Intervista a Paolo Rumiz | di Maria Camilla Brunetti

Paolo Rumiz, giornalista e scrittore, racconta i suoi viaggi, nei quali ha appreso che il mix di cultura slava, tedesca, ebraica e latina è la quintessenza del nostro continente: “Tutti sono convinti che il male venga da Oriente, dove cerchiamo un nemico che invece non si presenta mai”.

 

Scrittore, giornalista, reporter di guerra e soprattutto instancabile viaggiatore, Paolo Rumiz ha attraversato – nei lunghi anni della sua professione – quei territori di faglia meno raccontati dalle consuete linee di narrazione mainstream. Il suo sguardo si è spesso posato su quelle terre di confine che racchiudono in loro il peso della Storia, la violenza dei totalitarismi e dei nazionalismi, la ferocia dei conflitti e la ricchezza di territori complessi, etnicamente misti, risultato di secoli di migrazioni. Il suo bisogno di conoscere e vedere – da viaggiatore e intellettuale e da uomo triestino nato nel primissimo secondo dopoguerra – si è sovente diretto a Oriente. A quello spazio quasi infinito che include l’area slava estesamente intesa (area bal- canica, danubiana, baltica) così come il Mediterraneo orientale. Ha raccontato, da testimone diretto, la tragedia del conflitto balcanico in Maschere per un massacro (Feltrinelli, come tutti i libri citati da qui in avanti), mentre in Trans Europa Express descrive il suo viaggio di seimila chilometri, nel 2008, lungo la frontiera tra l’Unione Europea e la Russia, dal Mar Glaciale artico alla Turchia. In Come cavalli che dormono in piedi, ripercorre – sulle tracce del nonno – le linee del fronte orientale (nell’allora Galizia, territorio ora compreso tra Ucraina e Polonia) durante la Prima guerra mondiale, dove furono mandati a combattere nell’agosto del 1914 circa centomila giovani trentini e giuliani all’epoca ancora sudditi dell’impero austroungarico. Lontano dalle rotte tradizionali della cronaca mordi e fuggi, Rumiz ha attraversato i territori che ha raccontato nei suoi numerosi libri e nei suoi articoli scritti soprattutto per “la Repubblica” e per “Il Piccolo” di Trieste con passo e sguardo di camminatore, di osservatore attento e dall’inesauribile curiosità, vicino agli ultimi, viaggiando su mezzi di trasporto pubblici di ogni tipo, in bicicletta o su piccole automobili. Ha raccontato in maniera estesa anche l’Ita- lia, concentrandosi prevalentemente su territori fuori dalle rotte metropolitane. In La leggenda dei monti naviganti ripercorre ottomila chilometri lungo le due più importanti catene montuose italiane, le Alpi e gli Appennini, dal golfo del Quarnaro a Fiume fino a Capo Sud, l’estremo punto meridionale della penisola. Ancora rotte inaspettate sono raccontate più recentemente in Il filo infinito. Viaggio alle radici d’Europa: qui l’autore va alla ricerca dei luoghi e dell’esempio di San Benedetto da Norcia, patrono d’Europa, e dei suoi epigoni, partendo proprio dalla Norcia ferita dal terremoto dell’ottobre 2016. E ancora in Appia, percorrendo a piedi con un gruppo di amici l’antica via che parte da Roma, ci svela un’Italia segreta tra echi arabi e normanni, fino ad arrivare a Brindisi, città-porta che prefigura l’O- riente. Dalla sua casa sul confine tra Italia e Slovenia, dove lo raggiungiamo telefonicamente, ci parla di cosa lo ha spinto a raccontare, della sua idea di viaggio e di scrittura, di ciò che ha visto sulle linee dei suoi molti itinerari.

Vorrei partire da un fattore anagrafico che, immagino, abbia avuto un ruolo fondamentale nella sua visione di uomo e di intellettuale. Lei è nato a Trieste nel dicembre del 1947. È nato quindi in una città con un’eredità storico-culturale estremamente complessa, sul confine orientale italiano, negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale. Che cosa ha significato, cosa significa per lei, essere triestino e che cosa ha significato essere nato a Trieste in quel passaggio storico così tumultuoso per la città?

A Trieste ho la sensazione di vivere su un sismografo che registra le cose che accadono anche a grande distanza da qui. Ho sempre avuto la percezione, confusa da bambino e sempre più netta con gli anni, che a Trieste si riverberano in modo molto intimo eventi e mutazioni anche molto lontani. Già da bambino ho avuto le prime percezioni dei grandi movimenti di migranti – gli anni in cui proprio nel luogo in cui sono cresciuto arrivavano italiani e altre persone in fuga dal nuovo regime jugoslavo. Ho sempre visto persone in fuga, donne e uomini che migravano, non solo adesso. Trieste è un nervo sensibile. Ad esempio il porto registrò con molto anticipo, attraverso le sue missioni all’estero, il preludio di quella grande messa in scena che è stata il crollo del Comunismo. Questa è una terra etnicamente mista, per la quale nessun confine nazionale potrà mai essere soddisfacente. Da qui è molto netta la percezione che i nazionalismi sono stati e sono tuttora, come si vede per la crisi ucraina, una sciagura per l’Europa. Una cosa è la lingua madre, un’altra è appartenere a uno Stato nazionale. Molti non capiscono, per esempio, che si può essere sloveno e vivere in Italia, così come pochi comprendono che si può essere russi e vivere nelle Repubbliche baltiche. Mentre la realtà è esattamente questa. L’Europa era e rimane, nonostante i totalitarismi che hanno semplificato le geografie e le complessità dei territori, un grande crogiolo di popoli che tentare di dividere porta solo trage- die.

Questa terra di confine – con la sua sindrome da ultima frontiera (come l’ha definita) – è ancora oggi il luogo da cui parte per i suoi viaggi? E’ sempre stato questo il luogo al quale è tornato?

Direi di sì. Trieste è un luogo magnifico da cui partire e a cui tornare. Quando torno ad affacciarmi su questo mare e vedo questo ultimo lembo di Mediterraneo il cuore mi va in tumulto. E’ un luogo bellissimo da cui partire perché da qui si percepiscono un’infinità di cose. Si vede la grande leggenda di Venezia, si vede già l’Oriente, le Isole dalmate preludio della Grecia e dell’Egeo e le navi di Trieste che vanno quasi tutte verso la Turchia, verso l’Asia. Qui la presenza dell’Oriente è molto forte. La stessa presenza della lingua slava in senso esteso, questa abitudine di sentire un’altra lingua a casa mia, mi rende molto percettivo su tutto ciò che accade nei dodici fusi orari di mondo slavo che stanno a oriente di Trieste. A Trieste si sente nettamente di essere su un punto di incontro di popoli che può però anche diventare una pericolosa linea di faglia. Come quello che avviene oggi in Ucraina, il cui nome significa esattamente “frontiera”. Un luogo di incontro di popoli che oggi si vuol fare diventare nuova- mente un punto di scontro tra nazioni e non più un prezioso stato cuscinetto. (…)

 

L’intervista completa è pubblicata su Reportage numero 50 (aprile-giugno 2022), acquistabile in libreria e direttamente sul nostro sito, in versione cartacea e digitale.

 

Ph. Paolo Rumiz. Credit: Alessandro Scillitani.

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