Visa pour l’Image 2012 – Standing at the Graveyards of E-waste – Stanley Greene

“I Cimiteri dell’Elettronica” – Stanley Greene
– NOOR Agency –


di Valentina Valle Baroz 

 

 

Il progresso tecnologico, indispensabile all’attuale modello di globalizzazione, presenta, a lato di innegabili vantaggi e facilitazioni, molteplici zone d’ombra legate su scala locale a discutibili modifiche delle dinamiche sociali e su scala globale a una violenta riconferma dei rapporti di forza definiti nel secolo scorso. La non indispensabilità dei beni in questione fa sì che questi due piani siano strettamente correlati, dipendendo l’intero mercato dell’innovazione tecnologica dalla richiesta dei consumatori, che a sua volta dipende dalla capacità delle aziende di offrire prodotti stimolanti, di rapido consumo e dal prezzo abbordabile. Tutte condizioni ottenibili ad oggi tramite il contenimento dei costi di produzione, ovvero lo sfruttamento della forza lavoro di alcuni paesi in base a rapporti di ascendenza coloniale usciti indenni dalle indipendenze nazionali. È così che stati come India, Cina, Nigeria o Pakistan mettono a disposizione di multinazionali straniere la loro popolazione più povera, un’umanità di scarto che ha ragione di esistere solo finché in grado di produrre. Ed è così che Stanley Greene, fotogiornalista newyorkese dell’agenzia Noor, consacra un progetto alla denuncia di questo sfruttamento, perpetrato dai colossi della tecnologia contemporanea con il beneplacito dei governi nazionali.

Il punto di partenza del reportage sono i rifiuti elettronici le cui discariche stanno aumentando a dismisura per numero e dimensioni, alimentate dagli scarti derivanti da una folle politica di superamento del modello sul mercato che propone a brevi intervalli temporali versioni lievemente differenti di un oggetto già efficiente, in un delirio di ricerca di perfezione e completezza per proprietà, funzioni, interattività e design. Lo viviamo quotidianamente, infilandoci in tasca strumenti tuttofare, che si guastano con la stessa velocità con la quale vengono sostituiti.

All’incontro che si è tenuto sabato 8 settembre nella sala del Palais de Congrès di Perpignan, in occasione del Visa pour l’Image 2012, Greene parla di questo suo lavoro non come di un distaccato documentario sulle distese di rifiuti che deturpano paesaggi incontaminati ma bensì come un’impegnata denuncia di politiche commerciali spietate, nonché dell’ottusità dei consumatori che rincorrono aggiornamenti, applicazioni e ultimi modelli abboccando all’esca di una comodità che si è fatta status symbol.

Vincitore di cinque World Press Photo Awards oltre a numerosi grants e riconoscimenti, Greene si dice incredulo di fronte all’isteria tecnologica cui assiste e non accetta il silenzio sul meccanismo che la rende possibile. Si sente ancora un attivista (in gioventù è stato membro delle Black Panthers e del movimento contro la guerra in Vietnam) ed è con questo sguardo che presenta la sua intensa sequenza monocromo, spaccato di una realtà che lui stesso definisce “uno dei più grandi business del momento”. “Siamo messaggeri ed è il nostro lavoro raccontare al mondo ciò che sta accadendo (…). E quello che sta accadendo è che là fuori ci sono dei mostri, che però non sono solo a migliaia di chilometri da noi. Ciò che voglio trasmettere è che questi mostri si trovano anche all’entrata delle nostre case, e si chiamano anche Nokia o Apple”. E nel caso avessimo ancora qualche dubbio, prima di congedarsi racconta la vicenda di una donna indiana, impiegata in una delle tante strutture afferenti a Nokia e rimasta incastrata in un macchinario, la cui morte è stata pazientemente attesa dai colleghi che hanno ovviato così all’arresto della produzione, inevitabile nel caso avessero deciso di salvarla.

Con quest’immagine Greene chiude il suo intervento, conscio che il progresso tecnologico non si fermerà, che gli stessi macchinari che lui utilizza per denunciarne i risvolti macabri sono parte dell’ingranaggio, che noi tutti lo siamo ma consapevole altresì che la denuncia e la conoscenza non siano fini a se stesse perché se “nobody knows, nobody cares”.

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