“La strategia dell’ignoranza”: Intervista a Claudio La Camera, direttore dell’Osservatorio sulla ‘ndrangheta

di Federica Tourn

L’onuri da famigghia ha manteniri/ figghiuzzu a to patri l’ha vendicari (ninna nanna du malandrineddu)

 

La strategia dell’ignoranza, la chiama. Claudio La Camera, regista teatrale, esperto in cooperazione internazionale e diritti umani e ora direttore dell’Osservatorio sulla ‘ndrangheta di Reggio Calabria definisce così la politica che in Calabria tiene sotto scacco un territorio costretto in un cono d’ombra informativo, lontano dalle cronache – nessun grande quotidiano nazionale ha in questa regione una redazione locale – a tutto vantaggio di una malavita organizzata che non risparmia le istituzioni, la chiesa, le forze dell’ordine, lo stesso “esercito dell’antimafia”. L’Osservatorio è nato nel 2007 (prima come Museo della ‘ndrangheta) come luogo di documentazione, informazione e resistenza attiva contro le mafie; la sede è sulla collina di Croce Valanidi, in una villa confiscata al boss Giovanni Puntorieri, killer del clan Latella catturato nel ’96. Sotto le fondamenta, era già pronto il bunker per l’eventuale latitanza. Dalla finestra del suo ufficio, La Camera vede l’aeroporto e la città fino al mare, un ottimo punto di osservazione e di controllo: “se li sanno scegliere bene i posti”, commenta con un sorriso. A fianco dell’Osservatorio c’è il palazzo dove vivono ancora i Puntorieri: stanno così, mafia e antimafia, uno di fronte all’altro, come normali vicini di casa. “La conoscenza dovrebbe essere la chiave per vincere e invece qui siamo vittime della simulazione, del caos e di perversi meccanismi di negazione – dice La Camera – qualunque cosa fai a Reggio, te la distruggono”.

A che punto è la lotta alla ‘ndrangheta in Calabria?

“Le mafie sono un problema culturale e si inseriscono benissimo nella difficoltà di identità che ha il sud. Il potere mafioso è una strategia del consenso a tutti i livelli. Oggi il sistema criminale è talmente raffinato che non prevede la presenza di attori in posizione dominante: trovi la cosca, la grande impresa, le istituzioni corrotte, i professionisti e la società civile, tutti giocano una geometria variabile. Quarant’anni fa era il mafioso che faceva accordi e stabiliva cosa doveva fare il politico, come per la costruzione della Salerno-Reggio Calabria, quando gli amministratori andavano a trovare i capibastone per i lavori da fare. Ora c’è piuttosto un tacito consenso, non è necessario che il primo passo lo faccia il mafioso, può capitare che sia l’economia stessa ad ‘assumere’ la criminalità organizzata”.

Come si reagisce?

“Il problema è che i magistrati fotografano la realtà con uno scarto di tempo eccessivo – 8 10 anni- rispetto alla realtà, che nel frattempo è ovviamente cambiata. Gli studi di settore sono pochissimi e resta soltanto chi lavora sul territorio, un esercito un tempo glorioso che ha smarrito il rapporto con il campo base”.

L’arresto dell’ex sindaca Girasole e dell’imprenditrice Rosy Canale, simboli della lotta alla ‘ndrangheta, sono stati un duro colpo per l’immagine dell’antimafia in Calabria.

“Ho visto arrestare politici, magistrati e innocenti; la coscienza civile è sporcata da un’altissima conflittualità sociale, che spiega anche la frammentazione dei movimenti antimafia. Oggi siamo di fronte al tentativo di confondere il linguaggio dell’antimafia, a tutto beneficio delle cosche. C’è una profonda incapacità di fare rete e costruire relazioni fra settori diversi. Il problema non è chi ti spara addosso, quelli sai chi sono; quelli da cui ti devi guardare davvero invece non li conosci, magari stanno dentro le stesse istituzioni a cui ti rivolgi per avere giustizia. Io sono un rappresentante della società civile che fa antimafia, dovrei trovare sostegno nelle istituzioni, invece rischio di farmi nemici o persino di farmi arrestare se provo a denunciare l’illegalità. Come dicono in Vaticano: meglio che ti ammazzi tu prima che ti ammazzino gli altri. Di fatto lavoriamo sull’emergenza. Se ti muovi e provi a cambiare qualcosa dai fastidio, non alla ‘ndrangheta ma a tutti questi settori – chiesa, istituzioni, forze dell’ordine – che hanno una visione particolaristica legata a quello che fanno. Prendi per esempio il gioco d’azzardo: noto che a Reggio c’è un proliferare di slot ma nessuno fa niente, allora decido di censire queste attività per saperne di più. Faccio ben 92 visure camerali sui proprietari di queste macchine e scopro che almeno due sono gestite direttamente dalla ‘ndrangheta; a questo punto prendo la documentazione e la porto al questore, vado nelle scuole, apro spazi di discussione. Mi faccio notare, insomma, ed è proprio questa visibilità che finisce per giocare a mio sfavore, a far sì che la gente mi guardi con diffidenza. Ci guadagnerei di più a stare zitto; poi vedo fuori dalla finestra che uno alza un piano abusivo sulla sua casa e che faccio, non lo denuncio?”.

Nonostante gli arresti e le denunce, al Santuario di Polsi ogni anno continuano a ritrovarsi i vertici della ‘ndrangheta. La pervasività della presenza mafiosa ha trasformato il territorio in modo definitivo o c’è speranza di riscatto?

“A Polsi si cristallizza una cultura. I riti di affiliazione ancora oggi costituiscono un sistema valoriale fortissimo per una terra che non ha altri riferimenti; lo si vede anche dal successo dei cantanti di malavita: inneggiano alla mafia e ogni estate fanno concerti con cinquemila persone. E’ un grande, tragico fumetto alimentato da una politica istituzionale sbagliata che qui non investe: non ci sono centri sportivi, biblioteche, luoghi di aggregazione. Dietro tutto questo c’è una regia, perché sappiamo che per vincere le elezioni in Italia bastano tre regioni, Sicilia, Campania e Calabria, e quindi ai mafiosi fa comodo il controllo sociale se non addirittura una vera e propria asfissia del territorio. In più non c’è ricambio generazionale: dalla Calabria sono emigrati in tantissimi in questi anni, tutti giovani, siamo tornati ad un indice di crescita dell’inizio del secolo scorso, quando c’era il colera: come allora, oggi i morti superano i vivi. E’ vero che è lo Stato ad avere le maggiori responsabilità ma a dirlo rischiamo di dare ragione a quei meridionalisti che raccontano il sud come vittima dell’assenza dello Stato e che alla fine dipingono la ‘ndrangheta come il riscatto di un territorio abbandonato a se stesso. Ma chi glielo spiega ai bambini che si sono visti portare via il padre dai carabinieri che i rappresentanti dello Stato sono diversi da quelli che li ammazzano sotto casa? Questo è il vero dramma”.

La presenza e il lavoro dell’Osservatorio hanno dato un segnale diverso?

“Noi andiamo avanti ma lottiamo contro un virus che in qualche modo ci contamina tutti; siamo come quei soldati costretti a indossare le divise dei morti nella Peste di Malaparte. Questa è una terra di nessuno. Le faccio un esempio: ci affidano il bene confiscato per il nostro progetto, io chiamo per benedire l’edificio don Antonino Vinci, il prete della zona, e lui entra nel panico perché i mafiosi sono i suoi fedeli, con loro fa le processioni, arrivando a dire in un’intervista che gli sembra ingiusto che tolgano la casa a Puntorieri, che pure è condannato all’ergastolo. Il prete è ancora nella sua parrocchia: se c’è il boss lui inizia la messa, se no aspetta. In cinque anni qui non è cambiato niente”.

 

 

 

 

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