Esperanza, la storia di resistenza di Roberto Berardi – di Ilaria Romano

Sono un uomo bianco che ha avuto il privilegio e l’onore di aver creato una famiglia con la vostra gente; una scelta, ve lo assicuro, oculata e molto ben riuscita. Non preoccupatevi, oggi non scrivo per raccontarvi la mia storia, visto e considerato che ha già fatto il giro del mondo, ma per avvertirvi di un flagello che colpisce un piccolo angolo d’Africa che sarete, prima o poi, obbligati ad affrontare.

È il 24 dicembre del 2014 quando Roberto Berardi, imprenditore italiano in Guinea Equatoriale, scrive una lettera al presidente dell’Unione africana e al segretario generale delle Nazioni Unite. Sotto la sua firma è indicato un luogo, la cella di isolamento n°13 del carcere di Bata Central. In quel momento sono passati quasi due anni da quando è stato arrestato, e trascorreranno altri sette mesi prima che possa tornare un uomo libero.

Questa lettera è diventata il primo capitolo di Esperanza, il libro edito da Slow News che Berardi ha deciso di scrivere insieme al giornalista Andrea Spinelli Barrile, nel quale la sua vicenda personale si intreccia con la storia, ignorata dal resto del mondo, di un popolo governato da una dittatura.

Qui ogni giorno – scrive Roberto Berardi – i vostri concittadini vengono uccisi, pestati, torturati, depredati dei loro beni, imprigionati senza validi motivi, senza alcuna possibilità di difendersi. Molte donne vengono stuprate, altre sono costrette a darsi alla schiavitù sessuale. Che dire delle forze di polizia, della gendarmeria, dei militari, per non parlare della terrificante “Fuerza Especial”, che può agire del tutto impunita? Tuttavia questo non rappresenta in alcun modo il popolo della Guinea Equatoriale, quanto piuttosto una piccola cerchia di accoliti costretti a comportarsi in tale maniera per guadagnarsi la fiducia del “Jefe”, del capo, rimediare un po’ di denaro o anche solo non farsi schedare come un ribelle dal sistema.

Ciò che descrive in queste pagine l’ha visto o l’ha provato sulla propria pelle: arrestato senza un mandato, condannato con un processo farsa, trattenuto in carcere in condizioni disumane, in luoghi sovraffollati o in minuscole celle d’isolamento, picchiato e spesso privato del cibo, dell’acqua, di adeguate cure mediche, costretto a sentire e vedere le torture praticate sugli altri detenuti.

Fino al 2012 Roberto Berardi è un imprenditore di Latina che vive e lavora in Guinea Equatoriale. Ha 25 anni di esperienza maturata in Africa, fra Costa d’Avorio, Camerun, Nigeria, Togo e Benin, ed è riuscito a mettere in piedi la Eloba Construction, la prima multinazionale africana in campo edile. Il suo socio è il vicepresidente Teodoro Nguema, che gli segnala gli appalti per le opere pubbliche ma si disinteressa totalmente della gestione dell’impresa.

Il principe era conosciuto in tutto il mondo come un viziatissimo viveur: la sua villa da 30 milioni di dollari di Malibù, in California, era uno schiaffo alla povertà diffusa ovunque nel piccolo paese africano. Il principe viveva nel lusso spostandosi con il suo jet privato, arricchiva la sua collezione di auto e moto di lusso, riempiva i suoi conti correnti da sceicco, si godeva le sue ville sparse in mezzo mondo e ammirava i suoi quadri di Chagall appesi nel bagno degli uffici della vicepresidenza, a Malabo.Sembrava un narcotrafficante che si è comprato un’intera nazione. Tutto questo a Roberto non interessava. Aveva deciso che non gli importava nulla del profitto del suo pittoresco socio: per lui era solo un pagliaccio. Ma era anche vero che quel pagliaccio viziato gli passava i lavori più interessanti che ci fossero per un costruttore in Africa. Finché era Roberto stesso ad avere il controllo dell’azienda nulla poteva andare male.

Berardi crede di avere in mano l’intera gestione dell’attività, finché la Eloba non finisce sotto inchiesta degli Usa per riciclaggio: è allora che scopre la truffa milionaria del socio, che a sua insaputa ha creato conti paralleli dove fa confluire i pagamenti delle commesse per poi riciclarli. Se con la magistratura americana riesce a dimostrare la sua estraneità fornendo tutta la documentazione necessaria, Berardi si trova però a dover gestire l’ira del socio al quale ha appena bloccato il “gioco” americano. Dall’ultimo incontro fra i due, ben raccontato nel libro, riesce solo a far partire la sua famiglia prima di essere prelevato dalle forze speciali.

Durante la prima settimana fu tenuto nelle ore notturne nella macroscopica cella del seminterrato, dove doveva ascoltare tutta la notte le torture inflitte agli altri detenuti. C’erano uomini e donne guineani, camerunesi, nigeriani, ivoriani, gabonesi, maliani e congolesi. La maggior parte di loro era stata arrestata arbitrariamente perché senza documenti o senza i soldi per pagare la tangente al poliziotto di turno e comprarsi la libertà.

Da allora passeranno due anni e mezzo: 47 giorni nel commissariato, un breve periodo ai domiciliari e poi nel carcere di Bata Central. E per il “vecchio coccodrillo che non muore mai”, come lo avevano ribattezzato i compagni di cella, comincia una lotta per la sopravvivenza, fatta di ribellioni quotidiane contro i suoi aguzzini, e di solidarietà con gli altri detenuti. Anche grazie all’appoggio della giovane che chiamerà Esperanza, che per lui rischierà la vita più volte, Roberto riesce a comunicare col mondo esterno, con la famiglia che per tutto il periodo della detenzione non smette mai di cercare nuove strade diplomatiche per la sua liberazione. Tanti canali verranno attivati, moltissime saranno le lettere scritte, gli eventi pubblici per richiamare l’attenzione sulla sua storia, gli appelli a fare qualcosa per salvarlo.

Il suo racconto, fatto di sentimenti in una quotidianità di violenza alla quale sceglie di non piegarsi, parla di sé e di tutti i detenuti che non hanno la forza di ribellarsi. Roberto racconta sé stesso, ma mai in prima persona, e allo stesso tempo parla dei tanti uomini e donne conosciuti in una condizione in cui mai nessuno dovrebbe trovarsi. Ma soprattutto racconta la volontà, in un paradosso apparente, di rischiare la vita ribellandosi pur di rimanere vivo.

 

 

 

 

 

 

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