E in Sudafrica è nata la bidonville per ricchi – di Daniele Bellocchio

 

Favela, slum, villa miseria, bidonville, township, shanty town. I nomi cambiano da continente a continente, la realtà no, quella rimane immutata, statuaria e ontologica come la miseria che popola questi luoghi. La moltitudine di sostantivi con cui vengono descritte le baraccopoli è la fotografia lessicale della povertà, della promiscuità e dell’indigenza. In portoghese favela significa alveare, villa miseria si traduce in ”città della miseria”, mentre la bidonville è ”la città della spazzatura’‘. Ma la realtà nasconde un paradosso, crudele, feroce. Animati da un voyeurismo impietoso, da una cinica curiosità, una moltitudine di ricchi turisti vuole provare il brivido della povertà, trasformando il loro viaggio in un safari della disgrazia e ricercare nella povertà altrui un proprio, l’ennesimo, parco giochi.

Mentre in Perù, in Brasile e a Mumbai esistono tour operator che accompagnano i turisti in visite guidate nelle bidonville (l’agenzia devolve una quota dei ricavi agli abitanti), un hotel di lusso in Sudafrica offre ai suoi clienti la possibilità di dormire in un finto slum per il gusto di giocare ad essere poveri. Il prezzo è di 82 dollari per notte. ”Potete finalmente vivere l’esperienza unica di vivere in una baracca nel contesto sicuro ed esclusivo di una riserva privata” , è questo il motto del Luxury Emoya Hotel Spa a Bloemfontein, dove è stata realizzata la ”bidonville”, che può accogliere fino a 52 ospiti a notte: una riserva naturale all’interno della quale sono state costruite baracche in lamiera, pubblicizzata da foto di coppiette di novelli sposi in luna di miele e da un video promozionale che ritrae una famiglia con tanto di bambini che passeggiano candidamente nella ”shanty town più sicura al mondo”.

Osservando le gallery on line si vede come tutto sia stato ricreato imitando i luoghi comuni e gli stereotipi delle township: bidoni che di notte vengono illuminati per fare luce, lamiere colorate, sedie e tavoli ricostruiti con i copertoni, vecchi ghetto-bluster a fare da arredo e, a chi non si accontenta e vuole anche indossare i panni dei poveri, l’hotel offre anche l’opzione del bagno fuori dalla baracca. Ma, ovviamente, essendo tutto un gioco, non mancano i comfort come il wifi e l’acqua calda, perché ci troviamo pur sempre in un albergo di lusso. Poveri sì, ma con dei limiti. Nessuno si azzarderebbe a ricostruire una vera bidonville dove non c’è acqua corrente e neppure elettricità, dove le lamiere dei tetti rendono ardenti le baracche di cartone, i canali di scolo sono a cielo aperto, maiali, capre e galline, insieme a cani randagi e ratti, si contendono i rifiuti accumulati nei vicoli, gli accoltellamenti e le sparatorie sono la legge della disperazione.

L’incredulità ha mobilitato il popolo della rete che non ha risparmiato attacchi contro la struttura, accusata di insensibilità e strumentalizzazione di un dramma per il puro business. L’hotel ha replicato alle critiche sostenendo di aver trasformato qualcosa che aveva una connotazione negativa in qualcosa di positivo. Certo è che, nel frattempo, la realtà delle baraccopoli, quelle vere, non è certamente scomparsa in Sudafrica: vi abita la metà della popolazione delle aree urbane e i problemi non sono stati risolti con la creazione di una “riserva turistica” che ne imita gli stereotipi. Il fatto più inquietante è che il progetto della finta Shanty Town abbia preso il via in Sudafrica, il Paese di Mandela, della lotta contro l’apartheid. A quanto pare, la segregazione e il razzismo non sono scomparsi, ma hanno soltanto cambiato connotati: dalla discriminazione tra bianchi e neri a quella tra ricchi e poveri.

 

 

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