Laos, dal comunismo al mercato attraverso il turismo selvaggio – testo e foto di Graziano Graziani

Quanta gente oggi saprebbe dire, in Europa, chi è Kaysone Phomvihane? Il vecchio leader comunista del Laos e fondatore dell’odierna repubblica popolare non ha avuto, nell’immaginario collettivo occidentale, la stessa fortuna dei suoi omologhi vietnamita e cambogiano, Ho Chi Minh e Pol Pot. A dire il vero più di un occidentale che incontro in Laos, attirato dalle promesse di una vacanza esotica, si stupisce delle tante bandiere rosse con la falce e martello che pendono quasi da ogni esercizio commerciale: “Perché? In Laos c’è il comunismo?”. Ma lo stupore non dura che un’alzata di spalle. L’apertura dei regimi socialisti al mercato – e quindi anche al turismo – non è certo una novità. Ci scherzo su con un ragazzo cinese che incontro a Vientiane, un analista economico in vacanza. Ma lui mi prende molto sul serio e ribatte: “Noi non crediamo più nel comunismo. Ha fallito. Gli unici Paesi che hanno ancora un’economia socialista sono Cuba e la Corea del Nord. E stanno morendo di fame”. Pragmatismo senza appello. Lo stesso che da tempo ha invaso anche il meno conosciuto dei Paesi del sudest asiatico, il Laos appunto, che è anche lo stato più povero dell’area. La faccia di Kaysone mi guarda con un’espressione seria, ma in fondo bonaria. Un busto dorato del vecchio leader troneggia in un angolo nel piccolo Museo nazionale di Storia, adornato da rose finte – un’iconografia che sembra importata dal vicino Vietnam, dove non è difficile trovare altarini simili dedicati a Ho Chi Minh. (…)

 

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