A Tunisi un’azienda tessile autogestita dalle lavoratrici – testo e foto di Costanza Spocci e Giulia Bertoluzzi

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Sami Chouchane sfreccia sul suo scooter sollevando la polvere delle carraie nella campagna di Chebba, un villaggio tunisino di 20mila anime in provincia di Mahdia.  Col suo velo azzurro e gli occhiali da sole oltrepassa l’ultima fila di case bianche dal tetto basso e si infila nello stradello della zona industriale che ha percorso tutte le mattine per nove anni per andare al lavoro. Imen Fartoul è in sella dietro di lei, quando lo scooter rallenta, si aggiusta la lunga treccia nera e in un batter d’occhio schizza giù dalla sella per tendere la mano e presentarsi. Siamo di fronte ai cancelli di Mamotex, la fabbrica tessile di vestiti da carnevale in cui Chouchane, 40 anni, e Fartoul, 25, hanno lavorato gomito a gomito di fronte alle macchine da cucire nove ore al giorno, sei giorni su sette e che ora hanno in autogestione con le compagne.
L’11 gennaio scorso, infatti, il proprietario della fabbrica, Mounir Driss, ha deciso che non avrebbe più pagato i salari delle lavoratrici. Siccome era sicuro che i 70 dipendenti, di cui 67 donne, sarebbero scesi in sciopero, ha pensato anche di dichiarare fallimento il mese successivo, chiudendo i battenti a una fabbrica che era giunta al suo ventesimo anno di attività. “Tutti questi mesi senza salario sono stati molto duri, non riesco più ad aiutare mio padre”, dice Imen Fartoul mentre spalanca i cancelli. È la più grande di quattro sorelle, tutte lavoratrici, e da quando aveva vent’anni ha sempre lavorato in Mamotex: “All’inizio guadagnavo 70 dinari (30 euro) al mese, poi dopo due anni mi sono specializzata e ho iniziato a prenderne 250 (107 euro), ma ancora erano una miseria se si pensa poi che, pur lavorando il sabato, non mi venivano contabilizzati gli straordinari”. (…)

 

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