“Dentro una foto ci sono pure i baci che hai dato e che ti hanno dato”. Intervista a Letizia Battaglia di Maria Chiara Di Trapani

Letizia Battaglia. Tutta la sua essenza di donna e fotografa in questo nome. Letizia è bellezza, generosità e grazia femminile ancora oggi che ha appena compiuto 80 anni, Battaglia nel guizzo che fiammeggia nello sguardo appassionato che esprime la forza pasionaria con cui vive, fotografa e combatte le lotte civili senza mai tirarsi indietro. Apre la porta del suo appartamento-studio a Palermo, mentre il cane Pippo abbaia festoso. Ci conosciamo da un decennio e ogni volta varcare la sua soglia significa per me essere investita da una confusione piena di vitalità, dall’emozione di un ricordo, dall’energia di un nuovo progetto. È stata una delle prime donne fotoreporter in Italia. Scelta per condurre dal 1974  al 1991 il team fotografico del quotidiano comunista del pomeriggio L’Ora di Palermo, sarà anche la prima donna europea a ricevere  nel 1985 il Premio Eugene Smith per la fotografia sociale.
“Dovevo mettermi il rossetto!”, sorride ironica mentre ci accomodiamo. 

Letizia – guai a darle del lei, si offende! – è vero che hai iniziato a fotografare a Milano solo per accompagnare i tuoi articoli?

Volevo scrivere, ma nelle redazioni, al Corriere, Giorno e Vie Nuove, quando consegnavo gli articoli mi chiedevano: “E le fotografie dove sono?”. Così iniziai.  Mi mise la macchina fotografica tra le mani il mio compagno del tempo, Santi Caleca, persona di grande raffinatezza di visione e pensiero diventato un grande fotografo di design e architettura, che cercava di spiegarmi invano la tecnica. Allora non c’era ancora la passione per la fotografia in me, ma la sopravvivenza. Mi ero imposta di guadagnare 30mila lire al giorno, 900mila lire al mese, e riuscii ad arrivare a questo traguardo da free-lance. Con Santi iniziammo a lavorare insieme per un periodo a Le Ore, quando era agli inizi e ci chiedevano di realizzare foto seducenti. 

Ma tutto cambia con il ritorno a Palermo… 

Quando arrivai qui, nel 1974, ero orgogliosa di lavorare per un quotidiano che aveva fama di giornale eroico. Ero anche molto preoccupata perché non avevamo – tornammo da Milano insieme – alcuna esperienza di cronaca. Vivevi con la radio di casa sintonizzata sulle frequenze della polizia, sempre pronta a correre verso il luogo dell’omicidio, in quel tragitto in vespa cosa accadeva dentro di te? Avevo voglia di fuggire e tornare indietro, mentre nello stesso tempo sentivo e sapevo che dovevo esserci. Guai a non esserci! Ero immersa nel dovere del documentare ed essere presente per informare e informare senza sosta. Mi prendeva forte un senso di nausea per quello che sapevo avrei incontrato: l’immobilità e il silenzio di un corpo steso e sovrastato dal clamore degli altri con i loro suoni rumorosi e soverchianti sul silenzio assoluto di quel corpo che giaceva immobile, ferito a morte. Ancora oggi non riesco a dimenticare l’odore portato dal vento di un corpo trovato in campagna sotto un albero dopo tanti giorni dall’assassinio, la visione delle formiche che camminano su quel volto e lui che non le può togliere più. Fare questo lavoro non è solo mostrare oggi le foto migliori, ci sono stati momenti importantissimi in cui non ho scattato, di cui non ho buone foto, eppure rimangono momenti il cui ricordo mi sovrasta con immenso dolore. Lavorare per un quotidiano in una città come Palermo e documentare quei drammi tutti i giorni era un’esperienza che non  lasciava sereni, tutta la mia esistenza ne era coinvolta. Si può cercare di continuare ad essere “normale”, ma hai queste ferite che si accumulano una dentro l’altra perché sei stata parte di questa straziante realtà.  

In quei momenti come vivevi l’attimo che precedeva il fotografare? 

Si affastellavano tanti sentimenti. Come fotografa pensavo d’istinto se la macchina avesse l’apertura di diaframma giusta per quell’ora e quella luce, il tagliente sole del mezzogiorno che distruggeva la ripresa, oppure il buio nell’oscurità della campagna. Non usavo il flash, e neanche l’esposimetro a mano, non sono mai stata tecnica. Dovevo cercare di superare e non farmi coinvolgere dal dolore di una madre che singhiozza per la morte del proprio figlio e far percepire ai parenti delle vittime che in quel momento possono sentirsi sopraffatti dal mio obiettivo, che non è così, che tu sei lì perché li rispetti e che esiste il dovere di fotografare innanzitutto. 

Quali difficoltà hai incontrato lavorando?

Alcune foto che vedi ben composte, come il triplice omicidio, sono riuscita a farle soltanto perché mi sono messa a gridare, fino a che poliziotti, curiosi, medici della scientifica non sono usciti dalla stanza e mi hanno permesso di fotografare. Avevo la mia credibilità, imposta con la serietà che mettevo nel lavoro, stando sempre attenta che le foto pubblicate fossero immagini rispettose, lontane da quel clamore che spesso fa parte anche della cronaca. Boris Giuliano, il meraviglioso capo della Squadra Mobile di Palermo, quando arrivavamo ci accoglieva con un sorriso e mi aiutava, mi faceva spazio e diceva con voce e gesti svelti: “Passa Letizia”. È stato ammazzato mentre faceva colazione al bar, il suo corpo riverso sembrava piccolissimo vicino alla cassa, privo della grandezza e bellezza di uomo fiero e onesto che lo animava. Nessuno l’ha fotografato, la mafia ne avrebbe goduto, questo ci dissero i poliziotti in quel momento. 

La mattina dell’omicidio del presidente della Regione Siciliana, Pier Santi Mattarella, come la ricordi?

Per caso con Franco Zecchin, compagno di vita per tutti i diciott’anni all’Ora, tornavamo da una mattina di serenità e svago a Villa Sperlinga. Percorrevamo via Libertà sulla via del ritorno e ci avviciniamo per dare aiuto a quello che sembra solo un incidente d’auto. I killer erano appena scappati. Basiti, riconosciamo Mattarella e con la nostra macchina fotografica ci inseriamo in questo dolore tra le urla e il pianto di madre e figlia, lo sgomento del fratello diventato oggi il nostro presidente della Repubblica. 

Cosa esprime e racchiude per te una buona fotografia? 

Credo che dentro una foto ci siano pure i baci che hai dato e che ti hanno dato.  Quando si fotografa c’è la vita che hai vissuto, tutto è dentro una foto quando è ben riuscita. 

Che cosa anima la tua selezione? 

Il rigore della composizione. Cambia anche il modo di affrontarla nel corso degli anni, posso dire che per un certo periodo sceglievo certe foto e oggi ne vedo altre che avevo scartato e mi appaiono sicuramente migliori. 

Le tue prime mostre erano degli happening itineranti per le strade e le piazze dei piccoli comuni Siciliani…

Sì alle origini, portavamo le mostre per le strade della Sicilia, appiccicavamo le foto su pannelli di legno e scendevamo di corsa per le strade. A Corleone una volta abbiamo avuto paura, ma valeva la pena rischiare e vedere come la gente davanti a queste foto si raccogliesse, commentasse e soffrisse. Era importante portare la gente a vedere i fatti tutti insieme.  

Hai appena inaugurato una mostra al Palazzo della Ragione di Bergamo un’ antologica che è una sintesi di tutto il tuo percorso. Che cosa significa per te?

Oggi le mie esposizioni sono composte dalla cronaca ma non solo. Continuo a cercare la bellezza che mi spinge ad andare avanti. Non posso e non devo nutrirmi solo delle mie foto del passato. Accosto infatti i ritratti delle bambine, le pre-adolescenti che ho sempre cercato con l’ obiettivo, i corpi nudi delle donne che compongono le rielaborazioni come simbolo di vita e speranza oltre la morte e Gli Invincibili. I puristi, specialmente i critici e fotografi più severi, non approvano le serie cui mi sono dedicata negli ultimi anni. Vorrei poter dire che ciò che mi ha spinto a realizzare le rielaborazioni è frutto di un grande dolore che non sapevo come esprimere. Accetto le critiche, ma sono stata mossa da un’urgenza, dovevo tirarmi fuori dalle immagini di morte che hanno segnato il mio lavoro e la mia esistenza. Oggi sono contenta di poter vedere esposti anche i miei maestri che compongono la serie Gli Invincibili, immagini dedicate a coloro che non hanno saputo mai quanto per me fossero stati importanti e mai avrebbero potuto saperlo, come Joyce, Che Guevara, Rosa Parks, Pina Bausch… Cosa c’entra con la fotografia mi si chiede? Niente e tutto, rispondo. Me li tengo stretti stretti questi miei amori di questa vita, come la poesia di Ezra Pound… Strappa da te la vanità, ti dico strappala… (ne recita a memoria i versi, con un tono dolente e sincero).

Perché sei rimasta a vivere a Palermo dopo tanto dolore? 

Continuo a sperarci perché vedo le scintille tra i giovani che non vogliono accettare il compromesso ed io ci spero sempre.

 

Questa intervista è stata pubblicata su Reportage n.22 (aprile-giugno 2015). La riprendiamo in data odierna per ricordare Letizia Battaglia, straordinaria donna e fotografa, scomparsa la notte scorsa.

 

Omicidio a Palermo, 1988/Letizia Battaglia

Omicio a Palermo, 1988: Letizia Battaglia

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