Siete tutti figli miei”. Allargava le braccia, addolciva la voce solitamente stridula, baciava qualche donna e ragazzino. Giurava che il suo partito avrebbe sconfitto la fame e la disuguaglianza e predicava la sottomissione. Pochi capivano che il suo governo non aveva fatto, per il Paese e i poveri in particolare, assolutamente niente, ma alcuni ricordavano la politica dei “fagioli e fucili” che aveva premiato con populisti regali a base di tortillas i campesinos che si sottomettevano ai programmi di rieducazione. Va detto però che in qualche paese lo presero a sassate, e in altri ebbe la saggezza di non presentarsi.

Sta di fatto che venne eletto al Congresso e si assicurò l’immunità parlamentare per dieci anni. Di processo per genocidio si cominciò a parlare nel 1999, quando il premio Nobel Rigoberta Manchù lo denunciò per quel reato (oltre che per torture e terrorismo di Stato) alla Audiencia Nacional spagnola. Il giudizio non ebbe luogo perché i tribunali di quel Paese ritennero che i magistrati guatemaltechi fossero in grado di occuparsene da soli, ma gli anguilleschi slalom dell’ex dittatore e la fitta rete di connivenze tra collusi con l’ex regime e politici corrotti, le minacce e le ritorsioni sui magistrati resero impossibile il processo fino al 2011. Non sono in molti a pensare che questa volta sia quella buona, dato che perfino Otto Pérez Molina, il presidente attuale formalmente nemico di Rios Montt, vedrebbe male una sentenza di condanna che porterebbe a galla vecchie storie che lo riguardano: per esempio che ai tempi degli eccidi era nientemeno che il capo dei servizi di intelligence nella regione di Ixil, la più colpita dal genocidio. Il Guatemala non è più quel labirinto in cui regnava il vecchio generale, ma gli somiglia.

 

All’interno di Reportage n. 15 (luglio-settembre 2013) potete trovare un portfolio dedicato alla prima fase del processo per genocidio all’ ex-dittatore Rios Montt a firma di Daniele Volpe.

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Anche il Cile ha il suo “Charlie hebdo” 

Tra le loro vignette che hanno destato più scandalo c’è stata quella che, pubblicata dopo che un gruppo di delinquenti aveva appiccato il fuoco alla statua della Vergine patrona di Santiago del Cile, riproduceva una madonna angelicata con sotto la scritta: “Se quemò sin calentarse” (Si è bruciata senza scaldarsi sessualmente). Editoriali inviperiti, proteste nelle strade e qualche marcia furono la risposta alla provocazione, ma neanche in quel caso il settimanale The Clinic venne gratificato dall’onore di una querela. “Nessuno ci ha mai denunciato”, spiega Patricio Fernández, direttore e fondatore del settimanale satirico più famoso dell’America Latina. “Forse per la paura di essere a sua volta ridicolizzato sulle nostre pagine?”.

The Clinic è una sorta di Charlie Hebdo cileno, la differenza è che fa poco caso ai musulmani – presenza esigua nel Paese – e se la prende preferibilmente con la Chiesa cattolica, oltre che con politici e personaggi in vista compreso, quando era vivo, l’ex tiranno Pinochet. E infatti fu dall’arresto di quest’ultimo, nel Duemila, mentre era ricoverato in una clinica di Londra che prese il via (e il nome) la rivista. In poco tempo diventò il punto di riferimento della cultura più progressista. Il suo obiettivo era attaccare l’ex dittatore e, dopo la sua morte, umiliarne la memoria e combattere l’autoritarismo nelle sue varie forme, “a partire da quello che c’è in ognuno di noi”. Una battaglia non certo facile visto che il pinochetismo godeva, all’epoca, di eccellente salute nonostante il regime fosse formalmente smantellato da oltre dieci anni e scampoli da curva sud, agguerriti e potenti, facevano da freno a una reale transizione democratica. Sta di fatto che mentre le vestali dell’ex dittatore si stracciavano le vesti davanti alla Fondazione Pinochet durante la detenzione di quest’ultimo, The Clinic faceva satira feroce sul vecchio generale, guadagnandosi minacce continue e allarmi-bomba pressoché quotidiani. “Più che di queste avevamo paura che i carabinieri, nel cercarle, trovassero la marijuana nei cassetti”, racconta oggi a Reportage il direttore, che a quel tempo aveva trent’anni ed era già un giovane giornalista brillante per poi diventare, con il tempo, uno degli analisti più lucidi e raffinati del Paese.

parraRisultato: l’amata e temutissima rivista vende oggi trentamila copie, lette da oltre 140mila persone e dispone di cinque bar-negozi in franchising in varie zone del Cile che le permettono di non dipendere dalla pubblicità: locali di riferimento per una larga fetta di cileni, molti dei quali leggono il giornale di nascosto benché lo considerino una spina nel fianco e lo accusino apertamente di iconoclastia, blasfemia e volgarità.

Un po’ le caratteristiche di Charlie Hebdo, vero Patricio? “Sono le caratteristiche di tutta la satira dai tempi di Giovenale”. Siete davvero equidistanti? “Non lo siamo affatto. Non sappiamo calcolare l’equidistanza, non ci interessa. Ce la prendiamo con tutti anche se il mondo di destra, padronale, conservatore e autoritario, è il nostro preferito. Pure la sinistra vociferante, nemica delle sfumature ci provoca molte risate. D’altronde, i nostri estimatori sono coloro che non credono nei sommi pontefici e dubitano delle posizioni corrette”. Un bersaglio di primo piano della satira della rivista è la Chiesa, che ha un grande peso nella società cilena e le cui posizioni pudibonde e bacchettone sono tra i temi preferiti del team di Fernandez, soprattutto per quel che riguarda le questioni sessuali. Ed è così che nelle cover del giornale sono apparsi di volta in volta Benedetto XVI vestito da preservativo, madonne dissacrate e così via.

The Clinic prende in giro anche “monumenti” della poesia come Nicanor Parra, al quale il giornale ha dedicato di recente una copertina in cui il centenario poeta, noto donnaiolo, veniva raffigurato accanto a due ragazze con la scritta: “Todavía se le Parra” (“Todavía se le para” vuol dire “Ancora gli tira”).

The Clinic, d’altronde, è un fior di rivista anche dal punto di vista giornalistico (c’è anche il sito, anche se meno graffiante, più di tre milioni di visitatori al mese) con inchieste accuratissime e interviste come quella ad Augusto Pinochet III, nipote del tiranno, convinto che la reincarnazione riporterà tra noi il defunto generale. Erotismo e sesso, poi, impazzano non solo nella parte satirica. Il quadro d’insieme è cinico e scorretto, in linea con lo spirito del giornale, che vanta tra i collaboratori scrittori come Alejandro Zambra, la penna affilata e sensibilissima di Rafael Gumucio e contava tra le sue file anche il geniale travestito Pedro Lemebel, morto qualche settimana fa e cantore comunista del mondo degli emarginati. Sull’opportunità di colpire la religione per fare satira il direttore è netto: “Penso che discuterne dopo l’attentato di Parigi sia riconoscere il trionfo dei terroristi. È tristemente interessante questa alleanza tra integralismo religioso e benpensanti: entrambi si considerano buoni e virtuosi, ma preferiscono quello che credono a quello che vedono”.

 

photo credit: The Clinic

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Dall’Avana, con amore

I più sagaci avevano creduto di intravvedere i segnali del nuovo corso ai funerali di Nelson Mandela, nel dicembre del 2013, quando Barack Obama si era avvicinato a salutare il presidente cubano Raúl Castro e i due si erano stretti la mano con riserbo ma con gentilezza. E anche se quel gesto, enfatizzato dai media di tutto il mondo, rientrava probabilmente nel consueto savoir faire di Obama (così come quello di salutare cordialmente, all’inizio del suo mandato e in occasione del quinto vertice delle Americhe del 2009 a Trinidad e Tobago, l’omologo venezuelano Hugo Chavez che gli aveva regalato con altrettanto calore il classico di Eduardo Galeano Le vene aperte dell’America Latina), è ormai sicuro che quei sagaci avevano visto giusto: già da diciotto mesi, infatti, i due governi trattavano per scongelare una situazione che era ormai obsoleta oltre che ingiusta, ripristinare i rapporti diplomatici interrotti da più di cinquant’anni e avanzare, passo dopo passo, verso la revoca della misura-simbolo delle relazioni cubano-nordamericane post-rivoluzione, il tristemente famoso embargo.

Sta di fatto che il 17 dicembre scorso, sia Castro sia Obama hanno dichiarato, pubblicamente e ognuno al suo Paese, che era finalmente cominciato il disgelo.

Qualche giorno prima, d’altronde, i cubani avevano liberato sia il nordamericano Alan Gross, 65enne analista informatico condannato cinque anni fa per aver cercato di sabotare i sistemi informatici dell’isola sia quello che gli Stati Uniti hanno definito, al momento del rilascio e con parecchia enfasi, la spia di maggior rilievo mai utilizzata a Cuba, senza però rivelarne il nome. Quasi in contemporanea, il governo degli Stati Uniti aveva decretato il rilascio di tre di coloro che sono passati alla storia del post-rivoluzione come i “cinque eroi di Cuba”: condannati nel 1998 a pene variabili tra i quattordici anni e i due ergastoli per spionaggio e considerati all’Avana una sorta di patrioti-eroi che si sarebbero limitati, riuniti nel Gruppo Avispa, a prevenire i sabotaggi e gli attentati dei radicali anticastristi a Cuba. Gli altri due dei “cinque” erano già stati rilasciati rispettivamente uno e due anni prima, dopo aver scontato per intero le rispettive pene, uno era il pilota René Gonzalez che, poco dopo essere uscito dal carcere, aveva dichiarato in una lunga intervista alla BBC: “Sono un cubano della mia generazione, cresciuto sotto la minaccia del terrorismo contro Cuba. Credo sia etico difendersi quando si viene aggrediti ed è quello che ho fatto. Nessuno di noi cinque è andato negli Usa per danneggiare il popolo nordamericano, abbiamo solo esercitato il diritto all’autodifesa.

La progressiva disgregazione degli ultimi scampoli di guerra fredda non ha cambiato invece e sorti della spia cubana più importante dalla rivoluzione, chiusa in un carcere di massima sicurezza riservato alle detenute più pericolose da cui uscirà, salvo colpi di scena, nel 2027. Già, perché la spia in questione è una donna, si chiama Ana Montes , 58 anni, è meglio nota come “La regina di Cuba” o “La regina di ghiaccio” e la sua storia personale e spionistica è degna del più avvincente romanzo di genere: un misto di idealismo esasperato e strascichi di una infanzia difficile, di sangue freddo e determinazione che le hanno permesso per diciassette anni di condurre senza tradirsi una doppia vita: di giorno quella di funzionario in carriera pluridecorato e mente brillantissima della Defense Intelligence Agency e di notte spia per i servizi cubani a cui mandava i testi dei documenti che memorizzava per poi trascriverli su un laptop. Oltre a quest’ultimo, il suo strumento era una radio Sony a onde corte a frequenza 7887 kHz di cui si serviva Cuba per comunicarle gli ordini.

Figlia di portoricani naturalizzati statunitensi – il padre Alberto era un neuropsichiatra di una certa fama – si identificò fin da bambina con i più deboli (probabilmente, secondo gli psicoanalisti che se ne occuparono più tardi, a causa della violenta educazione paterna), ma benché radicalmente di sinistra accettò il lavoro al Dipartimento di Giustizia perché, dichiarò ai tempi della sua assunzione, “Il lavoro è lavoro”.

Le sue idee ipercritiche verso la politica estera degli Stati Uniti attirarono l’attenzione dei recruiters cubani con cui non solo cominciò a lavorare a partire dal 1984, ma ebbe frequenti faccia a faccia senza mai farsi scoprire.

E dire che il fratello Tito era uno stimato agente speciale dell’Fbi così come la sorella Lucy, che solo molto tempo dopo l’arresto di Ana rilasciò dichiarazioni al vetriolo sulla congiunta-spia.

In ogni caso, è grazie a quest’ultima se molti agenti nordamericani che operavano nell’isola vennero individuati e condannati e tra questi, a quanto si dice, la famosa spia rilasciata qualche mese fa.

Sta di fatto che la regina di ghiaccio non sarebbe stata, con tutta probabilità, mai scoperta, non fosse stato per la determinazione di un collega che, spinto da una semplice intuizione, l’aveva tenuta sotto controllo per oltre un anno, fino a raccogliere abbastanza elementi da convincere i suoi capi e quelli della di Ana della doppia, pericolosa attività della donna.

Quando la arrestarono, nel 2002 e in piena sindrome da undici settembre, la Montes stava per essere nominata responsabile del progetto “target-list” in Afghanistan, ma le sue aspirazioni erano piuttosto cambiate, con gli anni, per esempi o si era fidanzata con un collega dell’Fbi e aveva cominciato a pensare a una vita normale e a una famiglia, e a lasciar perdere quell’ingombrante doppia vita che da qualche tempo le procurava crisi di panico, depressione e astenia.

Non aveva però perso il proverbiale sangue freddo, tanto è che quando le comunicarono che era in stato d’arresto, all’improvviso, si limitò imperturbabile a chiedere di parlare con il proprio avvocato.

In tredici anni non si è mai pentita né ha chiesto scusa. Anziché la pena capitale prevista per il tradimento, le è stata comminata una sanzione di 25 anni per spionaggio. In una lettera di qualche anno fa, la “regina” ha scritto nel suo consueto stile caustico, disincantato e poco emotivo: “La prigione è uno degli ultimi posti in cui avrei scelto di stare, ma ci sono cose nella vita per cui vale la pena di finire in prigione. O che vale la pena di fare salvo togliersi la vita prima di passare troppo tempo tra le sbarre”.

 

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Desaparecidos, da numeri a persone. Plan Condor alla sbarra

La signora ha circa ottant’anni e una faccia larga e dura, coperta di rughe. E’ grossa e triste e sta seduta su una poltrona senza muovere un muscolo. Intorno a lei – sulle pareti e sui mobili – decine di foto che immortalano, in pose diverse, quattro ragazzi sui vent’anni con basettoni e baffi, secondo la moda degli Anni Settanta. La signora dice, indicando le facce dentro le cornici: “Questi sono Fulano, e Tizio e Caio e Sempronio. I miei figli. Sono tutti morti, o meglio me li hanno fatti sparire e poi ammazzati”. Ha una voce asciutta che sembra una cantilena. “Passo tutto il giorno con loro. Yo les converso y ellos me conversan. Sono qui con me, o almeno così credo”. Il film è La ciudad de los fotógrafos, dell’oggi quarantaduenne Sebastián Moreno: storia di quei fotografi che, durante il regime, ne raccontarono le brutalità, rischiando la pelle. Uno di loro era il padre di Moreno.

La madre dei ragazzi non versa una lacrima, ma i quattro spettatori in sala – il cinema è il Cine Arte Alameda, d’essai e un po’ anni Trenta, all’inizio dell’omonimo viale che taglia in due Santiago – non smettono di piangere, anche se per tre di loro, cileni, quelle storie dovrebbero essere (e per fortuna non lo sono) fin troppo note.

Ogni Paese infelice lo è a suo modo, un po’ come le famiglie tolstojane, ma a volte le infelicità non solo si somigliano, ma sono guidate da una mano esterna verso un’identica soluzione finale, passando per cammini analoghi. Il 15 febbraio cominceranno i processi italiani contro 21 repressori dei regimi totalitari in Sudamerica nell’ambito dell’Operación Cóndor e i giudici del nostro Paese si troveranno a cimentarsi, come già i loro omologhi del Cono Sur americano, con quello spaventoso piano di sterminio che gli apparati alla guida di otto Paesi, appoggiati dagli Stati Uniti, misero in marcia a partire dal 25 novembre 1975 per contrastare il “pericolo comunista”. La maggior parte dei ventuno imputati (accusati in questo caso dell’omicidio aggravato e sequestro di cittadini italiani) sta già scontando pene di decenni nel proprio Paese, vedi l’ex ministro dell’Interno boliviano Luis Arce Gómez e l’ex capo della Dina, il cileno Juan Manuel Guillermo “Mamo” Contreras Sepúlveda, e la funzione dei processi è soprattutto simbolica, ma sia i “giudizi” sia i reiterati racconti dei crimini, accompagnati dalle testimonianze dei familiari o dei sopravvissuti, servono a rafforzare la memoria, o a costruirne una per chi non l’avesse.

Senza eccezioni, le personalità degli imputati sono d’altronde perfettamente in linea con i loro comportamenti: nessuno ha mai mostrato pentimento, né tracce di empatia o di compassione umana e tutti, senza esclusione, si sono distinti, durante i processi e dopo, per codardia e slealtà. Come nel caso di Contreras che, sodale e amico intimo di Pinochet fino alla fine della dittatura e all’apertura – lentissima – dei primi giudizi, ha scaricato sul suo jefe (che aveva fatto lo stesso con lui) le colpe degli eccidi, in un balletto di accuse e tradimenti, tant’è che quando Pinochet morì, nel 2006, Contreras che stava già scontando la pena a qualche decina di anni in un carcere di Santiago, disse candidamente che non gliene importava affatto.

Tremila morti e desarapecidos, soltanto in Cile. Ci sono voluti molti anni per trasformare quell’incolore, impersonale massa di numeri in donne e uomini le cui storie di martirio si susseguivano nelle aule dei tribunali e per risalire dal racconto comune a quello delle singole vittime, ognuna provvista del suo supplizio personale e del suo carico di sofferenza e di dolore.

Anche la storia dei desaparecidos di Paine, sessanta chilometri a sud di Santiago, è generale e privata. La cittadina sembra ancora oppressa da un karma cupo, e dire che è un posto gradevole con giardinetti e un viale alberato che corre tra le case a pochi piani e un sole forte quasi tutto l’anno. Ma il suo nome è associato, nella memoria dei cileni, a un destino tragico: è stata una sorta di laboratorio per la repressione, e vanta il più alto di vittime in rapporto al numero di abitanti, settanta su ventimila. Nessuno di loro era un’attivista di Unidad Popular, quasi tutti erano contadini che la riforma agraria portata a termine da Allende aveva parzialmente beneficiato, mentre toglieva potere e fondi ai vecchi possidenti, cambiava il rapporto di sfruttamento sui campesinos e si sforzava di applicare la vecchia regola per cui la terra deve andare a chi la lavora. Sarà per questo – per vendetta, o per rimettere le cose al loro posto, o per umiliare i contadini – che molti civili in combutta con carabinieri e milicos (militari) si scatenarono nelle retate e le fucilazioni subito dopo il golpe.

E cominciarono a Paine l’insicurezza e la paura, soprattutto la paura. Perché i carabinieri li conoscevano tutti, ed erano stati brava gente fino a poco prima, a volte amici delle future vittime e nessuno, all’inizio, poteva immaginare che si sarebbero trasformati in aguzzini come quello che arrestò il marito di Juanita Lighton detta La Negrita, il 27 settembre, per poi ammazzarlo dopo averlo torturato, qualche giorno dopo. “Erano amici, lui e il paco (carabiniere)”, mi ha raccontato Juanita. “Abitava nella casa accanto alla nostra. Ma non lo giudico, l’ho perdonato. In fondo obbediva agli ordini”. O come quelli (una ventina di militari e un civile) che, nella notte del 16 ottobre tragicamente rimasta nella storia, entrarono nelle case di 22 painini con le facce dipinte di nero, i mitra puntati e si portarono via, spingendoli e trascinandoli, uomini o ragazzi tra cui il contadino Lazo Maldonado e i figli di 17 e 18 anni e li portarono, insieme agli altri, in un luogo a un’ora da Paine dove li fucilarono e seppellirono. Ad Alejandro Bustos, che scampò a una delle esecuzioni di quei mesi fingendosi morto benché fosse ferito a una gamba, si deve in parte se sono stati condannati, dopo un iter di decenni, personaggi come Juan Francisco Luzoro Montenegro: piccolo imprenditore dei trasporti che, benché civile, aveva diretto in parte la repressione con una ferocia che nessuno avrebbe immaginato. Se si dovesse giudicare il livello di sofferenza dal numero di familiari persi, la più colpita sarebbe Mercedes Peñaloza a cui ammazzarono quattro figli, e che è morta senza avere giustizia.

Le sorelle dei due ragazzi Lazo Maldonado hanno invece quasi cinquant’anni e sono così diverse che non sembrano parenti. Una, Lidia, è timidissima e spaurita, terrorizzata da tutto, ma Flor, capelli rossi e occhi taglienti, ha il viso duro della lottatrice che ha vinto più d’una battaglia: per esempio quella di guadagnarsi una borsa di studio presso la Universidad Católica di Santiago, una delle più prestigiose del Paese, dove si è laureata in psicologia. O quella di collaborare con il giudice Héctor Solís nelle indagini sul caso Paine, fino a vederne i primi risultati, come l’arresto e la condanna del colonnello Andrés Magaña Bau, che allora era un sottotenente e che soltanto di recente è stato riconosciuto colpevole di molti di quegli omicidi. I sopravvissuti lo ricordano come un uomo brutale e violentissimo, a cui piaceva brutalizzare le vittime prima di ammazzarle.

Al pari di quella degli altri familiari, la vita di Flor e Lidia dopo la morte del padre è stata di povertà, umiliazioni e paura. “Non avevamo niente. Per anni siamo vissute dell’elemosina delle famiglie di altri painini ejecutados, che però erano un po’ meno povere di noi. Perché dopo che li ammazzavano, le famiglie restavano senza sostegno economico, e nessuno voleva dare lavoro alle vedove, ai figli. E così erano tutti poveri ma non come noi, che davvero eravamo poverissimi”.

Quando avevano qualche soldo, le mogli o le mamme dei desapaceridos andavano in giro per i commissariati della zona o a Santiago a cercare i loro cari. “Non ci sono”, dicevano loro. “Qui non c’è nessun detenuto, saranno scappati con le amanti. Vedrete che tornano”. Ma invece non sono tornati. Nemmeno i resti hanno trovato, visto che nel ’78 qualcuno li ha dissotterrati e sepolti altrove, o buttati in mare per cancellare le tracce degli eccidi. E per la sofferenza e la frustrazione molte di quelle donne si sono ammalate. “Si chiama traumatizzazione estrema”, mi aveva spiegato Carola, psicologa del gruppo di assistenza che ogni mercoledì, per anni, è andato a Paine ad ascoltare, in un rudimentale studio di consulenza psicologica, i familiari delle vittime e che ho seguito in diverse occasioni. Un gruppo di artisti ha insegnato alle donne a disegnare in un mosaico quello che ricordano dei loro cari. I disegni si possono vedere in quello struggente memoriale che è stato costruito alla periferia del paese, accanto a un viadotto e una distesa di sterpi: decine di pali che ricordano le vittime, sotto ogni palo ci sono uno o più mosaici. I disegni sono tristi e ingenui: falce e martello oppure cuori, uccelli e chitarre, un campesino che suona la chitarra. “I contadini erano allegri, qui, prima”, dice Carola. “Poi, questo paese è diventato triste”.

Mamo Contreras, che ha 85 anni e sta scontando molte pene per complessivi 396 anni, non è direttamente responsabile dei fatti di Paine, ma è colpevole dell’infinita serie di omicidi, torture, sparizioni e sequestri operati dalla spietatissima Dirección de Inteligencia Nacional, che diresse dal ’73 al ’78, quando venne chiusa.Ha un fisico minato da un cancro al colon, dal diabete e dall’ipertensione, ma anche nella destra più fervente sono pochi a provarne pena. In un sondaggio realizzato qualche anno fa, è risultato l’uomo più detestato dai suoi compatrioti.

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Anche il narcotraffico ha la sua playlist

Ogni sottocultura ha la sua musica e quella del narcotraffico è il narcocorrido: diffuso soprattutto in Messico in parte di Centro e Sud America e ultimamente sempre più popolare tra i latinos degli Usa, nella versione globalizzata e contemporanea del Movimiento Alterado o Movimiento Enfermo.

Non proprio un fenomeno di nicchia, dati i milioni di estimatori che visitatori i video più gettonati su you tube e la ressa ai concerti di gruppi come Los Trigres del Norte ed El Komander – esponenti di punta rispettivamente del narcocorrido tradizionale e vecchio stile e di quello all’avanguardia – ma neanche un movimento artisticamente rilevante non fosse per l’importanza socio-antropologica che riveste e per il fatto di rappresentare, di solito celebrandolo, il mondo multiforme e violentissimo che gira intorno ai narcos: da almeno vent’anni protagonisti della scena criminale in Messico e considerati da molte sacche sottoculturali come la rivalsa degli ex poveri contro lo Stato, gli eroi del popolo e l’unica via di sopravvivenza (e spesso di benessere) per molti giovani di Stati derelitti come Chihuaha e Sinaloa (dove, per inciso, gli omicidi per traffico di droga sono la principale causa di morte).

pezzo sabaTerra, quest’ultima, non solo del Cártel più potente ma anche di una popolazione che al 35 per cento vive sotto la soglia della povertà. Strano fenomeno quello dei narcocorridos (anche se non proprio originale, basti pensare alle vecchie ballate del Sud Italia sui protagonisti della criminalità organizzata): al folk melodico in stile polca suonato con l’immancabile acordeón da uomini piuttosto giovani con cappelli da cow boy e pancette traballanti, fa da contraltare un testo fitto di torture e sgozzamenti. Rispetto agli esordi, la musica è cambiata poco (nei brani recenti il ritmo è più regolare, arrangiamenti moderni e l’introduzione della tuba si innestano nello stile classico), ma le parole e i video delineano un mondo ben diverso da quello raccontato nelle prime ballate: quelle in cui El Jefe (Il Capo) era l’eroe di turno coraggioso e umile e spesso difensore degli oppressi, non certo il delinquente i cui valori sono i soldi facili e il vivere bene e alla giornata, non importa quanto a lungo.

Video in cui non solo le esecuzioni, nelle versioni più truci, sono mostrate con orgoglio, ma in cui il paesaggio di fondo sono mazzi di dollari e coca, auto di lusso e ragazze strepitose, molto ingioiellate. Ed è così che nel video della superstar Larry Hernández, Gente vip, la “parte magica” dello scenario è esibita con allegria e senza complessi, e il giovane protagonista beve e se la spassa mentre canta una lunga, noiosa elencazioni di status symbol come Armani. Nei brani del Movimiento Alterado, non certo un inno all’innocenza, crimini e misfatti sono d’altronde solo un mezzo per assecondare quella che per qualche buchon (appartenente al Movimento) è l’ “autentica voglia di vivere messicana”. E dire che in molti video appaiono, bene inquadrate, le gigantesche croci cattoliche che qualunque bravo narco porta appese al collo.

Nella convinzione che le canzoni alteradas o enfermas fossero un incentivo al crimine, la maggior parte degli Stati federali ha proibito, qualche anno fa, la diffusione di quella musica per radio, mentre il governatore di Sinaloa ha vietato l’esecuzione di narcocorridos in luoghi pubblici come bar e discoteche. La decisione ha scatenato un mare di polemiche: secondo un’inchiesta svolta da El Pais, la maggior parte degli abitanti di Sinaloa trovava ridicola oltre che inutile quella decisione, dato che non è certo colpa delle canzoni se molti ragazzi, nelle zone calde del narcotraffico, decidono di entrare in quel business. E’ finita che la Corte Suprema di quel Paese ha annullato la decisione, e nel frattempo i brani alterados hanno continuato la loro parabola ascendente, consacrata perfino da un’etichetta discografica, ladiscomusic, dei due fratelli Adolfo e Omar Valenzuela, meglio noti come Twiins o Los Cuates Valenzuela i quali, nella loro casa di produzione a Los Angeles, dove si sono trasferiti diversi anni fa dalla natale Sinaloa, sono diventati il punto di riferimento e il trampolino di lancio di tutti i più importanti cantanti del genere: dai Buchones de Culiacan ad Alfredo Ríos detto El Komander, un tipo trucido il cui physic du role – testa rapata, baffi e aria da guappo – in abbinata con i testi e i video splatter, gli ha conquistato la devozione quasi religiosa di circa 3 milioni e mezzo di fans su fb. In cima alla classifica di gradimento c’è la notissima canzone Los sanguinarios del M1, una polchetta placida e orecchiabilissima che ruota intorno al ritornello Volando cabezas (Facendo saltare teste) e il cui video è una sfilata di esecuzioni e scontri a fuoco.

Va detto che tra i vecchi autori di narcocorridos e i guappi del movimiento alterado non sempre corre buon sangue. Alle “icone” Los Tigres del Norte, per esempio, la sciatteria morale dei nuovi gruppi non piace affatto benché nemmeno loro siano proprio immacolati e immuni da critiche. Autori di 21 cd tra cui i popolarissimi Contrabando y Traición e La Reina del Sur, per un totale di 35 milioni di copie vendute e ben sei Grammy vinti, sono stati sanzionati anche loro in quei concerti in cui avrebbero presentato brani filonarcos, piuttosto abbondanti nella loro sterminata produzione. Per esempio Jefe de jefes, un vero innoal supercapo Miguel Ángel Félix Gallardo. Ma era tutt’altra epica, dicono gli estimatori, nata dall’idealizzazione di alcuni narcos storici e dalla loro “trasformazione” in modelli di coraggio e integrità nel contrapporsi a uno Stato ostile, corrotto. La linea di confine tra la pura cronaca e la sua celebrazione è d’altro canto fragile. E se il Komander (il più problematico tra i cantanti alterados, i cui concerti sono stati annullati in molte occasioni per le canzoni violente e apologetiche), dichiara che “raccontare quello che succede nel mio Paese non significa elogiarlo”, e che le sue canzoni si limitano a raccontare quello che succede in Messico, altri cantanti ammettono candidamente che, dato che cantano per vivere, accettano qualunque incarico senza distinzione, e senza chiedere ai committenti chi siano o per chi lavorino.

Benché i guadagni siano allettanti, quello dell’autore di narcocorridos non è un lavoro privo di rischio. Decine di musicisti sono stati fatti fuori da questo o quel Cartello: rei di aver cantato una parola sbagliata, di essere diventati troppo esosi nel caso dei brani su committenza e per altri motivi non sempre decifrabili. Ed è per questo che la maggior parte va a vivere in California, sotto l’ala dei fratelli Twiins che, a loro volta, hanno dovuto chiedere in qualche caso al Cartello di Sinaloa l’autorizzazione a pubblicare brani che li riguardavano. Un’attenzione che probabilmente non ha avuto Chuy Quintanilla, “giustiziato” nell’aprile dell’anno scorso in Texas con due colpi di pistola alla testa. O il famosissimo Gerardo Ortiz, meglio noto come Rey del Corridoche, sfuggito a due attentati nel 2011, ha ricominciato solo di recente ad andare in giro per Stati Uniti e Messico. E’ un tipo rotondetto che si esibisce, come quasi tutti, con cappello da cow boy e calzoni in pelle, e dimostra parecchio meno dei suoi 25 anni.

1) Los Trigres del Norte

 

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Cile, una riforma rivoluzionaria della scuola

Che cos’hanno in comune l’approvazione alla Camera cilena della legge contro il lucro nella scuola, di qualche giorno fa, e la candidatura alle ultime presidenziali di Roxana Miranda, la prima pobladora nelle elezioni del post dittatura che ha superato sbarramenti e pregiudizi riuscendo a conquistarsi non solo una sua fetta, per quanto piccola, di elettorato ma anche il rispetto di molti dei nemici storici di classe? Non molto, se si considerano i due fatti come cose a sè. Se invece li si osserva come manifestazioni di una realtà che cambia, ecco che la sanguigna candidata e le nuovissime misure sull’istruzione appaiono due eventi simili all’interno di un contesto in mutazione: la società cilena che, fossilizzata tra atarassia e paura (o l’ombra lunga della paura, ereditata dal regime e sopravvissuta sotto il new deal democratico), da qualche anno rivendica diritti sacrosanti: per esempio quello di una morena povera a uscire dal suo mondo emarginato per candidarsi, addirittura, alle presidenziali, e il diritto di tutti a una scuola accessibile e di qualità, cavallo di battaglia della campagna della Bachelet e di cui la misura approvata alla camera rappresenta il primo passo. Nessuno di questi diritti era formalmente vietato dalla legge, ma l’intera struttura politica e sociale cilena era studiata in modo tale da stabilire differenze così nette tra una classe e l’altra da rendere pressoché impossibile il salto sociale, tanto che il detto “poveri o ricchi dalla culla alla tomba” è diventato una costante per indicare il way of life cileno: un iperliberismo senza nemmeno la consolazione del sogno americano, dove gli indicatori macroeconomici sono i più sontuosi del subcontinente ma lo scarto tra ricchi e poveri è ancora tra i più alti al mondo.

La scuola è la cartina tornasole: chi ha i soldi manda i figli negli istituti a pagamento, gli altri si accontentano di quelli pubblici, che sono notoriamente pessimi (tutt’altra cosa dalle scuole dei tempi di Allende, quando ci andavano a studiare da tutta l’America Latina).  A frequentarli si ha la certezza di non poter accedere a università decorose, che oltre a richiedere un punteggio di fine-studi alto, costano un occhio: si calcola che una famiglia cilena spenda il 40 per cento delle entrate per far studiare i figli, uno sproposito, ma i genitori fanno di tutto per pagarlo perché è dal livello della scuola che dipende il futuro dei ragazzi: chi ha frequentato una buona università ha accesso a lavori decenti, agli altri tocca rassegnarsi a impieghi malpagati.  Va da sé che quelli che non ce la fanno ricorrono a prestiti onerosissimi. La scuola, insomma, conferma la differenza in classi e ripercorre quel cammino personale e prevedibile che porta, senza sostanziali deviazioni, “dalla culla alla tomba”.

Eppure, soltanto nel 2011 la società cilena si è mossa per reclamare una legge equa, inclusiva e meno segregante. Centinaia di migliaia di studenti, famiglie e lavoratori di cui molti apolitici hanno partecipato alle oceaniche marce organizzate con la essenziale regìa del Partito Comunista che, rimasto nell’ombra benché attivo fino a quel momento, ha messo la sua capacità di organizzazione al servizio della protesta. Di colpo, le regole che tutti sembravano considerare ingiuste ma inevitabili sono diventate una stortura contro cui era giusto combattere. Gli studenti hanno occupato per mesi gli istituti, la bella portavoce Camila Vallejo della Jota, la Gioventù Comunista, e il dirigente di centro-sinistra Giorgio Jackson sono stati immortalati sui media di tutto il mondo mentre rivendicavano una società più giusta, il cui cambiamento doveva passare per l’istruzione, mentre il presidente di centro-destra Sebastian Piñera, la cui approvazione precipitava in quei giorni al livello più basso per un capo di Stato del dopo-Pinochet, era costretto a cambiare tre ministri dell’Istruzione e a elemosinare un incontro con i giovani leader che si negavano senza abbassare l’asticella delle richieste.

Camila Vallejo è deputata, oggi, del partito comunista, Giorgio Jackson per il partito Rivoluzione Democratica. La giovane ex segretaria della gioventù comunista Karol Cariola è deputata a sua volta. Il Pc ha raddoppiato i propri seggi in parlamento, nelle elezioni della fine del 2013. D’altronde, per vincere le presidenziali, Michelle Bachelet ha dovuto allearsi con i comunisti, dando vita alla coalizione della Nueva Mayoria che ha sostituito la vecchia Concertazione e comprende dai democristiani alla sinistra radicale.

Anche il programma della Bachelet è cambiato rispetto a quello della sua prima campagna elettorale, molto più moderata e conservatrice. Il fatto è che ora il Paese è meno moderato e conservatore. Tra le promesse elettorali ci sono una nuova Costituzione e la riforma della scuola, quella della salute e delle pensioni, senza dimenticare la riforma tributaria che aumenterà le tasse alle grandi imprese per investirle in welfare. L’approvazione di quest’ultima risale a qualche settimana fa, dopo un iter di vari mesi che ha rischiato di far implodere la maggioranza e di accentuare gli scontri tra la Nueva Mayoria e una destra ridotta al lumicino, svuotata di consenso: alla fine, ha vinto la posizione di chi voleva che la riforma venisse approvata anche da quest’ultima, sia pure con qualche modifica rispetto al testo iniziale. In ogni caso, il risultato è che l’imposta per le grandi imprese è salita al 27 per cento, In tutto, fanno 8.200 milioni di dollari da investire nelle riforme sociali.

La legge tributaria e quella della scuola sono strettamente legate. La prima servirà, soprattutto, per pagare la seconda. La misura appena approvata non solo mette fine al lucro nelle scuole ma elimina il “copago”, il cofinanziamento, e la selezione degli alunni negli istituti pagati anche in parte dallo Stato. L’idea che l’istruzione sia un bene di consumo e che chiunque possa aprire scuole al solo scopo di guadagnare senza attenzione per la qualità né controlli è stata soppiantata dal principio per cui la scuola è un bene pubblico, così come la salute.

Qualche anno fa questa legge sarebbe stata rivoluzionaria, oggi molti criticano che non sia passata la sanzione del carcere per chi lucra sulla scuola. Anche la selezione nell’ammissione è stata abolita, dato che si trattava di un meccanismo segregante che premiava gli studenti sulla base del censo, e cioè della possibilità delle famiglie di pagare le quote. Rendere la scuola più inclusiva vuol dire rompere la catena “dalla culla alla tomba” interrompendo il destino di segregazione che accompagna chi arriva dalle classi basse. Vuol dire, anche, infrangere quel paesaggio di corollari che si accompagnano all’appartenenza alle diverse classi: le upper classes dei cuicos o pitucos che vivono tanto più in alto sulle Ande quanto più sono altolocati (in modo che sia ampio lo spazio che li divide dalla città comune), classi medie e basse e pobladores come Roxana Miranda, la candidata. Che oltre a essere una popolana del quartiere di San Bernardo è anche meticcia e quando si è presentata alle elezioni ha scatenato una tempesta di polemiche e irrisioni. Il Cile bianco e reazionario, biondo e orgoglioso delle sue origini europee, spesso nostalgico del pinochetismo, si è per lo più indignato per la comparsa di quella sarta poco acculturata e prestata alla politica che gridava cose come: “Il popolo deve recuperare le risorse che gli sono state strappate per arricchire poche famiglie”. Eppure, c’è chi l’ha votata. Non moltissimi, visto che è arrivata ultima tra gli otto candidati, ma neanche un numero risibile: 84mila voti. Roxana Miranda è figlia di quel cambio sociale, della trasformazione e della evoluzione nella cultura che ha prodotto le proteste di tre anni fa e l’indignazione a scoppio ritardato che si è manifestata, tra le altre cose, in occasione del quarantennale del colpo di Stato: quando tutte le tv cilene hanno trasmesso documentari, tabù fino a pochi anni fa, sui crimini del pinochetismo. Molti di quelli che hanno votato la Miranda sono persone che, un tempo, si vergognavano del loro sangue misto e si sentivano in difetto davanti agli immancabili occhi azzurri dei rampolli delle famiglie influenti. È stato come prendere coscienza della propria appartenenza, smettere di sognare il mondo cuico come una chance che la vita gli ha negato, o comunque non vederlo più come una volta.

 

 

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