Nicaragua: la grande fuga – di Gabriella Saba

La rubrica quindicinale di Gabriella Saba dedicata all’America Latina sul sito di Reportage

 

C’è stata prima la grancassa di fake news, la propaganda. Poi sono arrivate le marce xenofobe, la più trionfale nell’agosto scorso: nemmeno mille persone ma inalberavano svastiche e gridavano “Nica delinquenti” e “Nica, tornate nel vostro paese”. Eppure i ticos, gli abitanti della Costa Rica, sono per tradizione un popolo accogliente e i nicaraguensi che rappresentano l’8,44 per cento della popolazione, una colonia di circa 300.000 persone, sono gente integrata, la cui presenza non ha mai creato problemi né destato eccessive paure. Un fenomeno consolidato, insomma, dato per acquisito e il cui incremento si manteneva da molti anni su percentuali costanti, ma contenute.

Ed ecco che dall’aprile di quest’anno quel meccanismo si è inceppato. La repressione delle proteste studentesche e di una parte dei campesinos e la tensione politica in Nicaragua hanno convinto molti oppositori a cercare lidi più sicuri per sfuggire a persecuzioni, arresti e minacce o anche soltanto per trovare un lavoro decoroso, visto che gli ultimi sviluppi nel paese hanno abbattuto l’economia e provocato la perdita del lavoro per 347.000 persone. I nicaraguensi in parte superano la frontiera con i documenti in regola, in parte passano dai cosiddetti “puntos ciegos”. Molti di loro si rifugiano presso i familiari che vivono nel paese, altri hanno trovato soluzioni di fortuna, o dormono negli alloggi che il governo costaricense continua ad allestire per fare fronte al flusso. La maggior parte si arrangia con lavoretti ma molti non trovano nemmeno quelli, e stando a Luis Vargas della Comisión Interamericana de Derechos Humanos, c’è chi fa la fame.

Dall’inizio dell’anno si calcola siano 52.000 i nica entrati nel paese secondo i dati di quella organizzazione, un flusso che non accenna a fermarsi e che ha cominciato ad allarmare i ticas, colpa in gran parte della valanga di notizie false che i gruppi xenofobi stanno facendo circolare sui social e sul web: in cui si dice che i migranti usufruiscono di privilegi smisurati e che detestano la Costa Rica al punto che in un raduno pubblico ne avrebbero bruciato la bandiera, e anche se poi è saltato fuori che la foto incriminata era quella di un concerto punk di ticas, si sa che le smentite hanno poca presa.

La falsa propaganda, invece, attecchisce come il fuoco sulla paglia, tanto più se la si lega alle dichiarazioni del governo, che assicura ospitalità e accoglienza scatenando la reazione di una parte del paese. A dire il vero anche quei toni accoglienti si sono un po’ smorzati a mano a mano che gli arrivi continuavano, tanto che di recente Raquel Vargas Jaubert, direttrice di Migración de Costa Rica confessa che se la crisi in Nicaragua dovesse continuare, saranno costretti a chiedere aiuto alla comunità internazionale. Non è soltanto la Costa Rica a fare questioni. Ci sono meccanismi sempre uguali nelle migrazioni, costanti antropologiche.

L’esodo di quasi tre milioni di persone dal Venezuela negli ultimi anni ha scatenato terrori e diffidenze verso lo straniero, risentimenti e rabbia che sfociano spesso nell’intollerenza e nel razzismo. Al punto che è bastato che quattordici nicaraguensi, peraltro perfettamente in regola, arrivassero nella cittadina colombiana di Barranquilla per spingere il direttore della Pastoral Social de la Arquidiocesis de Barranquilla, Fidel Iglesias, ad allertare che l’immigrazione dal Nicaragua potrebbe provocare un allarme sociale simile a quello creato dai venezuelani. 

Mentre il governo dell’Honduras, uno dei paesi più poveri dell’America Latina, ha stabilito che accoglierà i nicaraguensi soltanto dopo un prechequeo, per un problema di reciprocità. Nell’ottobre scorso una troupe della rivista Confidencial è andata in giro per la Costa Rica a intervistare espatriati come il 34enne Juan Gabriel Mairena, fratello del leader campesino Merardo in prigione dallo scorso luglio, e che è riuscito a fuggire dopo essere stato ferito, a quanto racconta, e dato per morto nella repressione da parte della Polizia durante il blocco dell’ingresso a Juigalpa e a Santo Tomás, nel centro del Nicaragua. Benché avesse la clavicola spappolata ha attraversato illegalmente la frontiera per poi arrivare alla capitale costarricana di San José, ma a causa di quell’incidente non è in grado di lavorare.

O come lo studente Andrés che ha abbandonato gli studi di medicina a pochi mesi dalla laurea per scappare dalla cittadina León in cui frequentava l’università e, successivamente, dal Nicaragua: è uno di quelli che è sceso in piazza e protestare ed è accusato di terrorismo. A San José dove si è stabilito, ospite di un conterraneo nella cui casa dorme su un materasso, lavora occasionalmente come giardiniere, dato che il visto di soggiorno temporaneo non gli permette di svolgere un lavoro stabile.  A rassicurare sul buon cuore del paese si è espresso di recente il presidente Carlos Alvarado e ci si augura che i ticas non si allontantino da quella linea, anche se non mancano i segnali opposti. La condizione di trasfughi per necessità è sufficientemente triste senza ci sia bisogno dell’aggravante dell’intolleranza da parte di chi li ospita.

 

 

 

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