Bashiqa, l’ultima battaglia di Ajlin – di Ilaria Romano

Ajlin è morta per un colpo di mortaio. Non aveva un giubbotto antiproiettile né un elmetto che forse l’avrebbe salvata da un buco in testa. Forse, non lo sapremo mai. Quello che sappiamo è che aveva vent’anni e dal Rojhilat, il Kurdistan orientale d’Iran, era arrivata a Bashiqa per la battaglia finale, quella della riconquista della città, già circondata dai peshmerga due settimane fa. Aveva scelto di lasciare la facoltà di architettura per arruolarsi da volontaria e andare a combattere per il suo paese – il Kurdistan, non l’Iraq, né l’Iran – contro lo Stato Islamico. Faceva parte dell’unità del Pak, Parti azadi Kurdistan (Kurdistan freedom party) stanziata nella base di Bashiqa Mountain, con un altro centinaio di compagni, tutti giovanissimi, ragazzi e ragazze. L’offensiva era cominciata da poche ore: prima i mezzi pesanti, entrati all’alba in città, poi l’avanzata, lenta, a piedi, i metri di roccia dalle pendici della montagna fin giù, al centro abitato, guadagnati passo dopo passo, per piccoli gruppi.

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Quando hanno messo la prima bandiera tricolore con il sole a ventuno punte sul tetto di una casa della prima periferia di Bashiqa lei non c’era più. L’avevano riportata alla base già priva di sensi prendendola per le braccia e le gambe, trascinandosi in gruppo, fra peshmerga e fotoreporter, sfidando la fatica di una salita ripida nella speranza di guadagnare qualche minuto prezioso e salvarle la vita.
L’ultimo tratto di strada l’ha fatto avvolta in una coperta gialla usata come barella. Perché qui sulla montagna non esiste un corridoio di soccorso e anche con un ferito sulla schiena non c’è altro modo di tornare indietro se non quello di attraversare cumuli di terra, che franano sotto il peso dei passi, ridiscendere dentro ai fossati, e risalire ancora. È una sfida fra la vita e la morte che lascia poche speranze.

Quando Ajlin è morta le sue compagne non hanno avuto nemmeno il tempo di piangerla perché non potevano abbandonare le postazioni. Dieci minuti prima bevevano il tè, insieme, nella base, prima di oltrepassare la linea di sicurezza fatta di mattoni e sacchi di sabbia e posizionarsi dietro quella maledetta curva sulla strada di montagna. Selima era la sua migliore amica e mostra la bandiera del Kurdistan dipinta sulla guancia. “Me l’ha disegnata Ajlin prima dell’offensiva – racconta – abbiamo sempre fatto tutto insieme da quando eravamo piccole. Stesse scuole, stessa università, stessa scelta di venire qui a combattere”. Mentre parla dell’amica che ha appena perso non versa una lacrima, ma imbraccia il fucile e dice che tutte loro sanno perfettamente a cosa vanno incontro, perché lo hanno scelto, e che ogni giorno trascorso in missione è un’esperienza impagabile. Anche se si rischia la vita, non c’è acqua per lavarsi e tutti i pasti che si consumano sono a base di pane secco e sardine in scatola. Non piange nemmeno quando l’altra compagna comincia a singhiozzare durante il pranzo, consumato nella loro stanza, appena due ore dopo. Le dice in curdo di farsi forza, quasi la sgrida per questo momento di debolezza. Un’altra di loro si addormenta con la testa su un borsone, in mezzo alle briciole di pane e all’olio delle sardine consumate sulle coperte del loro giaciglio. Selima prende una giacca e la copre, poi le sistema le gambe per farla stare più comoda. Venti minuti dopo la pausa è finita, tornano tutte sulla linea del fronte.

Il generale Stalin, come lo chiamano qui per via dei suoi folti baffi, decide di non riportarle con sé in prima linea, scende giù per la montagna con un altro piccolo gruppo, a presidiare le curve che portano al centro abitato, dove si spara ancora. L’estremo avamposto peshmerga prima di Bashiqa è a pochi metri dalla città, ma l’ultimo tratto di strada è quello più pericoloso da fare a piedi, non solo per via dei cecchini che dalla moschea poco lontana puntano verso le pendici della montagna, ma anche perché quel tratto di asfalto è costellato di mortai inesplosi e poco più avanti da mine posizionate dai daesh prima dell’offensiva.

“Stamattina sono sbucati fuori da questo tunnel – racconta un soldato – è stato difficile fermarli, perché qui hanno scavato ovunque, per coglierci di sorpresa”.
Un documentarista che è arrivato fin qui, percorrendo tutta la montagna, fa volare il suo drone munito di telecamera per riprendere la città dall’alto. Pochi minuti dopo si scatena la rappresaglia dal basso. La strada diventa impossibile da percorrere al contrario, per risalire verso la base, per circa un’ora di spari diretti contro quel piccolo casolare semidiroccato dove si sono posizionati i peshmerga. Poi la situazione si placa, ma resta il cecchino in azione. Nel frattempo in città continuano i combattimenti, ma ormai l’ultimo fronte peshmerga è quasi preso, questione di ore. È l’ultima battaglia per l’esercito curdo, che nel giro di tre giorni ha liberato la città, spostando la nostra attenzione, anche se solo per poche ore, da Mosul e dalle operazioni della Golden division irachena.

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