Guai a confondere le canzoni con la poesia | di Valerio Magrelli

Didascalie, la rubrica di Valerio Magrelli per il sito di Il Reportage, che si affianca a quella da lui tenuta sul trimestrale cartaceo.

 

La storia è vecchia. L’allarme, o almeno quello che io considero tale, venne lanciato, trent’anni fa da Lorenzo Renzi, in un saggio uscito dal Mulino con il titolo Come leggere la poesia. L’autore partiva appunto dalla constatazione di un’impellente, inconsapevole e inarticolata richiesta di poesia. Contestando il parere di due illustri studiosi quali Giovanni Pozzi e Cesare Cases, persuasi che le ultime generazioni non nutrissero più interesse per la scrittura in versi, Renzi affermò: “Quando si dice che i giovani non hanno fame di poesia, si vuol dire invece: non hanno fame della poesia che intendiamo noi”, e ancora: “Il bisogno di poesia è un costituente essenziale dell’uomo, che si soddisfa in momenti diversi in modi diversi […] La sensibilità al poetico, la funzione poetica, è preesistente. Ma il ragazzo l’ha esercitata su altri oggetti più facili, più disponibili”.

Secondo Renzi, in realtà gli studenti soddisfano ampiamente la loro esigenza di poesia, soltanto che, per farlo, ricorrono alla musica leggera piuttosto che ai materiali alti offerti dalla scuola. Ammiratore di molti cantautori italiani, e convinto che la poesia scolastica fosse rimasta inevitabilmente tagliata fuori dalla possibilità di un’esperienza vissuta, Renzi invocava allora la necessità di una mediazione tra antico e nuovo, tradizione e consumo.

Passano pochi anni, e in un libro uscito sempre dal Mulino, Sulla poesia moderna, Guido Mazzoni riprende e amplia quelle tesi. A suo avviso, la progressiva scomparsa non della poesia, bensì della sua presa sulla società, è un fenomeno consustanziale alla letteratura moderna, necessario e inevitabile. In Italia emerge all’inizio del Novecento (“Gli uomini non domandano più nulla dai poeti”, scrive Palazzeschi, e Gozzano: “Io mi vergogno, sì, mi vergogno di essere un poeta”) e si aggrava nel corso degli anni Settanta, quando il prestigio che circondava la letteratura e i libri pubblicati viene meno nell’epoca della scolarizzazione di massa e della presa di parola collettiva attraverso i social.

In un’intervista del 2018 su Internopoesia leggiamo infatti: “La poesia come istituzione, come forma della cultura, ha perso il proprio mandato sociale. È l’arte più praticata e la meno letta: molti hanno provato a scrivere poesie una volta nella vita, pochissimi leggono poesie altrui o sanno distinguere fra bosco e sottobosco, fra autori riconosciuti e puri dilettanti; le persone colte sentono ancora il bisogno di interessarsi ai film, ai romanzi o alle mostre di cui si parla, ma non sanno nulla di poesia contemporanea e non percepiscono questa ignoranza come un problema”.

La mia lunga, ma necessaria premessa, porta a una semplicissima segnalazione. Forse il discorso apparirà sbilanciato, dando l’impressione che la montagna abbia finito per partorire un topolino. Magari è davvero così, ma che topolino… Infatti, come mi ha segnalato un poeta e amico, Elio Pecora, pare che la giornata consacrata alla fiducia per il nuovo primo ministro, Mario Draghi, abbia visto due o tre parlamentari concludere le loro orazioni citando altrettanti cantautori. Ci siamo, mi sono detto: Renzi (quello buono) e Mazzoni avevano visto giusto. Il mandato sociale della poesia è definitivamente tramontato, spegnendosi nella seriosità con cui i nostri politici ritengono ormai normale ricorrere a una canzone dove un tempo si evocavano versi.

Peggio della tragedia, c’è soltanto il ridicolo. E dico questo, non per la pretesa superiorità di un’arte rispetto all’altra, ma perché nella canzone d’autore le parole sono strutturalmente legate, anzi strumentalmente legate (quando non addirittura subordinate) alla musica. La poesia, invece, punta tutto e solo sulla parola: viene da qui la sua particolarità assoluta. Dunque, citare una canzone a fini oratori, significa cercare qualcosa in un posto sbagliato. Volete ascoltare la fusione tra linguaggio e musica? Chiedete alla canzone. Volete conoscere la forza del linguaggio? Rivolgetevi alla poesia. Baste tenere distinte le due cose, pena, appunto, il ridicolo.

 

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