Suicidio, seconda causa di morte tra i 15-29enni | Testo e foto di Andrea Di Biagio

In Italia si verificano dieci casi al giorno. Ma come vivono i “survivor”, i parenti di coloro che si sono tolti la vita? Le storie di Siaga, Giovanna, Evelina, Anna, Rina e Andrea. Il ruolo del Servizio di prevenzione del suicidio (Sps), che presta assistenza psicologica dal 2008.

 

Nel corso di una vita trascorsa a studiare psicologia negli Stati Uniti, Edwin S. Shneidman ha concluso che l’ingrediente base del suicidio è il dolore mentale; egli chiama questo dolore insopportabile psychache, che significa “tormento nella psiche”. Shneidman è considerato il padre della suicidologia, la scienza dedicata allo studio e alla prevenzione del suicidio. Autore di numerosi libri – tra cui il celebre “Autopsia di una mente suicida” – afferma: “Attualmente, nel mondo occidentale, il suicidio è un atto conscio di auto-annientamento, meglio definibile come uno stato di malessere generalizzato in un individuo bisognoso che, alle prese con un problema, considera il suicidio come la migliore soluzione”.

Il fenomeno del suicidio è in forte aumento: da un rapporto dell’Oms emerge che nel mondo ogni 40 secondi una persona si toglie la vita, il che significa – ogni anno – all’incirca 800mila uomini e donne, quasi il doppio delle vittime di malaria e omicidi. Ma il dato che preoccupa è sicuramente quello relativo alla fascia di età: tra i giovani dai 15 ai 29 anni, il suicidio resta la seconda principale causa di morte, in Italia ne avvengono oltre dieci in un solo giorno. Spesso si attribuisce la responsabilità di un suicidio alla depressione, in realtà non è così. I fattori di rischio che possono determinare un gesto simile sono diversi: difficoltà economiche, gravi malattie, isolamento sociale, detenzione, abusi, solo per citarne alcuni.

Shneidman ricorda poi che dove c’è un suicidio c’è  un survivor, anzi, per ogni suicidio ci sono più o meno tra i sei e i dieci survivor, che hanno sperimentato un evento traumatico di enorme portata. I survivor sono coloro che hanno perso una persona cara, un parente o un amico a causa di un gesto suicida e, per questo motivo, sono candidati a uno stress che avrà pesanti conseguenze sul loro “funzionamento” individuale, relazionale, sociale e lavorativo. È per questo che ho dedicato il mio progetto fotografico a loro, ai sopravvissuti. Alle madri, alle sorelle e ai figli dei suicidi.  (…)

 

 

ph. Mi chiamo Siaga, ho 36 anni e vivo a Roma. Il 15 aprile del 2019 sono tornata a casa dal lavoro e ho trovato mia sorella maggiore, Marta, impiccata al letto della mia stanza. Aveva 40 anni. La mia vita si è bloccata quel giorno di primavera alle 17 e 30 circa. Marta e io abitavamo insieme da circa sei anni in un quartiere popolare di Roma e abbiamo vissuto visceralmente tutto, nel bene e nel male, fino all’ultimo giorno del nostro cammino terreno insieme. Era la persona più importante della mia vita. Quello che però non ho condiviso con Marta fino in fondo era il suo profondo dolore. Lo chiamano mal di vivere. Marta non era depressa: era troppo sensibile per continuare ad abitare il suo corpo, che spesso la portava ad esplorare gli abissi della sua psiche e della sua sofferenza. Pronta era la targhetta scritta da lei per farmi capire che aveva preparato la moka la sera o la notte precedente (molto spesso era insonne). Quel cartoncino è molto vecchio, ma ci piaceva così. Non siamo mai state molto tecnologiche. Nonostante il dolore straziante, la mancanza quotidiana, mi sento privilegiata per aver vissuto con lei gli anni più felici della mia vita. E quelli che mi restano si nutriranno sempre dei nostri giorni più folli e spensierati. Marta mi ha insegnato l’Amore in tutte le sue forme. E questo è il suo dono più grande. La incontrerò di nuovo.

 

 

Il servizio completo è pubblicato su Reportage numero 42, acquistabile in versione cartacea e in digitale.

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