Verità e realismo i due parametri del fotogiornalismo | l’analisi di Riccardo Bononi

Sembra normale oggi chiedersi se la fotografia che abbiamo davanti agli occhi sia o meno “reale”, nella misura in cui a ogni immagine fotografica sia richiesto un certo grado di verosimiglianza, sia per quanto guarda la spontaneità della situazione ritratta, sia per quanto concerne tutti gli aspetti della postproduzione e della manipolazione digitale. Davanti allo scatto di Robert Capa del primo miliziano ucciso nella Guerra Civile spagnola nel 1947, almeno tre generazioni di detrattori si sono interrogati sulla veridicità di quel tragico istante in cui un soldato viene trafitto da un proiettile nemico: stiamo davvero osservando un uomo nell’atto di morire, oppure si trattava di qualcuno che scivolava durante un’esercitazione?

Senza voler entrare nel merito di una diatriba già fin troppo inflazionata, l’esempio in questione rivela un importante segreto sul modo in cui la fotografia e il fotogiornalismo siano sempre stati intesi e indissolubilmente legati a una aspettativa da parte del pubblico di un chiaro e insostituibile valore di verità. L’impatto emotivo che quella immagine, una volta pubblicata, ha avuto sull’immaginario collettivo e la sua forza nel saper rappresentare la tragedia di una neonata guerra civile sono stati totalmente subordinati ad un dubbio persistente: ma quello che stiamo vedendo è davvero accaduto così come ci è stato descritto?

Volendo restare ancora per un momento in Spagna, è facile ripensare a un altro tragico evento: il massacro raccontato da Francisco Goya nel quadro “3 Maggio 1808”, conservato oggi al Prado di Madrid. Recentemente ho letto una breve descrizione critica al dipinto di Goya, in cui veniva descritto come una “vivida e perfetta fotografia dei drammatici giorni dell’invasione napoleonica ai danni della Spagna”. Eppure il capolavoro di Goya, così capace di restituire la sofferenza di quei giorni sanguinosi, non è e non potrebbe mai essere una fotografia: all’arte pittorica è concesso il lusso di limitarsi a interpretare gli eventi, di riportare quanto basta per rievocare nello spettatore tutta la potenza emotiva della situazione ritratta.

La potenza di tale forza evocativa sarà il parametro per definirne l’efficacia, ma certamente nessuno accuserà Goya di non aver rappresentato fedelmente i fatti, o che l’uomo che sta per essere fucilato, ad esempio, non indossasse davvero dei pantaloni gialli. Alla pittura, così come alla letteratura, alla scultura e alle altre arti, è sempre stato concesso un certo margine di interpretazione; la fotografia invece, dai suoi albori e per sua stessa condanna tecnica, la si è sempre voluta fredda, distaccata e descrittiva. (…)

 

 

ph. Corpi di bambini rifugiati uccisi sulla spiaggia di Inani, vicino a Cox’s Bazar, Bangladesh (foto di Patrick Brown)

 

L’articolo completo è pubblicato su Reportage n. 39 acquistabile qui in cartaceo e in versione digitale

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