Rebibbia, l’atroce dubbio delle mamme carcerate – di Stefano Liberti, foto di Riccardo Venturi

Alissia guarda fuori dalla finestra e ha un singhiozzo improvviso: “Sono quasi due settimane che non vedo mia figlia. Mi manca da morire. Ora sta con la famiglia del mio ex marito”.  Ventisette anni compiuti da poco, questa ragazza rom di origine kosovara non è una moglie separata, ma una detenuta della “sezione nido” del penitenziario di Rebibbia. Ovvero, il reparto delle mamme carcerate: celle da sette con culle e lettini; una stanza in comune con i giochi; una cucina dotata di scalda-biberon e un frigo pieno di pappette. Alissia vive in una di queste camerate con la piccola Miriana – due anni e mezzo – e altre sette madri con “prole a seguito”. In tutto sono quindici, ma il numero cambia in continuazione: alcune vengono trasferite, altre arrivano, altre ancora rinunciano ad avere i figli accanto in cella e sono mandate nella sezione femminile “ordinaria”. (…)

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