Il buon fotogiornalismo deve far nascere delle domande in noi | Intervista a Jan Grarup

Di Claudia Cavaliere

 

Secondo il fotografo di guerra Jan Grarup, che per anni è stato in cura per un disturbo post-traumatico da stress, “l’indifferenza oggi è una malattia di massa: il più grande problema del mondo di oggi è l’ignoranza, il fatto che alle persone non importi”. Come lo ha cambiato l’esperienza in Ruanda…

 

Nato nel 1968, Jan Grarup è un fotografo di guerra danese. Ha raccontato, tra l’altro, la Guerra del Golfo, il genocidio del Ruanda, il Darfur, il Kosovo, sempre dal punto di vista delle persone. Le sue fotografie sono la memoria, l’eredità della storia che stiamo consegnando alle nuove generazioni, nella speranza che nessuno degli eventi documentati possa più essere permesso e accadere di nuovo.

Che cos’è per te la fotografia?

Credo che sia la fascinazione che provo all’idea di poter fermare il tempo in quella immagine, la capacità di catturare il secondo, di incastrare un momento della storia in una fotografia. Quando ne scatti una, lei dura nel tempo, viene fuori come un documento della realtà che stai vivendo. Se vai indietro nel tempo, nella storia, ti ritrovi nelle pagine del lavoro di Eugene Smith, o Henri Cartier-Bresson, o Josef Koudelka, i quali hanno catturato l’essenza del tempo in cui hanno scattato la fotografia. E questa per me è la sua forza, la sua eredità, è quella singola frazione di un momento che fa tutta la differenza.

Sei tu che hai scelto la fotografia o è qualcosa che ti è semplicemente capitato?

Penso che tutti i fotografi a un certo punto della loro carriera inizino a pensare a questa cosa. Penso sia molto naturale per noi trasmettere questo sentimento, il senso del tempo rispetto a ciò che stiamo facendo o abbiamo fatto fino a quel momento. Noi abbiamo un termine di paragone, che è il momento in cui premiamo il bottone per scattare la fotografia. Il momento decisivo è la cosa importante, ma ci sono anche gli aspetti tecnici dello scattare un’immagine. Io, quando guardo i lavori di Eugene Smith o Sebastiao Salgado, non penso mai al loro lavoro da un punto di vista tecnico, a come hanno scattato la foto, ma lo faccio sempre seguendo le emozioni che mi hanno trasmesso. Loro sono da sempre la mia ispirazione e mi hanno sempre portato in un altro contesto rispetto a quello in cui mi trovavo. È così che ho imparato da loro: per la bellezza delle cose che mi facevano vedere, per la loro capacità di raccontare, per la crudeltà, per i conflitti armati che seguivano. Ecco, loro sono sempre capaci di portarmi proprio lì dove si svolge l’azione. (…)

 

ph. Un’immagine del terremoto di Haiti nel 2010.

 

L’intervista completa è pubblicata su Reportage numero 43, acquistabile qui in versione cartacea e in digitale.

 

About author