“Un fotoreporter deve sentire l’odore di ciò che gli sta intorno” – Intervista a Franco Pagetti

Su Reportage n.13 abbiamo pubblicato una versione ridotta di questa lunga intervista a Franco Pagetti fatta da Mauro Guglielminotti a Parigi a fine dicembre 2012, che riportiamo qui integralmente.

Iniziamo dai primi passi, come sono stati i tuoi inizi ?

Sono diventato fotografo per un caso fortuito, avevo una borsa di studio all’Università come chimico da 126000 lire al mese rinnovabile a discrezione del professore, ma una fotografa di architettura mi chiese di farle da assistente «tu mi devi solo portare le borse e abbattere gli ostacoli tra me e il mio fare la fotografia » In casa i miei non lo capivano, per mia madre la fotografia era al massimo la fotografia di matrimoni, di cresime, di funerali … E’ stato un caso, ma adesso  devo dire di essere contento , non rinnego quel che ho fatto.

Poi tu hai fatto il fotografo di moda e infine il fotoreporter, cosa significa per te fare reportage e essere giornalista?

Non mi sento  un grande teorico, a me piace fare la fotografia più che parlarne, una delle cause della crisi della fotografia adesso, se di crisi si puo’ parlare, è che se ne parla troppo e se ne fa poca, si lascia  troppo tempo alle tavole rotonde e poco alle campagne… comunque per me  fotografare vuol dire documentare; faccio sempre il paragone tra chi fa il nostro lavoro e i grandi reporter del rinascimento che documentavano per sentito dire: venivano informati sui grandi cambiamenti del mondo dai mercanti e dai viaggiatori e poi facevano splendide opere d’arte.  Quelli erano i nostri antesignani, poi sono cambiati i mezzi, gli spostamenti sono diventati più facili. Ora si continua  a raccontare quel che succede, ma in presa diretta. Si, fare il fotogiornalista per me è documentare. Sono contrario alle divisioni che ci sono; chiunque ha in mano una macchina fotografica documenta, anche un fotografo di moda  documenta, fa della storia del costume … non parliamo poi di quando mi si dice fotografo di guerra… sono simbologie hollywoodiane usate soprattutto in Italia, non hanno senso.

Come è cambiato il reportage nel tempo con le grandi agenzie e poi con l’avvento del digitale ? E poi, tu lavori per una importante agenzia fotografica  e per grandi giornali, hai mai subito pressioni ? hai sempre potuto lavorare in autonomia?

Le grandi agenzie hanno avuto influenza sulla commercializzazione, non nel fare la fotografia. Chi era mercenario lo era prima e lo è adesso. Il documentario è rimasto intato nell’etica, nel rispetto di chi e di cosa si fotografa. Personalmente cerco di essere il più estraneo possibile a cosa mi succede intorno, non voglio influenzare ideologicamente il fruitore della foto, dopodiché sta a lui prendere le sue azioni nei confronti di quello che vede. Uno dei vantaggi con la VII è che questi vantaggi ci sono, ma ci sono anche in tutte le altre agenzie che conosco.

Io personalmente per certi giornali non voglio lavorare, in agenzia prima di vendere una foto mi chiedono. Lavoro poco in Italia e più all’estero. Metto dei paletti ben chiari, tipo non cambiare le didascalie, cosa che peraltro all’estero è normale. Quello che voglio dire non deve essere trasfigurato. Un mese fa all’interno dell’agenzia c’è stato un grosso dibattito su certe aziende del mercato farmaceutico, io personalmente mi rifiuto di lavorare per certe aziende perché ritengo che sia ingiusto che la mano destra non sappia quello che fa la sinistra, perché se no è ipocrisia. Non mi sentirei bene con me stesso se parlassi con te di etica e correttezza del fotogiornalismo, oppure passassi due mesi con i contadini per documentare la crisi dell’agricoltura, e poi mi facessi pagare per un corporate della Monsanto. Non è molto economico ma non lo accetto.

E cosa è cambiato secondo te con l’avvento del digitale?

Quello che è cambiato tra analogico e digitale è l’aspetto romantico della fotografia  non c’è più il fotografo avventuroso alla Capa , oggi non ci sono  più quelle foto. Pero’ tra digitale e analogico in fondo non c’è differenza, ad una recente mostra a Parigi , quella sui paesaggi in Iraq dall’alto, mi hanno chiesto con quale macchina avessi fatto la foto, mi sono arrabbiato perché cosa c’entra il mezzo, è il sentimento in gioco, per me la cosa più importante nella foto è il sentimento, se non c’è il sentimento non c’è niente. Certo dal punto di vsta ideologico l’avvento del digitale è stato una selezione razzista, all’inizio a vantaggio solo di chi aveva i mezzi dei grandi giornali alle spalle … personalmente l’ho sperimentato i primi tempi in Iraq, avevo un telefono satellitare Thuraya che era proibito dal regime di Saddam perché forniva il gps, ero steso col braccio teso sul balcone  per cercare di trasmettere, erano file ancora piccolini all’epoca, ma mettevo otto minuti a spedirli. All’epoca ho avuto la fortuna di lavorare con fotografi come Alessandra Boulay, Natchweuy, Jerome Delay i quali mi prendevano in giro per questo modo di trasmettere  e con un’aria di compatimento mi spiegavano che c’era una tecnologia migliore, e mi hanno permesso di trasmettere con i loro mezzi. Il digitale comunque ha cambiato modo di fare giornalismo, quello di adesso è un giornalismo che brucia, non è un giornalismo d’inchiesta, se tu vedi, per giorni e giorni ci tempestavano su Gaza, adesso Gaza sembra che non sia più nemmeno sulla cartina geografica perché è finito il momento, adesso devono cercare altro , le feste di natale, continueranno a tediarci con l’economia che va male quando tutti tutti i giotrni lo capiamo che l’economia non va bene ma i responsabili sono i giornali come trasmettono le notizie, secondo me c’è una censura generale di sistema che non funziona. Impossibile che la crisi della Somalia venga documentata per due settimane e poi ? la carestia non c’è più ? la carestia dura per giorni, mesi, in alcuni paesi è endemica, ma i giornali, basta, non ne parlano più. Quando si parlava di Gaza non si parlava della Siria, e cosi via.. . e’ cambiato un po’ il modo non di lavorare, ma sono cambiati quelli che sono i fruitori , i giornali. Io spero che i fotografi non cambino mai, non vorrei fare troppo il romantico o il vecchio ma mi piacerebbe che i fotografi restassero un po’ i cavalieri senza macchia e senza paura

Visto che, anche se  la definizione non ti piace, sei « fotografo di guerra » e hai lavorato con tanti giornalisti  qual è la differenza con il giornalista della carta stampata? Qual è la tua posizione nei confronti del «vecchio narratore »? 

La premessa è che per essere un bravo fotografo serve una macchina fotografica, perché se Dio vuole la luce è sempre quella, che è fatta di ombre, di controluce, da quando esiste l’uomo è cosi e nessuno la cambierà mai e quindi il fotografo anche se con un mezzo tecnologico di  supporto diverso, per fare le foto, come giustamente diceva Capa,  deve andare molto vicino a quel che succede. Se non senti l’odore di quel che ti succede intorno vuol dire che sei distante e non lo puoi raccontare come dovresti. Il giornalista puo’ essere uno bravo, ha la sua bella penna o il suo computer, se è uno che scrive bene puo’ essere un bravo giornalista anche se non va sui luoghi… ho lavorato con giornalisti che si facevano raccontare e lo mettevano in bella scrittura, erano pezzi straordinari. Questo per me ci sta pure,  se uno è bravo faccia il suo lavoro. Quello che io non amo  anzi mi fa « buttare fuori di matto » è che questi si spaccino per i grandi inviati e raccontino in prima persona dando sfogo al loro ego del tipo « quando io ero in prima linea »,..io sono dell’idea che è più difficile fare delle foto belle in un posto banale che fare delle foto belle in un posto particolare c’è una foto di Cartier Bresson (le sue foto sono foto straordinarie di fatti banali) presa a Srinagar di tre donne prese di spalle che guardano il paesaggio, una scena di per sé banale,  ed è per me una delle sue foto più belle.. Andare  e fare le foto in iraq o in Libia dove ci sono manifestazioni casini e compagnia varia  è più facile perché le cose ti succedono davanti, non le devi cercare non devi fartele succedere, sono già li predisposte, è come se ci fosse alle tue spalle un regista supremo che decide già qual è la sceneggiatura e lo svolgimento dell’azione quel giorno:  gente che si raggruppa, gente che inizia a protestare, gente che urla, gente che vede la macchina fotografica e quindi vuole fare, urlare ancora di più, quindi la presenza di fotografi puo’ esasperare situazioni già in fibrillazione. Esserci, questa è la differenza che ancora mi inorgoglisce nel poter dire sono un fotografo e non un giornalista. I giornalisti sono diventati dei narratori ma anche perché i giornali hanno cambiato il modo di riportare le storie e il giornalismo d’inchiesta è sparito. Il vero giornalista è quello che ha i buchi nelle scarpe, non vorrei essere scettico o pessimista ma il giornalista d’inchiesta non esiste più. E aggiungo, in questo sono particolarmente bravi i giornalisti italiani…… io ho pochissima stima dei giornalisti italiani, ma proprio zero,…. sono veramente pochi tanto che se dovessi pensarci non so se riuscirei  a contarli sulle dita di una mano, Certo, non che valga molto il mio giudizio, pero’ in italia c’è un modo di fare giornalismo, soprattutto in certe condizioni, che è molto legato al romanzo salgariano « io ho fatto questo » « io sono stato il primo » , non importa la notizia in sé. Mi ricordo in Iraq era il sabato prima dell’entrata degli americani a Bagdad, mi pare il 5 aprile era un periodo in cui da due mesi lavoravo con Natchwey, andavamo in giro insieme,  (che è stato il colpo di fortuna della mia carriera di fotografo perché ho imparato un sacco di cose ), e siamo capitati in mezzo a scontri tra l’esercito americano e la guardia repubblicana di Saddam, abbiamo visto questo scontro in cui per i mezzi a confronto non c’era storia , gli americani avevano gli apache e quelli erano a piedi con dei vecchi kalaschnikov .Tornando in albergo sono stato subito « aggredito » da un gruppo di giornalisti italiani che mi chiedevano insistentemente di raccontare cosa fosse successo, io ero letteralmente scosso perché era la prima volta che mi trovavo in una situazione cosi pesante, eravamo stati presi , un po’ malmentati, e tutto quanto e davvero l’unica premura che avevo era di andare in camera, scaricare le foto, farle sparire perché erano foto di guardie repubblicane morte  quindi rischiavo la legge marziale, e poi ero scosso non avevo voglia di parlare. Questo succedeva alle dieci del mattino. Fino alle tre del pomeriggio ci sono stati giornalisti italiani che rappresentavano il Sole 24ore, Repubblica , la radio, che  si sono fatti raccontare cosa fosse successo io ho chiesto per favore non dite il nome ..il giorno dopo uscirono resoconti « come ci ha raccontato Franco Pagetti bla bla bla … » il Ministero dell’Informazione mi ha chiuso in camera , mi hanno di fatto  messo ai domiciliari e i giorni successivi avrebbero deciso cosa fare di me perché avevo descritto notizie su un combattimento e in periodo di guerra c’era la legge marziale.  Fortunatamente gli americani entrarono in Bagdad il 9, che era un mercoledi e tutti quelli del Ministero dell’Informazione  o della polizia se n’erano scappati e a me è andato bene pero’ questi qua si sono,non so perché, messi  a fare nomi e cognomi mettendo a repentaglio il lavoro e la sicurezza di un altro.

Quando venne sequestrata la Sgrena, la portai io in quel posto e dopo che venne sequestrata gli italiani vennero invitati dal governo a andarsene, io non rientravo tra gli italiani perché lavoravo per Time quindi per loro non ero italiano. Sta di fatto che un giornalista del corriere della sera se ne usci’ con una frase « tutta la stampa italiana  se ne è dovuta andare da Bagdad su invito del Ministero degli Esteri tranne l’unico italiano rimasto Franco Pagetti che lavora per gli americani «  ora « lavora per gli americani » – parlo del 2005 – voleva dire che ero una spia. Io mi domando se una persona cosi puo’ essere considerata un giornalista o se è uno sciacallo e basta. Non più tardi dell’anno scorso un mio carissimo amico, Joao da Silva, salto’ su una mina e  ci rimise le gambe. Joao è uno dei fotografi più coraggiosi e una delle persone più buone e altruiste che  io abbia mai conosciuto. Sempre Il Corriere della sera  se ne usci con una frase di un giornalista italiano che titolo’ il pezzo  « i paparazzi del dolore » o  « i paparazzi della guerra » o qualcosa di simile.

Io queste cose le trovo ripugnanti perché come fai a chiamare paparazzo del dolore uno che per il resto dei suoi giorni sarà senza gambe, non c’è spiegazione. Secondo me i giornalisti potrebbero starsene a casa, non li amo molto ecco, molti, quelli italiani si , tra quelli stranieri ce ne sono alcuni che vanno sui posti e altri un po’ meno.   Pero’ alla fine il fotografo deve andarci, le foto si fanno stando sul posto, non puoi stare in camera d’albergo. Dei bombardamenti di Bagdad, parlo di Iraq perché è la storia più grossa che abbia seguito, ci sono foto belle, scenografiche , pero’ eravamo tutti li’ sul balcone con gli obiettivi, tutto pronto, luce calibrata, il cavalletto,  non sono passate come le foto iconografiche del Vietnam perché sono foto fredde, di accademia, non c’è partecipazione emotiva, è puramente una partecipazione estetica di quel che è successo.

Adesso tutti fanno foto , cosa pensi del fatto che siano disponibili per giornali e documentazione una infinità di immagini fatte col telefonino?

io non sono contrario, se escono dall’Iran foto fatte col telefonino perché non si dà accessibilità ai fotografi sono d’accordo che vengano usate, se di queste foto si fa una speculazione per scioccare la gente, tipo la foto fatta col telefonino dell’ambasciatore americano ucciso a Bengasi trovo che sia allucinante . I giornali riempiono le pagine  su come l’informazione debba essere corretta e poi pubblicano una foto del genere? allora sei o scemo, o un ipocrita, o un venditore di bugie. Per il resto per quanto mi riguarda sono contrario a fare le foto col telefonino, se non posso controllare niente do’ di matto ma se uno fa un reportage sulle notti folli dei giovani di Londra Parigi NewYork col telefonino ci sta, è un modo nuovo di raccontare rispetto a come mi divertivo io e presumo ti divertivi tu, è un mezzo diverso, pero’ se tu vai in Somalia o in Libia a documentare quello che succede con il telefonino ma allora non è importante la notizia ma il mezzo che usi allora è giusta la domanda che mi fece quel  signore alla mostra con cui mi incazzai, diventa predominante il mezzo non quello che tu racconti. Per me la storia è la cosa più importante, non come l’ho fatta. Se tu scrivi un pezzo non ti chiedo se l’hai scritto con la bic o la parker o al computer, leggo il pezzo. Il telefonino secondo me è l’espressione di una pochezza generale che c’è in questo periodo nel mondo intero ; siccome facevo moda a me ricorda il periodo in cui si facevano foto con la polaroid 20X25 perché la novità del mezzo faceva diventare qualunque stupidaggine una cosa straordinaria perché era il mezzo nuovo,  perché era cosi grande, ma era un periodo come lo è adesso di pochezza intellettuale e di appiattimento. Stiamo vivendo un periodo strano in cui l’arte è piuttosto dormiente , in cui la letteratura è un po’ dormiente, la filosofia è dormiente, le leadership mondiali sono molto dormienti e si cerca di aggrapparsi sugli specchi. Alla fine l’uso del telefonino per fare certi lavori secondo me è anche mancanza di rispetto per chi fotografi, fai un fatto di moda di una cosa che non dovrebbe essere di moda, una carestia, una guerra, una epidemia.

il 90% delle foto oramai sono foto desaturate uguali « alla moda »quasi tutte fatte con lo stampino, usando photoshop in eccesso, cosa ne pensi, e cosa pensi delle nuove leve ?

Sono d’accordo con te, a volte vengono dei ragazzini a farmi vedere delle foto e io le trovo tutte uguali. Io non sono bravo a fare il ritocco, la prima cosa che chiedo è di mantenere l’originalità della luce. La luce non l’abbiamo inventata noi, c’è da sempre e la luce che tu hai in Colombia è diversa dalla luche cha hai in africa e quella che hai in Africa non è  ia luce di Milano  e è ancora diversa dalla luce di Parigi, per condizioni atmosferiche..la luce della Colombia è verde perché c’è tanto verde di foreste e piante, la luce della Libia o dell’Iraq o dell’Egitto è gialla quindi è inutile che si desaturi e questa è una cosa brutta, se si puo’ dire, di questo periodo (non vorrei essere antigiovane per il fatto che non lo sono più).

Se vado in un posto mi documento sul posto dove vado per molti la loro prima ambizione è di voler essere pubblicati, non gliene frega niente dove, come, quando, ma soprattutto -e questo è esecrabile- non gliene frega niente di chi fotografano e cosa fotografano. Fotografare un afgano un cinese un italiano o un turco per loro è la stessa cosa, fotgrafare una pianta a Madrid o al Bois de Boulogne idem, l’importante è avere il loro maledetto nome sul loro maledetto giornale . E poi non c’è più l’attaccamento al reportage, è puramente un fatto estetico e esibizionistico e infatti  se ci fossero degli psichiatri gratis per i nuovi fotografi avrebbero da lavorare dalla mattina alla sera.

A parte questo, quale puo’ essere una conclusione sul futuro del reportage, sei ottimista o  pessimista?

Sicuramente cerco ancora di essere ottimista, nonostante le campane  a morto , e non è la prima volta che accade, che si sentono sul reportage. La fotografia continuerà a esistere e ritengo che sia talmente importante e viva per quel che succede e per la gente che la fa. Sono cambiate le piattaforme, c’è internet pero’ la cosa che mi consola è che, forse perché sono vecchio, se parliamo della guerra di Spagna ci si ricorda di una foto, di quella di Capa, e non dei pezzi scritti da Hemingway, sulla guerra del Vietnam sono stati scritti libri, centinaia di migliaia di articoli di giornalisti che hanno vinto il Pulitzer pero’ di cosa ci si ricorda ? delle foto di Larry Burton  della bambina bruciata dal napalm. Sono sempre le foto che parlano, che restano nella mente e negli occhi di tutti e spero che continuerà a restare così. Potranno scrivere milioni di pagine di inchiostro, milioni di file,  ma ci sarà sempre una fotografia, che racconterà  di qualcosa di quel periodo.

La fotografia ci sarà sempre, e nonostante tutto sono ottimista, mi auguro solo che le nuove leve capiscano che non è solo un fatto estetico, forse stiamo pagando lo scotto del digitale, forse non è ancora maturo abbastanza, deve invecchiare un po’…

 

 

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