Intervista a Paola Caridi | Un autore un libro | di Maria Camilla Brunetti

Intervista a Paola Caridi | Un autore un libro | di Maria Camilla Brunetti

Se le pietre, le case, le strade di Gerusalemme potessero parlare avremmo un punto di vista straordinario per raccontare la città e la sua memoria. Se Beit Dajani potesse parlare, per esempio, quale storia narrerebbe?

Racconterebbe di uomini, donne e alberi. Racconterebbe la storia sociale di una casa, dal momento in cui è stata costruita – oltre un secolo fa – sino a oggi. Mettere al centro del racconto una casa è uno dei modi per spiegare ai lettori che la Storia con la ‘s’ maiuscola non è un astratto oggetto di studio, ma travolge le esistenze quotidiane di persone con nome e cognome. Sugli abitanti di quella casa, a Beit Dajani, sono passati conflitti, bombardamenti, espulsioni, espropri, cambi di fronte, confini.

Sarah e Samira, le due giovani donne delle quali racconti nel libro, rappresentano reciprocamente “l’altro” nel quale finiamo per riconoscersi come in uno specchio. È la paura di questa somiglianza, di questo riconoscersi in fondo così simili, che spaventa di più nell’idea di ascoltare chi pensiamo sia diverso da noi? È da questa paura di riconoscersi uguali che nasce il rifiuto di ciò che si ritiene diverso?

È possibile che si abbia paura di vedere se stesse nell’altra. A Gerusalemme, però, il problema si pone ben prima che si possa persino immaginare di vedersi riflesse in uno specchio. Il nodo di fondo è accettare che l’altra (l’altra comunità) abbia lo stesso intimo legame con la terra in cui israeliani e palestinesi vivono, si scontrano, coesistono in modo asimmetrico. Il riconoscimento reciproco come abitanti della stessa terra è l’ostacolo più importante. Vedere se stessi nell’altro, come in uno specchio, è solo il passo successivo.

Nel libro racconti una storia bellissima, quella di un vero “incontro”, la storia dell’amicizia e della colla- borazione tra Daniel Bar-On e Sami Adwan. Puoi parlarcene?

Quell’incontro nasce, appunto, da ciò che dicevo riguardo al riconoscimento reciproco. L’israeliano Daniel Bar-On e il palestinese Sami Adwan riconoscevano a entrambi il legame con la stessa terra. Su questo legame comune è nata un’amicizia salda, che neanche la morte di Dan Bar-On per un tumore nel 2008 ha interrotto. Assieme avevano costruito un progetto tanto bello quanto difficile da far accettare. Avevano scritto un manuale senza avere l’ambizione di elaborare una storia condivisa, una sola versione del conflitto. Avevano invece deciso di mettere in pagina due storie parallele, l’israeliana e la palestinese, e di lasciare nel mezzo uno spazio bianco. Quello spazio bianco l’ho sempre pensato come il luogo della conoscenza e della riflessione. È il vero obiettivo al quale ambire a Gerusalemme.

Hai vissuto a lungo a Gerusalemme e – con il tuo lavoro di giornalista e scrittrice – l’hai raccontato in modo approfondito. Ho sempre in mente, tra le altre pubblicazioni, il tuo Gerusalemme senza Dio (Feltrinelli). Qual è la lezione che un luogo complesso come Gerusalemme ti ha insegnato? In che modo, se è successo, il tuo “incontro” con la città ha cambiato il tuo sguardo?

Gerusalemme ha cambiato la mia vita. Lo dico senza alcun tentennamento. Il mio sguardo è diverso, dopo dieci anni vissuti in una città fin troppo raccontata, ma di cui non si conosce la geografia, intima e storica. Nessun afflato mistico, però. È stata la Gerusalemme quotidiana, prosaica, la Gerusalemme dei suoi abitanti a cambiarmi nel profondo. Mi ha insegnato a essere più netta, se si vuole più chirurgica nell’analisi. È, in fondo, una città spartana e senza orpelli, in cui è più facile distinguere i colori, i gesti, le storie.

 

 

Questa intervista è pubblicata su Reportage numero 41, all’interno della rubrica “Un autore un libro” a cura di Maria Camilla Brunetti. Reportage n° 41 è acquistabile in libreria e qui in versione cartacea e in digitale

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