“Il buon fotoreporter dimentica il suo ego e apre il cuore agli altri” – Intervista a Marco Di Lauro

di Mauro Guglielminotti

Puoi parlarci della tua esperienza in Getty Images come fotoreporter (di guerra), cosa vuol dire lavorare per una struttura come Getty Images/Reportage e cosa ne pensi della campagna di Aidan Sullivan Adwn (“A day without news”) finalizzata a sensibilizzare sui rischi del fotogiornalismo di guerra?

Lavorare per una grande agenzia internazionale come Getty Images garantisce un supporto formativo, logistico e finanziario non indifferente. C’è una parola che può descrivere questa esperienza, ed è “team”: lavorando in team, ad esempio, si può fare affidamento sulla preziosa esperienza di persone che, nel corso degli anni, hanno inviato, supportato e gestito decine di fotografi alle prese con situazioni difficili. La decisione di partire e di andare a documentare un conflitto appartiene sempre alla sfera delle scelte personali di ciascun fotografo, ma viene condivisa a vari livelli all’interno dell’agenzia la quale decide quali “forze mettere in campo”, sulla base anche delle esperienze di chi ha già documentato lo stesso conflitto e, in caso di necessità, ricorrendo a servizi di outsourcing esterni che provvedono alla raccolta delle informazioni necessarie a garantire la sicurezza del fotografo. Una volta sul campo si è in contatto costante e quotidiano con un editor dedicato che monitora la situazione e la posizione del fotografo anche di ora in ora, se necessario. Inoltre si hanno a disposizione risorse finanziarie che permettono di avvalersi dei più validi fixer in circolazione, di utilizzare le migliori attrezzature e mezzi di trasporto disponibili, di usufruire di medevac (team specializzati nel soccorso, spesso tramite elicottero, di professionisti che si trovano in situazioni di alta criticità) efficienti e di team di soccorso pronti ad “estrarre” il fotografo da situazioni “senza ritorno” che difficilmente un giovane free lance potrebbe risolvere da solo.

Dal 1995, anno della sua fondazione, Getty Images ha perso un solo fotografo e non ha mai avuto feriti gravi, al contrario di molte altre agenzie: credo che uno dei motivi siano proprio gli elevati standard di sicurezza a cui si affida. Bisogna dire anche che, dalla morte di Chris Hondros in Libia nell’aprile 2011, gli standard sono divenuti ancor più rigidi. Difficilmente a un fotografo senza esperienza specifica viene permesso di documentare un conflitto, mentre ogni fotoreporter impegnato in situazioni di questo tipo viene sottoposto obbligatoriamente ad un training annuale dove apprende nozioni di risk management e primo soccorso. È capitato anche di non poter partire sentendomi dire “è troppo pericoloso, non saremmo in grado di garantirti un’assistenza adeguata ai nostri standard”.

Ci racconti qualche momento di difficoltà e paura nel corso della tua esperienza come fotoreporter? Ricollegandoci alla campagna Adwn, puoi raccontarci di come Getty Images supporta i propri fotografi e quali sono i requisiti richiesti?

Marco Di Lauro_profiloNel corso degli anni ho documentato il Kosovo, l’Afghanistan, l’Iraq, il conflitto Israelo-Palestinese oltre a diverse guerre civili in paesi Africani: mi sono sentito in pericolo centinaia di volte, ma l’episodio che più mi ha messo alla prova è stata la battaglia per la conquista di Fallujah in Iraq. Sono arrivato il 28 ottobre 2004 a Camp Fallujah, una delle più grandi basi militari americane in Iraq a sette chilometri da Fallujah, la roccaforte della guerriglia in Iraq, ma ho alloggiato nel campo limitrofo, Camp Owens. Insieme a me c’erano due battaglioni dei marines arrivati dalle Hawaii: circa 1700 soldati dai 18 ai 24 anni, quasi tutti alla loro prima esperienza in guerra. Li ho seguiti durante i preparativi per l’attacco e li ho visti allenarsi, dormire, mangiare, pregare e cambiare man mano che il giorno dell’attacco si avvicinava. È stato straordinario osservare questi ragazzoni muscolosi ma al tempo stesso fragili e inconsapevoli e vedere nei loro occhi i miei stessi sentimenti: paura e incertezza rispetto a cosa sarebbe successo, come sarebbe stato e se saremmo sopravvissuti. Di quell’esperienza ricorderò sempre il discorso di benvenuto del generale dei marines ai giornalisti e fotografi appena arrivati: “Benvenuti, siete qui per una delle battaglie più importanti della storia dei marines dopo il Vietnam e la presa di Kuwait City. Voglio che sappiate che alcuni di voi non torneranno a casa ma vi promettiamo che nessuno sarà lasciato sul campo: i vostri corpi saranno riportati alla base ad ogni costo e non ci saranno prigionieri di guerra”. Mi si è gelato il sangue, ero atterrito. Il giorno previsto per la battaglia fummo caricati di notte da alcuni mezzi anfibi d’assalto, che dovevano portarci fino a quello che i marines chiamavano “il ponte”, una barriera di detriti costruita dai guerriglieri per ostruire uno degli accessi alla città. C’erano degli ingegneri che avrebbero dovuto farlo saltare in aria, ma fallirono e i mezzi anfibi ci scaricarono nel punto sbagliato, troppo lontano dal “ponte”, lasciandoci allo scoperto. Quando scesi dal mezzo aveva iniziato a piovere, il cielo brillava di esplosioni di ogni tipo e i guerriglieri avevano iniziato a spararci addosso. Fummo costretti a strisciare nel fango per circa tre ore: fu lì che mi chiesi cosa stessi facendo e perché non avessi aspettato la mattina successiva per entrare a Fallujah. Ma aspettare il mattino dopo significava correre il rischio di non entrare in città e perdere una parte fondamentale della storia. Durante quelle ore e i giorni che seguirono vidi e vissi ogni tipo di situazione. Vidi gli stessi ragazzi che avevo fotografato durante gli allenamenti morire intorno a me feriti da colpi di mortaio, vidi la disperazione e l’orrore della guerra.

Qual è il lavoro che hai amato di più tra tutti quelli che hai fatto? Quello più difficile?

MDL_WAR & RELIGION010_Tyre, Lebanon - July 23, 2006Ogni lavoro può essere difficile a seconda della situazione in cui ti trovi a farlo. In base alla mia esperienza posso dire che più tempo si passa in un luogo specifico documentandone atrocità ed uccisioni,  più il bagaglio emozionale ed emotivo diventa difficile da elaborare mentalmente e probabilmente anche l’amore per quella storia va di pari passo con la quantità di tempo e la profondità con cui è stata analizzata. Uno dei lavori più difficili e che più ho amato è stato sicuramente è quello che ho svolto durante il periodo passato in Iraq dal 2003 al 2005. Lì raccontavo e documentavo la condizione del popolo iracheno e le operazioni militari americane sul territorio e lo facevo quotidianamente. Lì mi sono trovato in situazioni con pochissimo margine di manovra e dove credo di essere sopravvissuto solo per miracolo. Alla fine di quei tre anni avevo accumulato così tanto stress emotivo, che si traduceva anche in tic nervosi, che ho dovuto prendermi una lunga pausa per elaborare tutte le emozioni che avevo vissuto e tutto il dolore che avevo visto.

Che autonomia hai lavorando per una grande agenzia?

U.S Marines transition towards aid operations in FallujaQuella dell’autonomia è una questione che si presta ad essere interpretata in modi molto diversi. Io di sicuro non ho l’autonomia che avrei se fossi un freelance che si muove da solo:  quando lavori in team è diverso perché devi, anche se in minima parte, rendere conto dell’operato del tuo lavoro alle persone con cui lavori. In questo caso, tuttavia, non credo sia corretto parlare di autonomia o non autonomia perché io so che quelle persone sono lì per aiutarmi, supportarmi e proteggermi e non per “sottrarmi autonomia”. Io mi ritengo totalmente autonomo e, quando non lo sono, è perché mi fido ciecamente dei miei editor di riferimento in Getty Images. Se io decidessi di andare autonomamente in Siria e loro dovessero sconsigliarmelo, io molto probabilmente li ascolterei perché quello che mi lega a loro è un rapporto di grande fiducia e rispetto.

Qual è il tuo rapporto con i giornalisti «della carta stampata»?

La maggior parte del mio lavoro si svolge a stretto contatto con i giornalisti della carta stampata, dal momento che, nella maggior parte dei casi, i committenti sono quelle venti testate per cui lavoro abitualmente. Mentre lavoro sono sempre insieme ad un giornalista e il mio compito è quello di illustrare e documentare la sua storia e la storia che il suo giornale ha commissionato a me e per trasformare in immagini la sua idea e la visione del photoeditor. Normalmente, a parte il tema preassegnato, ho la completa libertà su come illustrare e rendere per immagini la storia. Ho un ottimo rapporto di stima e rispetto per i giornalisti della carta stampata. Alcuni dei miei più cari amici sono proprio i giornalisti con cui ho lavorato in questi anni.

Cosa pensi delle nuove leve di fotogiornalisti?

Penso che negli ultimi anni e soprattutto in Italia, abbiamo assistito alla nascita di nuove leve di grandissimo talento e professionalità, forse un po’ troppo attratte dal “sogno della fotografia di guerra” ma in grado di documentarla con grande coraggio e sensibilità. Credo che l’avvento del digitale abbia reso la nostra professione più accessibile a molti, ma al tempo stesso, purtroppo, solo pochi arrivano a lavorare a un certo livello perché il mercato offre sempre minori opportunità. La domanda supera l’offerta come in molti altri settori e il crescente numero di fotografi di talento deve fare i conti con minori opportunità di lavoro.

Che consigli daresti ai giovani che vogliono intraprendere la carriera di fotoreporter?

Al Musayyib mass graveDocumentatevi, studiate, fate ricerca, siate pazienti, umili, sensibili, sognatori, mettete da parte il vostro ego, le vostre paure, i pregiudizi e le convenzioni sociali. Aprite il vostro cuore agli altri, parlate, comunicate e soprattutto ascoltate prima di fotografare. Le immagini di un fotogiornalista non sono mai solo il risultato della tecnica, ma anche del suo background culturale, sociale ed emotivo.

 

 

photo credits: Marco Di Lauro/ Reportage by Getty Images

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