Una “prigione” per i rom nel Kosovo del dopoguerra – Testo di Costanza Spocci

“Questo posto una volta era una prigione, ma non avere paura”. La tempesta di fulmini sulle montagne kosovare di Peja è da poco terminata e le ultime gocce di pioggia inumidiscono i capelli di Sekibe Morinaj, una donna rom albanese di 41 anni, che con un cenno ci invita a varcare la soglia di un fatiscente casermone grigio. Dietro l’erba alta del cortile spuntano due bambini che si rifugiano immediatamente dietro le gonne delle madri ap- poggiate al muro scrostato del palazzo per poi sbirciare verso di noi, mentre un signore sulla sessantina, del tutto indifferente, si allontana in un viottolo che porta a un’altissima cancellata in ferro. È stato guardando attraverso quelle sbarre che circa due anni fa il colonnello Corrado Prado aveva scoperto la presenza di una “casa-prigione” abitata da dieci famiglie rom e kosovare-albanesi che, non potendo

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