“Nostra Signora del Nilo” – Intervista a Scholastique Mukasonga – di Francesca Bellino

 

Scholastique Mukasonga è ruandese di etnia tutsi e nel genocidio avvenuto nel suo Paese vent’anni fa a danno della sua gente ha perso trentasette familiari. La sua scrittura parte da questa ferita. Nasce dalla perdita, ma soprattutto dalla rabbia per l’assurdità del destino della sua terra che è stata costretta a lasciare per sfuggire alle persecuzioni degli hutu e a ripa­rarsi prima in Burundi e poi in Fran­cia, in Normandia, dove vive dal 1992.

Scholastique Mukasonga, classe 1956, ha esordito come scrittrice nel 2006 con “Inyenzi ou les Cafardes” (“Inyenzi o gli sca­ra­faggi”, Gallimard), seguito da “La femme aux pieds nus”  (“La donna dai piedi nudi”, Gal­li­mard 2012) dedicato alla madre Stefania uccisa nel 1994. Nel 2010 ha pubblicato la raccolta di racconti “L’Iguifou. Nouvelles rwaindaises” e, con il suo ultimo romanzo, “Nostra Signora del Nilo”, pubblicato in Italia da 66thand2nd, si è aggiudicata il Prix Ahmadou Kourouma e il prestigioso Prix Renaudot. Mescolando sapientemente autobiografia e finzione, Scholastique Mukasonga riesce a raccontare storie di poesia e tragedia, purezza e veleno, puntando sui sentimenti universali come in “Nostra signora del Nilo”, storia che ritrae la vita di un liceo femminile nei primi anni ‘70 a Nyaminombe, che diventa il simbolo dell’intero Paese, dove si annida già il germe del razzismo e tanti presagi del massacro nel 1994.

cover - nostra signora del niloIl liceo è un grande edificio di 4 piani, più alto dei ministeri della città. La sua presenza non passa inosservata a nessuno. Quando l’anno scolastico comincia c’è attesa nel vedere arrivare al liceo le eleganti figlie di ricchi commercianti, uomini d’affari, ministri. E’ risaputo a tutti che queste gio­vani stu­den­tesse riceveranno “l’educazione democratica e cristiana appropriata per l’élite fem­mi­nile” e sono desti­nate a diven­tare un modello per tutte le donne del Ruanda della prima repub­blica hutu e a gio­care un ruolo impor­tante nell’emancipazione del popolo ruan­dese. Lo swa­hili, lin­gua dei seguaci di Mao­metto, è bandita. Per loro il fran­cese è l’unica lin­gua auto­riz­zata. E anche gli usi e costumi diffusi sono quelli dei “bian­chi”, rite­nuti emblema di civiltà e unica via d’accesso allo svi­luppo demo­cra­tico del Paese.

Madame Mukasonga, lei ha affermato che con “Nostra signora del Nilo” ha tolto i panni di “vittima” e di “sopravvissuta” e ha cominciato veramente a scrivere. Cosa è cambiato dentro di lei?

Non credo che si possa dire che ho iniziato a scrivere con “Nostra Signora del Nilo”. Anche se i miei primi libri, “Inyenzis o scarafaggi” e “La donna a piedi nudi”, sono autobiografici, ho sempre avuto il desiderio di una buona scrittura letteraria. Ho considerato i miei libri come una tomba di carta per tutte le vittime rimaste senza sepoltura: avevano bisogno di una tomba degna per loro. Negli anni ’60 e ‘70 anni in Ruanda il francese veniva insegnato alla scuola elementare. Ma questo francese non usciva quasi mai dalle istituzioni scolastiche perché il Ruanda è fortunato ad avere una lingua nazionale parlata da tutti i ruandesi. Per me il francese è rimasto la lingua della scrittura. Scrivevo in francese prima di parlarlo, prima di pronunciare ogni parola già l’avevo scritta nella mia testa. I miei primi libri hanno ricevuto ottime recensioni che mi hanno incoraggiato a scrivere. Con la raccolta di racconti, “The Iguifou”, ho cominciato a mischiare biografia e finzione. Mentre con il romanzo ho avuto la necessaria distanza che mi ha permesso di ampliare il campo della mia scrittura. Così ho potuto affrontare temi come la condizione delle donne, la storia e le tradizioni del Ruanda a lungo oscurati. Il romanzo mi libera, è quasi una terapia, e provo anche piacere nello scrivere. La scrittura mi apre molte “vie”, la più importante è quella della riconciliazione tra i ruandesi.

Da quali riflessioni nasce la sua scrittura più ironica?

L’umorismo ha sempre fatto parte dei miei libri. Ho sempre pensato che il lettore non debba essere sopraffatto dall’orrore e debba assaporare il piacere innocente della lettura. Mia madre, Stefania, era una rinomata narratrice e sapeva tenere gli ascoltatori con il fiato sospeso. Spero di aver ereditato un po’ del suo talento. Ma l’umorismo, anche nelle situazioni più tragiche, è un tratto culturale dei ruandesi. I ruandesi lo gestiscono con grande destrezza, anche nei loro confronti. La discrezione, la riservatezza, l’ironia sembrano essere proprio caratteristiche della nostra cultura. Questo ha spesso causato molti equivoci…

Che ruolo ha avuto la religione cristiana nel suo Paese?

mukasongaQuando si viaggia in Ruanda, non si può non essere colpiti dalla presenza di chiese e grandi edifici di mattoni dei missionari che dominano il paesaggio. Da molto tempo queste missioni sono state per i contadini delle colline gli unici luoghi dove trovare tutto ciò che potevano desiderare tra i prodotti europei: generi alimentari, tessuti, etc. E poi l’economato, la carpenteria, la clinica… Grandi folle di persone affollavano e affollano ogni domenica la messa, i giovani sono incorniciati da diversi movimenti, le Figlie di Maria, Xavériens… L’autorità rappresentante belga si appoggiava principalmente sulle missioni cattoliche. Ai Padri bianchi era affidata l’evangelizzazione del Paese. Alla fine del 1920, monsignor Léon Classe, primo vicario apostolico, applicò la strategia apostolica del fondatore della Congregazione, il cardinale Lavigerie: convertire prima i capi. Per fare questo, monsignor Classe diffuse in Belgio una violenta campagna di stampa per ottenere le autorità e destituire il re Musinga che si rifiutava di convertirsi. La rimozione del sovrano (1931) provocò la conversione dei capi seguita dalla massa della popolazione: quello che i missionari chiamavano il “Tornado dello Spirito Santo”. Il nuovo re fu battezzato nel 1943 e nel 1946 il Rwanda fu consacrato a Cristo re. I Padri bianchi pensavano di aver realizzato il loro sogno di fondare un regno cristiano in Africa centrale. Questa cristianizzazione, sostenuta dalle autorità coloniali belghe che affidavano ai missionari l’esclusività dell’insegnamento, s’accompagnò a un profondo sradicamento: demonizzazione delle antiche credenze e persecuzione dei custodi della tradizione considerati ”maghi”. Il Ruanda, modello di cristianità, è anche un Paese con le sue radici tagliate profondamente. La Chiesa del Ruanda ha svolto, inoltre, un ruolo di primo piano nella rivoluzione sociale 1959­ – 1960. Appoggiati dai belgi, i capi tutsi, con l’avvicinarsi dell’indipendenza, hanno portato al potere un’élite hutu addestrata nei seminari. Le loro rivendicazioni erano probabilmente giustificate, ma hanno sviluppato un’ideologia razziale che ha fatto dei tutsi degli invasori stranieri da cacciare o eliminare, culminata nel genocidio del 1994. I vescovi ruandesi diedero loro un sostegno impeccabile nelle due repubbliche hutu 1962 / ­1994. Oggi, se la chiesa rimane forte, il cattolicesimo vive una grande concorrenza da parte di una confessione evangelica arrivata dagli Stati Uniti.

Come sono cambiati i giovani ruandesi rispetto a vent’anni fa? Perché guardano più positivamente al futuro?

E’ difficile per me dettagliare i cambiamenti nella gioventù ruandese in 20 anni. Quello che vedo durante i miei soggiorni è la straordinaria sete di conoscenza che li spinge a studiare e ad andare all’università, per chi può. Per le strade di Kigali, in particolare in campagna, incontro folle di scolari in uniforme. Cartelloni pubblicitari proclamano: “Quando una bambina va a scuola, il futuro si apre davanti a lei”. Lo scorso settembre, sono stata a Nyamata, dove la mia famiglia era stata deportata nel 1960 perché tutsi. Gli insegnanti mi avevano invitato a parlare con gli studenti nella scuola dove ho studiato, ora diventata scuola secondaria. Mi sarei aspettata di parlare con i ragazzi in kinyarwanda, ma le domande erano tutte in francese. Le ragazze sono state più audaci. Si sono identificati in me e io in loro, mi vedevo, 40 anni fa, come se fossi davanti la ragazza che sono stata. Io ero per quegli studenti speranza e promessa. Si sono mostrati orgogliosi di me. Nyamata è diventata una fucina di talenti da quando una delle sue figlie è diventata una scrittrice riconosciuta, e dunque c’era un futuro per gli studenti e le studentesse della scuola. Sono tornata da Nyamata con questa promessa e con questa speranza.

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