Intervista a Dacia Maraini | di Maria Camilla Brunetti

La scrittrice Dacia Maraini racconta la sua militanza femminista, ma anche la sua infanzia, i suoi genitori, Moravia e Pasolini: “Nel dopoguerra, tornati dal Giappone, eravamo poverissimi. La sola cosa che non mancava erano i libri. Leggevo tantissimo e ho cominciato a scrivere a 13 anni”. La morte di Pier Paolo.

 

Nata a Firenze nel 1936, figlia dell’etnologo Fosco Maraini e di Topazia Alliata, pittrice appartenente alla nobile famiglia siciliana degli Alliata di Salaparuta, Dacia Maraini è un’intellettuale che non ha bisogno di presentazioni. Scrittrice, poetessa e drammaturga con uno sguardo di rara profondità sul contemporaneo e sul lascito della Storia nel presente, è autrice di romanzi, saggi, articoli giornalistici e testi per il teatro che da decenni arricchiscono il dibattito pubblico italiano. È una delle scrittrici italiane più amate, tradotte e lette all’estero. Attenta interprete delle battaglie della stagione del femminismo storico, instancabile viaggiatrice, donna vicina a molti dei più importanti intellettuali del Novecento italiano, Dacia Maraini ha dato vita nei suoi lavori a personaggi indimenticabili della letteratura italiana e ha saputo raccontare e leggere il nostro Paese come pochi altri. In questa lunga conversazione ci ha parlato della sua famiglia e della sua vita, del suo amore per la scrittura e per il viaggio, delle figure che hanno plasmato la sua visione.

Dacia, vorrei partire dalla storia della sua famiglia di origine, che è molto complessa perché racchiude in sé eredità culturali, politiche, linguistiche e geografiche distanti tra loro. Ci può parlare di entrambi i rami, paterno e materno? Quali genitori hanno avuto e che genitori sono stati Fosco Maraini e Topazia Alliata?

La sua è una domanda che avrebbe bisogno di una ventina di pagine per rispondere. Cercherò di essere sintetica. Da parte di mio padre è chiara una tradizione narrativa. La mia bisnonna, Cornelia Berkeley, scriveva libri per bambini. Mia nonna, Yoi Cornelia Crosse Pawlowska scriveva libri di viaggio, mio padre ha sempre scritto. Il nonno paterno, Antonio Maraini, faceva lo scultore, viveva a Firenze dove è nato mio padre e dove sono nata anch’io. Si tratta di una famiglia di artisti e grandi viaggiatori, con una passione per la scrittura. Per quanto riguarda mia madre, si tratta di una famiglia aristocratica siciliana. Mio nonno, Enrico Alliata, ha sposato una cilena, Sonia Ortuzar, figlia dell’ambasciatore cileno a Londra. Sonia aveva una voce da soprano e studiava canto alla Scala di Milano, dove ha conosciuto mio nonno Enrico che studiava canto anche lui. Mia nonna, come tante donne della sua epoca, non aveva fatto studi regolari. Ma conosceva la musica e per tutta la vita ha rimpianto il palcoscenico dove avrebbe voluto esibirsi, ma le era stato proibito da una famiglia tradizionale. Mio nonno Enrico invece era un uomo coltissimo. La sua visione del mondo era tolstoiana. Stava dalla parte dei contadini e scriveva libri di filosofia e libri di cucina vegetariana. Mio padre, Fosco, appena laureato, ha vinto una borsa di studio ed è partito per il Giappone con la famiglia, cioè mia madre ed io che ero appena nata.

In che modo, questo milieu familiare cosmopolita ha determinato la sua educazione e la sua visione del mondo e fino a che punto contano, a sua avviso, le influenze e le esperienze familiari nella formazione di un carattere e di un “destino”?

Certo le caratteristiche di una famiglia contano nella formazione di una ragazza, ma non sono determinanti. Conta poi la voglia di studiare, di leggere, di viaggiare per conoscere il mondo, contano le amicizie, gli amori, le esperienze adolescenziali.

Come è entrata la scrittura nella sua vita? Quando ha compreso che sarebbero state le parole, le storie, ad accompagnarla nel suo percorso umano e professionale?

A casa mia mancava tutto, perché nel dopoguerra, tornando dal Giappone, siamo stati poverissimi. La sola cosa che non mancava erano i libri. E io ho cominciato prestissimo a leggere, attingendo ai classici che trovavo in casa. Ho cominciato a scrivere e a pubblicare sul giornale della scuola Garibaldi, a Palermo, a 13 anni. E poi non ho mai smesso.

Da adulta, suo padre Fosco le consegnò i diari che sua madre teneva al tempo del vostro trasferimento in Giappone nel 1938. Lei aveva due anni al tempo di quel viaggio e in Giappone nacquero poi le sue due sorelle minori. Dal 1943 al 1945 la vostra famiglia fu internata nel campo di prigionia di Nagoya perché i suoi genitori, fermi antifascisti, si rifiutarono di aderire alla Repubblica sociale italiana. Parte di quei diari materni, intrecciati ai suoi ricordi personali, sono raccolti in La nave per Kobe. In che modo l’esperienza degli anni giapponesi e poi della prigionia ha influito sulla donna che sarebbe diventata? Come rivive in lei l’esempio dei suoi genitori giovani, innamorati e così coraggiosi?

Anche per questa domanda ci vorrebbe tanto spazio e tanto tempo per rispondere. Comunque, certo l’esperienza del campo mi ha lasciato molte cicatrici. Ancora adesso sogno di scappare al fischio delle bombe e di torcermi nel letto per la fame, aggredita dai parassiti. Ho imparato a sopravvivere, a trovare coraggio in situazioni pericolose, ad adattarmi in ogni occasione difficile.

(…)

Ph. Dacia Maraini e Alberto Moravia nella casa dello scrittore a Sabaudia nel 1977 (foto di Mimmo Frassineti /Agf).

 

L’intervista completa è pubblicata su Reportage numero 51 (luglio-settembre 2022), acquistabile in libreria e direttamente sul nostro sito, in versione cartacea e digitale.

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