Intervista a Martina Bacigalupo | di Maria Camilla Brunetti

Martina Bacigalupo, fotografa e photoeditor di “6Mois” e “XXI”, racconta il suo percorso professionale e parla delle difficoltà in cui si trovano oggi le riviste di approfondimento: “Molto si sta spostando sull’online, ma io credo che l‘online sia pericoloso, soprattutto dopo l’avvento dell’Intelligenza artificiale”.

 

Nata a Genova nel 1978, Martina Bacigalupo, dopo studi di letteratura e filosofia in Italia, studia fotografia al London College of Communication. Nel 2007 si trasferisce in Burundi per lavorare come fotografa della Missione di mantenimento di pace delle Nazioni Unite. In seguito lavora come freelance per diverse organizzazioni umanitarie internazionali e i suoi lavori vengono regolarmente pubblicati sulla stampa nazionale ed estera. Rimane in Africa orientale per più di dieci anni. Con il suo progetto My name is Filda Adoch vince nel 2010 il Canon fe- male photojournalist grant. Un altro suo lavoro, Gulu real art studio viene esposto in molti festival internazionali di fotografia tra i quali il Walther collection project space a New York nel 2013, Paris Photo 2014, Unseen Fair ad Amsterdam 2014, Rencontres d’Arles 2014 e nell’edizione del 2022 di Cortona on The Move. Rientrata a Parigi nel 2017, al suo lavoro di fotografa affianca quello di photo editor per “6Mois” e “XXI”, due riviste francesi dedicate rispettivamente alla fotografia documentaria e ai diversi linguaggi del giornalismo narrativo e del reportage ed entrambe con un approccio giornalistico che privilegia la lunga durata e garantisce ampio spazio in pagina a lavori fotografici e testuali. Le abbiamo chiesto di parlarci del suo lavoro, della sua visione di fotografia e delle sfide che si trova ad affrontare l’editoria cartacea di approfondimento nel mercato contemporaneo.

Martina, che ruolo ha avuto, per quanto riguarda il tuo sguardo fotografico, il lungo periodo in cui hai vissuto in Africa e come ha influenzato la tua riflessione sulla fotografia, sulla rappresentazione dell’altro, in territori geografici spesso raccontati in maniera univoca e stereotipata nella stampa occidentale main- stream?

Questi anni sono stati per me una rivoluzione. Durante i workshop che tengo a Parigi dico sempre agli studenti che è fondamentale per noi fotografi essere consapevoli della nostra posizione rispetto al soggetto che trattiamo e al luogo in cui lavoriamo. È anche importante sapere quale sia la nostra posizione rispetto alla storia della fotografia in quel determinato contesto. Per esempio, per quanto mi riguarda, io ero una fotografa bianca occidentale che lavorava in Burundi, un piccolo Paese dell’Africa orientale. Ho iniziato a interrogarmi su quale fosse la relazione tra la fotografia e quella regione e, più generalmente, il continente africano, e come mi inserivo io in quella dinamica. Oggi la nostra posizione rispetto ai nostri soggetti è un tema fondamentale del dibattito fotografico internazionale, ma quindici anni fa non era così, era dunque per me una riflessione che avveniva a livello personale. Quando mi sono trovata, nel 2007, a lavorare in un Paese con dodici anni di guerra civile alle spalle, entravo in un luogo ferito con una storia complessa. Dovevo dunque conoscere quella storia e capire quali fossero state le responsabilità occidentali a riguardo. Era una consapevolezza fondamentale per la rappresentazione che ne sarebbe seguita e di cui io, in quanto fotografa, ero responsabile. Ti racconto un aneddoto che è abbastanza esplicativo: una delle prime storie che ho raccontato era quella di una donna che aveva perso le braccia durante il conflitto. Questa storia era stata pubblicata in Italia e il giornalista che se ne era occupato aveva usato nell’articolo parole come “conflitti tribali”, “violenza”, “barbarie”… All’inizio ero sbalordita perché questi termini rimandavano a degli stereotipi occidentali sull’Africa che erano lontanissimi dalla storia che avevo voluto raccontare, ossia la relazione di una donna vittima di guerra – priva di braccia – con la sua bambina. Ma poi mi sono resa conto che, a prescindere dalle mie intenzioni, ero io ad avere scelto di fotografare una donna africana, senza braccia, in bianco e nero e che questo rimandava ovviamente a una certa immagine dell’Africa: di “violenza” appunto e “barbarie”. Anche se del tutto inconsciamente (quello che Walter Benjamin chiama optical unconscious) ero condizionata da un certo tipo di immagini del continente africano a cui ero stata esposta crescendo e che riproducevo. Diveniva sempre più chiaro come questo substrato di immagini dall’Africa influenzavano, inconsciamente appunto, non solo il mio modo di fotografare ma anche e, in primo luogo, quello che vedevo e la mia capacità di vedere. Solo vivere sul posto per anni mi ha aperto gli occhi su questi condizionamenti inconsci. Ossia che fotograficamente stavo mostrando solo un piccolo angolo della realtà, tutto il resto – che era poi la materia dei miei giorni e di quelli delle persone che mi stavano accanto cioè il quotidiano, il divertimento, i momenti di dolcezza, di leggerezza, tutto quello che in qualche modo non è scoop – non c’era.

Per questo credo sia fondamentale stare in un luogo a lungo. Perché permette di essere più consapevoli e di decidere cosa mostrare e come farlo. Se si viene “catapultati” per un tempo brevissimo in un determinato contesto, come avviene nella stampa mainstream, quello che poi un giornalista o un fotografo riporta saranno, inevitabilmente, stereotipi. Sono contenta che almeno, ultimamente, si stia dando spazio a modi altri di vedere e di lavorare, a sguardi che provano a raccontare dall’interno un determinato contesto. L’Africa ha rivoluzionato il mio modo di vedere, mi ha portato a dirmi che forse il mio linguaggio, che era quello fotogiornalistico occidentale classico, aveva dei limiti – non fosse altro perché è solo uno tra i tanti modi di vedere – e mi ha insegnato a mettere in discussione il linguaggio che avevo scelto per raccontare il mondo. Mi sono detta che forse esisteva una possibilità per lasciare davvero più spazio all’altro e che era possibile raccontarlo dandogli voce. In quest’ottica è nato il lavoro su Filda Adoch. (…)

 

Ph. Martina Bacigalupo, fotografa e photo editor.

 

L’intervista completa è pubblicata su Reportage numero 55 (luglio-settembre 2023), acquistabile qui in formato cartaceo e in digitale.

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