A Tripoli la guerra si può udire ma non è possibile vederla | testo di Amedeo Ricucci foto di Simone Bianchi

Tripoli, 15 gennaio 2020

 

Non so se succede anche agli altri passeggeri, ma io divento immediatamente nervoso quando sbarco all’aeroporto di Tripoli e mi metto in fila per il controllo del passaporto. Non è paura, no, semmai è ansia, o più precisamente un fastidio repentino che mi rende impacciato nei movimenti e cresce a mano a mano che si avvicina il mio turno allo sportello sotto lo sguardo truce dei miliziani che gestiscono la sicurezza dello scalo e che scrutano sospettosi i nuovi arrivati, soprattutto quelli della fila degli stranieri. Saranno loro, i miliziani, a decidere se i miei documenti sono in regola oppure no. E basta che manchi un timbro, o che una fotocopia sia poco leggibile, per finire nello stanzino degli interrogatori, in quarantena. Un collega della carta stampata qualche giorno fa ci è rimasto una notte intera, a “marcire” da solo su una sedia, senza nemmeno poter chiamare la sua ambasciata. Quando al mattino l’hanno fatto uscire – i documenti erano in regola – non gli hanno nemmeno chiesto scusa. Protestare, d’altronde, rischia soltanto di peggiorare le cose. Da sempre in Libia i giornalisti sono guardati con sospetto – in quanto tutti potenziali spie, gliel’ha insegnato Gheddafi – e oggi, con la guerra in corso, la paranoia è aumentata. Per questo ogni arrivo e ogni partenza dallo scalo di Mitiga sono diventate un terno al lotto: l’arbitrio è sempre in agguato, anche perché la milizia che controlla l’aeroporto – e ovviamente i suoi business, dal traffico passeggeri a quello delle merci – è fra le più temibili. (…)

 

 

Ph. Tripoli, un momento della parata militare nell’ex Piazza Verde di Gheddafi, ribattezzata dopo la Rivoluzione Piazza dei Martiri.

 

Il servizio completo è pubblicato su Reportage numero 42, acquistabile in versione cartacea e in digitale.

About author