Intervista a Martin Parr – di Marco Sconocchia

Pratica e dedizione sono le cose più importanti per un fotografo

 

Da un paio d’anni sono ossessionato dalle foto di Martin Parr. Non l’ho capito subito, il suo umorismo britannico, il colore esplosivo, il kitsch ricorrente, la grana grezza della pellicola, i mostri dei luoghi turistici e della società dei consumi. La scoperta di Parr è stata un’esplosione, l’aurea del personaggio mi ha incuriosito, l’irriverenza, le facce sfatte della classe media, il feticismo d’immagini, il taglio ironico, i colori accesi, l’assenza di stilismi e di pudore, le orribili camicie che indossa mi hanno fatto pensare se il virtuosismo esagerato, le “masturbazioni” fotografiche e il tecnicismo da bassisti a sei corde, oltre il mio tanto amato bianco e nero, non mi avessero rotto le scatole.

Chissà che non abbia pensato qualcosa di simile anche lui di se stesso, quando, dopo un inizio di carriera sulle orme dei propri idoli classici, decise di accendere i colori, intraprendendo la sua personalissima strada per il racconto: “La critica è ipocrisia, la società è ipocrisia. Sono un turista. Sono un consumatore, io faccio le cose che fotografo e posso esserne criticato’’, ebbe a dire in un’intervista.

Mr. Parr non sembra voler piacere a tutti e si diverte nel creare caos intorno a sé, è un fotografo di rottura in uno dei periodi più conservatori della storia della Gran Bretagna ed è anche per questo che inizialmente i suoi lavori non vennero apprezzati appieno dalla critica. L’Inghilterra thatcheriana, coperta dalla coltre grigia dell’austerità è un terreno fertile di contraddizioni che un fotografo maturo con una idea precisa ed uno stile codificato può sfruttare al meglio.

“The Last Resort”, del 1986, è la sublimazione dell’uomo Parr, che a 30 anni produce il suo capolavoro. E’ un lavoro originale, potente, preciso, ma tutto da decifrare, un libro al quale ne seguiranno altri, tutti di grande successo.

Il ‘’turista’’ Parr fa sul serio e continua il suo lavoro di ‘’studio delle persone’’ in giro per il mondo, la società diventa globale e lui è pronto a raccontarla, sempre con il flash montato e l’anello di saturazione dei colori, il suo marchio di fabbrica. Henri Cartier-Bresson di lui diceva che “veniva da un altro pianeta”. Il maestro della fotografia non avrebbe potuto trovare una definizione sintetica più appropriata.

“Quando si cerca di rinchiudermi in una categoria, cerco immediatamente di uscirne”, disse Martin Parr in un’altra intervista. Sicuramente è uno dei primi che ha cercato di rompere quella tradizione umanistica radicata nella generazione precedente di fotografi, cambiando per sempre il modo di fare fotografia. Nella sua sincerità, Parr sembra voler dire: siate coerenti, non fate per forza quello che vi dicono di fare ma trovatevi una strada che vi rappresenti, prendete una macchina fotografica e andate a scattare!

Martin, quando ti sei accorto di voler diventare Martin Parr? Lo sei già diventato?

Mi sembra una domanda complicata per iniziare un’intervista. Ho deciso che volevo diventare un fotografo professionista quando mio nonno mi ha avvicinato a questo mondo, avevo 12-13 anni, lui era un bravo fotografo, mi portava a fare foto con lui. Mi piaceva la sua compagnia e adoravo già fare foto. Il mio percorso è ancora in svolgimento, posso dire che Martin Parr ha ancora strada da fare. (…)

 

 

L’intervista completo è pubblicata su Reportage n°34, acquistabile qui in cartaceo e in versione digitale.

 

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