C’è un nuovo museo a Washington dal quale si esce piangendo – di Lorenza Pieri

L’edificio del Museo della storia e della cultura afroamericane, inaugurato nelle settimane scorse a Washington, ha la forma di una specie di corona su tre livelli, schermati da una struttura di metallo traforato color bronzo. Visto da lontano è l’unica macchia scura tra altri palazzi e monumenti tutti in marmo o pietra bianca, ma quello che turba maggiormente mentre ci si avvicina è la coda chilometrica delle persone in attesa di entrare. I primi biglietti disponibili (gratuiti, come per gli altri musei del comprensorio Smithsonian) sono prenotabili ormai solo per la prossima primavera, ma fortunatamente ci sono altri accessi più diretti e si può provare a entrare, armandosi di pazienza. Io ci sono andata un venerdì mattina. Nella fila dei senza biglietto, io, mio marito e un signore ebreo riconoscibile dalla kippah, eravamo gli unici bianchi. La fila stessa era già storia afroamericana, qualcosa che la maggior parte dei bianchi considera altro da sé e non urgente. Invece loro, i neri, andavano come a una specie di pellegrinaggio, tutti vestiti bene, alcune donne con copricapo fatti di stoffe africane, altre interamente vestite di viola, gite scolastiche di bambini quasi esclusivamente di colore. Anche il personale del museo è quasi tutto di colore: “Enjoy”, mi ha detto un custode, facendomi scivolare nella mano, senza farsi notare, due biglietti che mi hanno permesso di saltare una mezz’ora di coda. Gli avevo solo chiesto un’informazione sugli orari.

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Una volta dentro ti consigliano di iniziare la visita dal seminterrato e poi salire. C’è più di un senso in questo percorso. Ai piani bassi si passa attraverso un corridoio a spirale piuttosto angusto dove è documentato l’inizio della storia afroamericana: lo schiavismo, le deportazioni degli schiavi dall’Africa orientale all’America, per secoli. Uomini come merci qualsiasi. La cosa più impressionante sono i disegni originali delle stive navi (perlopiù portoghesi) a dimostrazione della quantità di persone incatenate che potevano entrarci. Nessuno spazio vitale, ammassati per mesi in un luogo senza aria in mezzo ai loro stessi liquami: si prevedeva un carico il più grande possibile sapendo che all’arrivo si sarebbe salvata solo la metà delle persone, nella migliore delle ipotesi. E tutto questo viene illustrato attraverso un percorso di spazi stretti e illuminati soltanto artificialmente, il che trasmette un senso di claustrofobia che si somma all’angoscia per l’orrore. Secoli di schiavismo sono rappresentati attraverso oggetti (fruste, catene, vesti, i sacchi enormi da riempire di cotone ogni giorno, utensili…) e ricostruzioni di luoghi, ma pochissime sono le testimonianze scritte dirette, anche perché quasi nessuno era alfabetizzato.

Quando arriviamo alla bacheca che contiene una federa di cotone con sopra ricamata la lettera di una nonna alla nipote, venduta a nove anni, che dice qualcosa come “non ti vedrò mai più ma qui dentro trovi delle noci, due ciocche dei miei capelli e tutto il mio amore per te”, io e mio marito ci guardiamo con gli occhi luccicanti. Al contrario nessuno dei neri piangeva: la nostra non era solo commozione, ma lacrime di vergogna che loro non devono versare. Dopo lo schiavismo la guerra, dopo la guerra la segregazione, dopo la segregazione le lotte politiche e la prigione e ancora: se per le strade e alle manifestazioni oggi si grida lo slogan Black Lives Matter, significa che l’uguaglianza esiste solo sulla carta.

Poi si salgono le scale, si vede la luce, c’è un teatro interamente finanziato da Oprah Winfrey e a lei dedicato, ci sono allegre e orgogliose sezioni dedicate ai grandissimi afroamericani nello sport e ai più importanti musicisti neri dal Novecento a oggi. Ma ci si arriva comunque con l’animo pesante. Quindi, nonostante la zona alla luce del sole sia la più vasta, l’ho visitata più rapidamente e, accompagnata dal cembalo di Prince, sono uscita stroncata. Stroncata per aver trascorso soltanto tre ore (e soltanto come spettatrice) in compagnia di una tragedia atroce con la quale milioni di persone hanno dovuto convivere per secoli. Il Museo di storia e cultura afroamericane (National museum of african american history and culture) è un luogo intenso, che fa vacillare la speranza, un pugno allo stomaco, che non può non suscitare un’enorme empatia in chi lo visita. Ma se un senso hanno i musei oggi è anche questo: parlare dell’umanità, aiutare il ricordo della disumanità a non sbiadire per non dover rivivere mai più quella storia, al massimo piangere nel sentirsela raccontare. Un grande progetto, un’idea coltivata a partire dagli anni ’30, che è diventata un progetto approvato dal Congresso nel 2003, ma che ha visto la sua realizzazione soltanto oggi con Obama.

 

 

 

 

ph. Jim Lo Franco

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