“Beirut stories” Se la scuola manca. La sfida per la scolarizzazione di migliaia di bambini siriani profughi – di Maria Camilla Brunetti

 

Lo vedo da lontano, sul marciapiedi davanti a un caffè con tavolini all’aperto, devo chiamarlo un paio di volte perché siamo all’ora di punta, quando si esce dal lavoro e le strade diventano fiumi di service-taxi e pulmini, un incastro di veicoli e fari nel buio. Quando si accorge di me, mi viene incontro sorridente. Il sole è già tramontato a Beirut, le 17 sono passate da poco, siamo ad Achrafieh, quartieri orientali. Entriamo alla Librerie Orientale, una delle più antiche della città. Quando è ora di andarsene trovo Rabi al reparto di didattica per l’infanzia. Sta sfogliando alcuni libri di arabo-inglese, piccoli dizionari illustrati, grammatiche e alfabeti. Ne acquistiamo un paio, poi andiamo a sederci in un bar poco distante.

È di Aleppo e non ha ancora trent’anni. Ha lasciato la Siria e da un anno e mezzo vive a Beirut. È uno dei coordinatori di “Teach for Syria”. Gli chiedo di parlarmi del progetto, di ciò che stanno facendo per le migliaia di bambini siriani che, a quasi tre anni dall’inizio del conflitto, sono privati di qualsiasi educazione scolastica.

«Abbiamo iniziato a lavorare a “Teach for Syria” nel gennaio 2013. Il progetto è portato avanti da un gruppo di volontari di diverse nazionalità. Ciò che facciamo è cercare di dare supporto a tutti i rifugiati, bambini ma anche adulti, che sono in necessità di ricevere un’istruzione e ne sono esclusi. Lavoriamo molto anche con persone adulte che hanno bisogno di scolarizzazione o che ci chiedono di potere imparare l’inglese – per esempio – per avere una possibilità in più di trovare lavoro, ora che sono lontani dal proprio paese e hanno perso tutto. TfS è un network di persone che hanno scelto di impegnarsi mettendo in campo la propria persona, il proprio tempo e le proprie conoscenze. Non si tratta di donazioni di soldi o di oggetti, noi condividiamo esperienze e conoscenze con persone che ne hanno bisogno».

Più di 1 milione e 100mila bambini siriani sono registrati come rifugiati all’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) nel mondo. Rappresentano il 52% dell’intero numero della popolazione di siriani rifugiati, che ora supera i 2 milioni e 200mila.

Una delle più gravi conseguenze del conflitto che sta devastando la Siria da quasi tre anni è che un’intera generazione di bambini, vittima di traumi psicologici e fisici, costretti a vivere in condizioni di pericolo e fragilità estreme, sta crescendo senza ricevere alcuna educazione. Secondo il rapporto The Future of Syria – Refugee Children in Crisis rilasciato da Unhcr a fine novembre 2013, più della metà dei bambini siriani che si trovano a vivere temporaneamente in Libano e in Giordania sono esclusi dalla formazione scolastica. Diversi fattori concorrono a questa bassissima scolarizzazione: la scarsa capacità di accoglienza delle strutture scolastiche nei paesi in cui si trovano a vivere, i costi di scolarizzazione, le spese di trasporto per raggiungere le scuole, problemi di reperimento dei curricula scolastici dalla Siria, a cui si aggiunge l’alta percentuale di casi di minori rifugiati che sono vittima di sfruttamento lavorativo. Il rischio al quale la comunità internazionale non può rimanere indifferente è quello di trovarsi con un’intera generazione di bambini, centinai di migliaia di minori, che cresceranno senza alcuna forma di tutela scolastica.
Le agenzie delle Nazioni Unite e i loro partner locali in collaborazione con i Ministeri dell’Educazione dei paesi che si trovano ad ospitare i profughi siriani sono impegnate da tempo per aumentare le percentuali di bambini all’interno dei sistemi scolastici ufficiali e per migliorare la qualità dell’offerta educativa. Ma in Libano, in Giordania e in Turchia sono diversi anche i gruppi di volontari che stanno lavorando per cercare di fare fronte a questa emergenza assoluta. “Teach for Syria” è una di queste iniziative.

Chiedo a Rabi come sia organizzato, nella pratica, il lavoro di questo gruppo di volontari.

«Monitoriamo il territorio per cercare di raggiungere il più alto numero di persone in stato di marginalità. In Libano si contano più di un milione di siriani, tra registrati all’Unhcr e non. Ci sono zone particolarmente difficili per i rifugiati, come la valle della Bekaa a ridosso del confine siriano, o le zone al nord vicine a Tripoli ma anche a Beirut ci sono casi di emergenza che spesso sono lasciati in totale abbandono. Andiamo di villaggio in villaggio, di quartiere in quartiere. In Libano, come noto, non ci sono campi profughi siriani ufficiali, quindi i nuclei sono disseminati sul territorio e anche solo riuscire a individuare i vari casi può rivelarsi un’operazione estenuante. Parliamo con le famiglie, cerchiamo di capire quanti sono i bambini che non stanno andando a scuola, quelli che vivono per strada. Ci occupiamo di ogni caso cercando di rispondere ai bisogni singoli. “Teach for Syria” ha una pagina e un gruppo facebook attraverso i quali comunichiamo con la nostra rete di volontari e nei quali postiamo di volta in volta gli aggiornamenti e ciò di cui abbiamo bisogno. Per esempio se veniamo a conoscenza di una famiglia i cui cinque figli non stanno andando a scuola postiamo un annuncio sulla pagina chiedendo tra i nostri contatti chi è disponibile ad andare ad insegnare arabo, matematica o inglese a quei bambini. La cosa più importante per noi è che ci sia uno scambio diretto con ogni caso di cui ci occupiamo».

Qualche giorno prima Rabi mi aveva accompagnata a visitare alcune famiglie di rifugiati, tra loro c’erano anche due nuclei familiari di profughi iracheni, che a Beirut e in Libano sono ancora numerosi dal conflitto del 2003. Avevamo trascorso qualche ora con le famiglie e le due madri ci avevano chiesto aiuto perché i figli da due anni non andavano a scuola. Le famiglie non erano più riuscite a pagare i costi delle rate scolastiche, dell’acquisto dei materiali. Una delle due donne, vedova, con due bambini di 6 e 7 anni, ci aveva detto che non poteva permettersi di pagare l’abbonamento dell’autobus che li accompagnava a scuola, in un quartiere alla periferia di Beirut, e quindi i bambini rimanevano a casa con lei; cinque figli in una famiglia e due nell’altra, tutti in età scolare. Un solo bambino tra i sette da settembre frequenta regolarmente, il più piccolo.

«Quel giorno – mi dice – quando sono tornato a casa, ho postato un annuncio sulla bacheca di TfS, chiedendo chi fosse disponibile a dedicare qualche ora del suo tempo a quelle famiglie. Mi ha risposto una ragazza e ora anche quei bambini saranno seguiti».

Dall’inizio del conflitto siriano la richiesta di scolarizzazione in Libano è cresciuta a ritmo inarrestabile. Le strutture scolastiche libanesi, già in forte difficoltà, non riescono a supplire se non in minima parte a questa domanda. Il governo, in collaborazione con diverse Ong internazionali, sta cercando di attuare un secondo ciclo di lezioni pomeridiane, per riuscire ad aumentare il numero di bambini con regolare accesso scolastico – e quindi regolare certificazione – ma i tempi di attuazione sono estenuanti, la macchina burocratica ha costi ingenti e i fondi da parte della comunità internazionale sono insufficienti e stanno diminuendo.

Rabi mi racconta come l’idea di “Teach for Syria” sia nata dalla sua esperienza personale e da quella delle persone impegnate a sostegno dei profughi in Siria, in Turchia e in Libano. «Mi ricordo di questa ragazza italiana che ho conosciuto in Turchia. Ogni due settimane riusciva a portare, da sola, dall’Italia delle medicine fino ai campi profughi a sud – sul confine – e questi medicinali riuscivano poi ad arrivare alla parte siriana dei campi. Penso, per esempio, a una donna di origini siriane che viveva da anni in Canada e allo scoppio della crisi si è trasferita sul confine turco e ha deciso di aprire una scuola lì, per le migliaia di bambini che fuggivano, e non avevano più niente, spesso nemmeno le loro famiglie. Oppure a questo mio amico, che da qualche anno vive in Germania per seguire un Phd che, quando il governo tedesco ha aperto alla possibilità di permesso temporaneo per rifugiati siriani, si è reso disponibile a insegnare la lingua base a chi ne avesse bisogno, così cerchiamo ogni volta uno spazio per rendere possibili le sue lezioni via skype». Di come l’esempio di tante persone impegnate attivamente sul campo lo abbia portato a volere creare un network in cui scambiare contatti, esperienze, modalità operative e progetti futuri. Mi racconta tante altre storie del lavoro in Turchia, nelle zone sul confine siriano – a Gaziantep, a Kilis, a Yayladagi, ad Antakya – dell’impegno quotidiano di gruppi di attivisti che stanno portando avanti lo stesso lavoro per arginare quella che è un’emorragia umanitaria di portata incalcolabile.

«Quello che vorremmo fare è mettere in contatto tutte le iniziative che stanno operando da tempo con lo stesso fine e con una sensibilità vicina. Riuscire a saldare un network di volontari che hanno a cuore la stessa causa e che hanno scelto di impegnarsi in prima persona. Medici, insegnanti, cooperanti, ricercatori, ogni persona che scelga di esserci. Un gruppo che sia messo nelle condizioni di raggiungere un numero sempre maggiore di persone».

Il tempo e la conoscenza sono i beni più preziosi di cui l’essere umano disponga, scegliere di condividerli è il primo atto di umanità. Un impegno proficuo, quotidiano – privato – e proprio per questo necessario. Perché il bisogno di aiuto e lo scambio di conoscenze sono una condizione comune a ogni essere umano. La relazione è bilaterale, non univoca.

«La cosa di cui queste famiglie hanno più bisogno è sapere che c’è qualcuno, in carne e ossa, al quale la loro storia sta a cuore. Qualcuno insieme al quale andare avanti, per uscire dall’abbandono. Costruire il luogo per un incontro, questo è quello che intendiamo».

 

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