La casa di pietra. Memorie di una casa, di una famiglia e di un Medio Oriente perduto – di Anthony Shadid

 – di Maria Camilla Brunetti.

La casa di pietra. Memorie di una casa, di una famiglia e di un Medio Oriente perduto, pubblicato postumo da Houghton Mifflin Harcourt e ora riproposto, per i lettori italiani con traduzione di Stefania Rega, da Add editore, è l’ultima testimonianza del grande reporter americano Anthony Shadid. È il racconto della sua storia, della storia della sua famiglia, partendo dall’antica casa abbandonata di Marjayoun – piccolo villaggio del Libano che fu crocevia tra Siria, Palestina ed Egitto – dal quale la sua famiglia emigrò per raggiungere gli Stati Uniti, dopo la dissoluzione dell’impero ottomano. La casa è l’identità, un giornalista lo sa bene, per questo nel 2006 durante l’offensiva israeliana sul Libano, Shadid decide di tornare in quei luoghi e di riportare alla vita quelle stanze che il bisnonno Isber aveva dovuto lasciare. Quella che si compie in queste pagine è una ricognizione profonda delle ragioni di una storia privata e con esse di una terra tormentata e del suo popolo. Di quel Medio Oriente che così bene conosceva e che a lungo aveva indagato, interrogato, cercato di comprendere, raccontato. Quella terra che gli diede e che gli tolse la vita.

Anthony Shadid muore il 16 febbraio 2012 mentre copre per il NY Times i giorni più sanguinosi delle rivolte in Siria. Aveva 43 anni. Il suo corpo senza vita viene trasportato, oltre il confine con la Turchia, da Tyler Hicks, il fotoreporter che lavorava al suo fianco.

30 luglio 2006

“Piano, piano. In quelle voci mi sembrava di risentire tutte le persone che, nel corso degli anni, avevo visto perdere la propria casa. Certe sofferenze non si possono raccontare con le parole. Era diventato il mio scotto quotidiano da quando facevo il reporter in Medio Oriente per documentare la guerra, i suoi sopravvissuti e suoi morti, e i tanti che sembravano un po’ gli uni e un po’ gli altri. Nella città libanese di Qana, dove le bombe israeliane sorpresero le loro vittime nel bel mezzo delle occupazioni del mattino, vedemmo i morti in piedi, seduti, che si guardavano intorno. La città, con le sue voci e le sue storie, piatti e scodelle, lettere e parole, con il suo passato, era stata annientata nei pochi lunghissimi istanti che avevano sbriciolato una mattinata. … Nel Medio Oriente la prima lezione è sul significato del silenzio. Nel mio silenzio c’era la mia famiglia, pensiero costante fin dall’inizio di questa guerra”.

Vincitore di due premi Pulitzer, nel 2004 coprendo per il Washington Post l’invasione Americana in Iraq e poi ancora nel 2010 sempre per il Post raccontando gli sviluppi di quell’occupazione, Anthony Shadid dal dicembre 2009 era inviato in esclusiva dal medio oriente per il Times. Nato a Oklahoma City nel 1968 in una famiglia cristiana libanese, era uno dei massimi esperti internazionali di politica medio-orientale. Reporter intrepido, dalla splendida prosa, profondo e sofisticato conoscitore delle dinamiche interne del Medio Oriente, molto vicino alla sensibilità della popolazione civile ma allo stesso tempo acuto osservatore e inestimabile interprete dei delicati equilibri agli alti vertici dei poteri iracheni, siriani, libanesi, egiziani, libici. Abituato a lavorare in zone di conflitto, come giornalista aveva preso rischi enormi. Era in prima linea, al fianco della popolazione in primo luogo. Conosceva la storia dal basso, erano anche sue quelle terre, la sua gente era fuggita da lì. Il legame non era mai stato reciso, parlava un arabo quasi perfetto. Nel 2002, come corrispondente per il Boston Globe, era stato ferito gravemente a Ramallah, nei territori israeliani occupati della striscia di Gaza. Nel 2011 in Libia, era stato arrestato e trattenuto dalla milizia pro-governativa di Muhammar el- Qaddafi, insieme ad altri due giornalisti del Times. Testimoniarono di atroci violenze psicologiche e fisiche, il loro autista in quell’episodio perse la vita. Braccato e pedinato dalla polizia di Mubarak durante la rivolta del Cairo, fu costretto a nascondere i computer sui quali lavorava. Durante l’ultima guerra in Siria, la sua famiglia fu minacciata a più riprese dagli agenti siriani di stanza in Libano ma questo non gli impedì di raggiungere nuovamente il confine siriano per essere vicino ai ribelli che sfidavano proiettili e torture pur di tornare in piazza e resistere. Al momento della sua morte Anthony Shadid stava coprendo ancora il conflitto siriano, ottenendo informazioni dal Free Syrian Army e da altri membri della resistenza contro il regime di Bashar al-Assad. Quell’ultima volta, per valicare il confine montuoso tra Turchia a Siria, Hicks e Shadid furono costretti a viaggiare di notte, sotto copertura, per riuscire a raggiungere la guida che, a dorso di cavallo, li avrebbe accompagnati dall’altra parte. Fu presumibilmente proprio questo dettaglio, una grave allergia al pelo dei cavalli, la causa del violento attacco d’asma che gli fu fatale.

Così si apre La casa di pietra.

“La lingua araba si è evoluta piano piano nel corso dei millenni, lasciando poco di indefinito, nessuna sfumatura trascurata. Bayt significa letteralmente casa, ma le sue connotazioni vanno oltre le stanze e le pareti, evocano desideri raccolti intorno alla famiglia e al luogo abitato. Nel Medio Oriente la Bayt è sacra. Gli imperi cadono. Le nazioni crollano. I confini possono essere cancellati o spostati. Antichi vincoli di fedeltà possono dissolversi o, senza preavviso, modificarsi. La casa, vale a dire la struttura fisica o l’idea di famiglia è, in sostanza, l’identità che non sbiadisce”.

 

 

La casa di pietra – Anthony Shadid (Add editore)
traduzione di Stefania Rega.

 

 

 

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