Se Beirut e Parigi bruciano – di Maria Camilla Brunetti

Giovedì 12 novembre intorno alle 18 ora locale Ain el Sikkeh, una zona altamente popolata del sobborgo a maggioranza sciita di Bourj el Barajneh a Beirut, è stata teatro di un doppio attentato suicida rivendicato dallo Stato islamico. Bourj el Barajneh è uno dei distretti meridionali di Beirut in cui Hezbollah – in campo nella guerra siriana a sostegno di Bashar al Assad insieme a Iran e Russia – ha ampio supporto e controllo.
Nell’attentato sono morti 46 civili e 240 sono rimasti feriti, alcuni dei quali in condizioni gravissime.

Poco più di ventiquattro ore dopo, ieri sera, Parigi è stata nuovamente attaccata al cuore con il più sanguinoso attentato terroristico della sua storia, un attacco diretto non soltanto alla Francia, ma all’Europa tutta, ai suoi principi fondanti, al suo presente e alla sua storia. Lo Stato Islamico, ancora una volta, rivendica con un comunicato ufficiale la responsabilità della strage, che ha colpito i parigini nei luoghi del tempo libero e del divertimento.

In una serie di esplosioni e sparatorie in diverse parti della città, tra le quali tre ristoranti Il Carillon e Le Petit Cambodge entrambi in Rue Albert nel 10 arrondissement in cui hanno perso la vita tra le 12 e le 14 persone, la terrazza del cafè La belle Équipe in rue de Charonne nell’11 arrondissement dove ci sono state 19 vittime, La casa nostra pizzeria in rue de la Fontaine au Roi e il Bataclan un locale all’incrocio tra boulevard Richard-Lenoir e boulevard Voltaire che ospitava un concerto della band americana Eagles of the Death Metal – in cui sono state uccise tra le 75 e le 80 persone – e lo Stade de France a Saitnt Denis, dove si stava svolgendo l’amichevole di calcio tra Francia e Germania alla quale stava assistendo anche il Presidente francese François Hollande, nella notte di ieri 13 novembre, almeno 128 persone – in un bilancio provvisorio – hanno perso la vita. Centinaia sono i feriti, di cui numerosi in condizioni estreme.

Proprio a Parigi, nelle giornate del 16 e 17 novembre, era attesa la visita del presidente iraniano Hassan Rohani, visita che è stata cancellata. Nel frattempo, i parigini hanno dato prova di grande solidarietà e reazione, aprendo le loro case per offrire ospitalità e rifugio alle persone che fuggivano dai luoghi degli attentati, attraverso l’hastag #PourteOuverte.

Ora il mondo sembra cadere in una notte senza fine, disegnata su un asse macabro – dell’orrore – che collega fin troppo chiaramente gli attentati di Beirut alla strage di Parigi.

Giovedì notte 12 novembre siamo arrivati a Bourj el Barajneh intorno alle 19, un’ora dopo l’attentato. I vicoli che ieri, nel venerdì del lutto nazionale indetto dal primo ministro libanese Tammam Salam, erano invasi da uomini, donne e bambini che portavano i loro tributi alle vittime, giovedì sera erano lo scenario devastato del più sanguinoso attentato avvenuto a Beirut dalla fine della Guerra civile libanese nel 1990.

Decine e decine di miliziani e uomini dell’esercito pattugliavano gli ingressi e i vicoli del distretto, con check-point a poche decine di metri l’uno dall’altro, alla luce di lampioni a intermittenza in un’atmosfera spettrale.

Il piccolo negozio di frutta e verdura di Yasser Rammal, 49 anni, è proprio dietro l’angolo, a poche decine di metri dal luogo del doppio attentato suicida rivendicato dall’IS. Giovedì notte, la zona davanti al negozio di Yasser Rammal, era una ferita aperta in cui si poteva riconoscere la carcassa carbonizzata e deformata del motorino su cui era installato l’esplosivo del primo attentatore. Attorno, ovunque, pozze di sangue, macerie e vetri in frantumi delle vetrine dei negozi che affacciano sulla strada.

Erano le 18, era da poco passata la preghiera della sera, quando una motocicletta veniva fatta esplodere a qualche metro dall’ingresso di un forno. A pochi minuti dalla prima detonazione un secondo attentatore si faceva esplodere causando altre vittime tra le persone che erano accorse in seguito al primo boato. Ma questa seconda esplosione ha provocato la morte di un terzo attentatore, impedendogli così di liberare il carico della sua cintura esplosiva.

I responsabili sarebbero due palestinesi e un siriano, hanno precisato le autorità libanesi. Questo doppio attentato riporta alla mente lo spettro della serie di attentati che hanno colpito duramente a più riprese per tutto il 2013 e fino alla prima metà del 2014 i distretti meridionali a maggioranza sciita di Beirut. Come quelli che lo hanno preceduto, anche quest’ultimo è collegato, su un piano politico, agli sviluppi del conflitto siriano. I quartieri meridionali di Beirut dove Hezbollah ha il suo quartier generale e il suo bacino diretto di sostegno, sono stati a più riprese dall’inizio della guerra in Siria teatro di violenti attentati rivedicati da diverse sigle dell’estremismo sunnita come ritorsione per il sostegno di Hezbollah alle forze governative siriane. Il nuovo attentato, potrebbe essere collegato all’avanzata delle forze governative e dei suoi alleati Hezbollah nei pressi di Aleppo la scorsa settimana contro postazioni dell’Is, attraverso la logica del “siate pronti a pagare sul vostro territorio ciò che voi fate sul nostro”.

A Bourj el Barajneh, bandiere di Hezbollah e di Amal, i due maggiori partiti sciiti libanesi, sono state issate a ogni angolo delle strade, su tutti i balconi, dai quali decine di donne in hijab neri, ieratiche come statue del lutto, ieri accompagnavano con lo sguardo le prime bare che attraversavano i vicoli per raggiungere il cimitero.

Era nel suo negozio, Yasser Rammal, giovedì alle 18, quando ha sentito una fortissima esplosione. Stava lavorando come ogni giorno. “L’atto criminale che ci ha colpiti non farà altro che renderci più uniti e più forti. Non abbiamo paura di loro”, mi ha detto, quando abbiamo parlato ieri pomeriggio. Loro, l’Is. “Non abbiamo paura. Siamo sempre più pronti a combatterli con tutte le nostre forze fino alla vittoria finale. Ogni attacco contro di noi non fa altro che rafforzarci. Guardati intorno, ieri abbiamo perso 46 persone e oggi il quartiere è sceso per le strade per dimostrare la sua forza. Non c’è nulla che possa spaventarci”.

Dopo essersi allontanato per pochi istanti, Yasser ha fatto ritorno per mostrarmi un pezzo metallico deformato che aveva in mano. “Appartiene al motorino della prima esplosione. Dalla forza dell’impatto è arrivato fino dentro al mio locale”, ha aggiunto.

Anche ieri il negozio era aperto. Davanti, le carcasse e i lasciti carbonizzati dell’attentato. Sul vicolo, a qualche metro da noi, un gruppo di ragazzi ci osservava fumando arghile.

Kassem Annan ha vent’anni, è uno studente universitario di media e linguaggi televisivi. Vive in una casa a poche centinaia di metri dal luogo della strage. “Sono arrivato qui pochi minuti dopo l’esplosione”, mi ha detto con estrema calma. “Ho visto persone che scappavano tra le fiamme e un fumo spesso. Persone che gridavano, che cercavano di portare soccorso ai feriti provando a raggiungere l’ospedale. Non ci aspettavamo una cosa del genere, qui in questo quartiere, tra donne e bambini. Ho perso molti amici nell’attentato di ieri, tutte persone che conoscevo bene”.

Abbas, invece, ha ventinove anni e lavora come giornalista ad Al Manar, la rete televisiva di Hezbollah. “Le persone qui non hanno paura, come puoi vedere”, mi sorrideva indicandomi le donne e i bambini in strada, i ragazzi che fumavano e che parlavano, i miliziani che controllavano ogni angolo. “La vita continua. Dall’inizio della Guerra in Siria, Dahyeh (termine con cui si intendono i distretti meridionali di Beirut a maggioranza sciita che sono roccaforte di Hezbollah, ndr) è stata colpita più volte. Le cose sono iniziate a migliorare solo dalla metà del 2014 con la vittoria nella battaglia del Qalamoun, (zona strategica al confine tra Siria e Libano) attraverso la quale è stato possibile respingere l’avanzata di Daesh (acronimo arabo con cui si indica lo Stato islamico, ndr) in Libano. Dopo questo ennesimo attentato, la grande domanda, per quanto riguarda il Libano, è ora da fare al governo. Come si muoverà? Che tipo di decisioni prenderà?”

Tammam Salam, il primo ministro libanese, ha condannato duramente l’attentato chiamando la cittadinanza a rimanere unita. Ma il fragilissimo equilibrio del Libano, della Regione e quello internazionale, visto da questi vicoli, sembra sempre più vicino al baratro. Il governo libanese, che da più di diciassette mesi non riesce ad eleggere un nuovo presidente – prova di un’endemica incapacità del governo, strangolato da logiche confessionali e stretto in una strategia di poteri e assi politici giocati su una scacchiera internazionale – non sembra in grado di affrontare uno scenario di questa gravità.

Sul luogo dell’attentato donne uomini e bambini si raccoglievano per portare candele e rose, a un paio di metri da una garage sfondato dall’esplosione. Il cratere sulla strada prendeva a brillare, mentre la luce del giorno cedeva a una notte troppo lunga, che da questi vicoli di Beirut arriva al cuore sconvolto dei boulevards parigini.

 

 

 

 

 

photo credit: Maria Camilla Brunetti

Abitanti di Bourj el Barajneh accendono candele e portano fiori sul luogo dell’attentato. Beirut. 13 novembre 2015

 

 

 

 

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