La vita dei pastori in Mongolia che traggono profitto dagli yak – testo e foto di Didier Bizet

La popolazione nomade della Mongolia – un Paese sul filo del rasoio, incuneato tra due forze imponenti, da un lato l’antico colonizzatore, l’Unione Sovietica, dall’altro il suo sottovalutato partner economico, la Cina – è cresciuta da un milione 516mila persone del 2010 a un milione 714mila del 2017 (gli abitanti dell’intero Paese sono oggi oltre tre milioni), ma ogni anno tra le 10mila e le 20mila persone migrano verso la capitale Ulan Bator, rendendo l’economia nomade sempre più incerta. Nel 2010, tuttavia, per sostenere i contadini, è stata creata una cooperativa, Caad, coadiuvata da Vets without borders, che lavorano quotidianamente con i nomadi per allevare gli yak, conosciuti anche come buoi tibetani, ed avere latte e lana. I cappotti di yak, infatti, sono sempre più ricercati sul mercato mondiale. Sono più caldi, più ecologici e più economici. E gli animali non strappano le radici delle terre che pascolano, a differenza delle capre o delle pecore. La cooperativa lavora in modo trasparente, “monitorando” il lavoro dell’agricoltore e arrivando fino agli acquirenti finali in Europa. La lana mongola ha diversi vantaggi, le sue fibre sono sottilissime, è di alta qualità e molto morbida. La raccolta – poi – è più ecologica di quella delle altre lane, ma la produzione è molto limitata, poiché un animale produce soltanto 300 grammi di lana ogni anno. Alcuni anni fa lo yak era un animale selvatico, oggi i nomadi di Arkhangai dipendono dall’economia attivata da questo animale. (…)

 

 

Il servizio completo è pubblicato su Reportage n°37, acquistabile qui in cartaceo e in versione digitale.

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