Le donne marocchine si ribellano con la velocità dei loro skateboard | Testo e foto di Chantal Pinzi

Uno sport che qui non è soltanto un passatempo, ma un gesto di rivolta e di emancipazione contro i pregiudizi, le minacce, le ripercussioni sociali: “Quando passo per strada sulla mia tavola gli uomini mi gridano di tornare a casa a lavare i piatti”, racconta Zineb. Molte di loro aspirano a diventare campionesse mondiali

 

Che cosa starà provando quella ragazza dalla lunga chioma nera che fuoriesce dal caschetto protettivo, mentre si decide a cadere nel vuoto da una tale altezza? Eccitazione, coraggio, paura? Eppure, per essere arrivata fin lì, a diciannove anni, deve aver ripetuto quel movimento migliaia di volte. I fasci muscolari delle sue gambe hanno memorizzato la sequenza, il suo baricentro sa perfettamente dove posizionarsi per non perdere l’equilibrio e sfidare le leggi della sica. Sakura Yosozumi per un istante esita nell’aria umida di Tokyo; si prende forse il tempo necessario per godersi finalmente il suo momento, mentre realizza il sogno rincorso per anni. I rumori circostanti si placano, sostituiti dal ronzio della skater che precipita giù lungo la rampa olimpica e dal suono dei cuori in tumulto di chi la osserva prendere il volo e scrivere il suo nome nei libri di storia.

Ilham esulta ancora prima di finire di vedere, nello schermo del suo smartphone, la performance della campionessa giapponese che ha vinto le prime Olimpiadi di skateboard della storia. Anche lei condivide il sogno di salire sul gradino più alto del podio olimpico, ma nel suo Paese, lo skateboard per il suo genere è ancora considerato “haram”, proibito. A dispetto della reputazione internazionale del Marocco di paese riformista e progressista, le donne continuano a dover affrontare molti ostacoli e discriminazione. La loro partecipazione sociale, economica, politica e sportiva è ancora minima o del tutto negata.

Lo skateboarding non fa eccezione; se sei una donna, non dovresti praticarlo. Tuttavia, Ilham e alcune altre protagoniste della scena nord-africana non si sono piegate alle dure ripercussioni sociali e familiari e, nonostante i pregiudizi e le minacce, si sono ribellate salendo in equilibrio su di una tavola e trasformando lo skateboard in una forma di resistenza al patriarcato.

La città di Casablanca vuole proprio stordirci i sensi. Da un lato, c’è l’idilliaca immagine da cartolina della moschea di Hassan II e, dall’altro, la crudezza della povertà delle sue innumerevoli baraccopoli sovrastate da palazzi a cinque piani in un alternarsi di tram moderni con aria condizionata e di cavalli che trainano carretti stracolmi di spazzatura. Ilham sembra incorporare perfettamente il dualismo della sua città. La A cerchiata di anarchia, tatuata sul polso, contrasta con l’hijab che le copre i blue jeans strappati. (…)

 

Ph. Ilham. nel suo hijab verde, in cima al tetto di un edificio abbandonato di Casablanca, che per mesi è stato la sua casa perché non era accettata dalla famiglia in quanto skater.

 

Il servizio completo è pubblicato su Reportage numero 58 (gennaio-marzo 2024), acquistabile qui in formato cartaceo e in digitale.

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