Indonesia, un Paese che sta ricostruendo la propria memoria | Testo e foto di Jacopo La Forgia

Nel 1965 furono uccisi oltre un milione di oppositori “comunisti” del regime di Suharto. Il quale falsificò completamente i fatti. Oggi, dopo molti anni, giornalisti e organizzazioni sociali hanno cominciato a ripristinare la verità sul genocidio. La comunità Taman 65.

 

Fino alla caduta di Suharto, nel 1998, il comunismo è stato per me l’incarnazione del male”, racconta Febriana. “Avevo cominciato ad andare al College da poco tempo – ricorda – e un giorno mia madre, di punto in bianco mi confida che mio nonno non era morto per cause naturali, ma che era stato fatto sparire dall’esercito. Ora che Suharto era caduto, aveva pensato che fosse il momento di dirmi la verità” Nel 1965 il governo indonesiano fu rovesciato da militari guidati dal generale Suharto. Chiunque si opponesse alla dittatura che seguì il colpo di stato poteva essere accusato di essere un comunista: membri del sindacato, contadini, intellettuali, cinesi. In meno di un anno, e con l’aiuto più o meno diretto dei governi occidentali, furono uccisi oltre un milione di oppositori “comunisti”. Il nonno di Febriana era uno di questi.

“Dobbiamo ricordare. Dobbiamo ricordare perché queste cose non succedano più – dice ancora – non è un luogo comune, è così. L’ho vista la gente ammazzata. Muoiono perché non ricordiamo il passato, perché abbiano dimenticato tutto”. Si ferma, volta la testa di lato e fissa un punto alle mie spalle. Fino a ora ha parlato molto in fretta, senza mai riprendere fiato. Sa che condividere la sua storia è importante, non è la prima volta che la ripercorre con uno sconosciuto ma, a raccontarla, prova sempre dolore. Stiamo camminando sul sentiero lastricato di tufo del Kampuhan ridge walk, poco fuori dal paese di Ubud, a Bali. Intorno a noi erba alta, vegetazione vigorosa; ma, nella giungla delle colline vicine, i tetti degli alberghi à la page e degli yoga retreat spuntano come funghi velenosi.

Febriana Firdaus è una giornalista investigativa di Java, ha trentasette anni. Si è trasferita a Bali da poco, sfuggendo all’intelligence e alle minacce degli estremisti islamici. Le stavano col fiato sul collo per il lavoro che svolge a West Papua e perché nel 2015 ha fondato Ingat ’65. “Ingat vuol dire ricordare, – spiega – il gruppo è composto di persone che vogliono condividere esperienze e ricordi legati alle stragi del ’65. (…)

 

 

ph. Nei pressi del monumento Pancasila Sakti, alla periferia di Jakarta, particolare plastico a grandezza naturale in cui viene rappresentato il rapimento dei sei generali avvenuto nella notte tra il trenta settembre e il primo ottobre 1965. La rappresentazione è falsa. Dicembre 2019.

 

Il servizio completo è pubblicato su Reportage numero 42, acquistabile in versione cartacea e in digitale.

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