Intervista a Marija Stepanova | di Flavio Villani

La scrittrice russa Marija Stepanova racconta i sentimenti degli abitanti del suo Paese e la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina. Sull’avvento di Putin, dieci anni dopo il crollo dell’Urss, dice: “Negli anni Novanta non abbiamo saputo sfruttare la nostra occasione”.

 

“C’è sempre chi dice: spogliati e mostra, togli e metti lì, stenditi e allarga, fammi un po’ vedere, sbottona, toccalo, hai visto?”. È ruvido ed esplicito l’incipit di Ragazze senza vestiti.
Le Ragazze senza vestiti sono “un albero caduto (…) con i folti rami rovesciati (…) le bianche radici dalla terra ormai districate”, come l’albero capovolto della qabbalah. Il corpo arboreo delle Ragazze senza vestiti è territorio dell’ambiguità, è nello stesso momento oggetto di desiderio e oggetto di vergogna.

“Le ragazze senza vestiti quasi sempre hanno vestiti che le rendono ancora più nude,
avvolgi intorno all’albero uno scialle o una coperta, e il nudo legno dell’albero (il nudo corpo del corpo) diverrà il luogo della vergogna”.

Abbiamo incontrato la poetessa russa Marija Stepanova, che la primavera dell’anno scorso si è trasferita qui a Berlino da Mosca, in una pallida e grigia mattina. Ha ottenuto i maggiori premi di poesia e letteratura europei e russi (tra cui il Pasternak nel 2005, il Big Moscow Score Prize nel 2009, il Bol’šaja Kniga nel 2018, il Nos Award nel 2019) e dirige il sito culturale colta.ru (bandito dalla Federazione Russa dopo lo scoppio della guerra in Ucraina). Ragazze senza vestiti fa parte di una raccolta uscita lo scorso settembre con Bompiani. Nel 2020 la stessa casa editrice ha pubblicato Memoria della Memoria, che racconta la storia della sua famiglia attraverso il XX secolo e con cui Stepanova è arrivata tra i finalisti dell’edizione 2022 del Pushkin House Book Prize, che seleziona ogni anno le migliori opere saggistiche sulla Russia.

Stepanova, se cercassimo una chiave di lettura di Ragazze senza vestiti dovremmo orientarci verso la qabbalah o verso l’ambiguità tra desiderio e vergogna?

L’immagine cabalistica significa molto per me, ma quello che conta davvero è l’ambiguità tra desiderio e vergogna. Si può leggere questa poesia come la semplice rappresentazione di un abuso, cosa che in qualche modo sarebbe anche giusta, ma i miei eroi e le mie eroine non sono solo oggetti, non sono solo vittime del desiderio di qualcun altro, sperimentano loro stessi il desiderio, anche se non hanno parole e immagini per esprimerlo. L’idea di vergogna è assolutamente centrale, perché la vergogna è transgenerazionale, non è solo sessuale ed è profondamente radicata nella memoria. Qualche anno fa ho tenuto all’Università Humboldt di Berlino un corso sulla trasmissione della memoria familiare. Ho chiesto ai miei studenti, che formavano un gruppo molto eterogeneo e internazionale, di scrivere tre parole associate ai ricordi di famiglia. Il risultato è stato sorprendente, perché tra le varie parole scelte una tornava sempre: vergogna. La vergogna non appartiene solo all’Unione Sovietica o al blocco di Varsavia, la vergogna si porta con sé, è formativa. A volte è il primo momento in cui improvvisamente ci vediamo dall’esterno.

In un articolo uscito su colta.ru all’indomani dell’invasione della Crimea da parte della Federazione Russa nel 2014, lo storico ucraino Andrii Portnov ha scritto che il riconoscimento della dignità dell’Ucraina passa anche attraverso un cambio di lingua e fa l’esempio dell’espressione na Ukraine (in Ucraina), che i russi usano da secoli e che viene tutt’ora usata dai media russi statali, ma che identifica l’Ucraina come un semplice territorio e che è stata sostituita nei media russi indipendenti da v Ukraine, espressione che invece riconosce il Paese come uno Stato sovrano. Per una poetessa l’uso di ogni parola non è mai casuale. Chiedere di dire v Ukraine al posto di na Ukraine è un capriccio grammaticale? Si riconoscono nella lingua russa caratteristiche coloniali?

Anche prima che con la guerra del 2014 ebbe inizio il problema, na Ukrainev Ukraine era un argomento doloroso, soprattutto per chi subiva quella differenza. Se la tua scelta di parole grammaticalmente corretta ferisce qualcuno, forse è il momento di ripensare la tua grammatica. Non dobbiamo stare con la lingua russa, ma con quelli che la parlano. Non mi riferisco solo all’Ucraina: nella storia di qualsiasi potenza coloniale o postcoloniale, come la Russia, ci sono lingue che sono state soppresse o ignorate. È ora di ascoltarle. Se le nostre regole linguistiche sono considerate opprimenti devono essere modificate, perché è un modo per gli ucraini e i bielorussi di rivendicare se stessi e le proprie scelte e per noi è un’opportunità per cambiarci. (…)

 

Ph. La scrittrice e saggista russa Maria Stepanova a Venezia (Stefano Mazzola/Awakening/ Alamy).

 

L’intervista completa è pubblicata in apertura del numero 54 di Reportage (aprile-giugno 2023).

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