Picture an Arab man. Intervista a Tamara Abdul Hadi – di Maria Camilla Brunetti

Diverso tempo fa mi capitò di vedere un progetto fotografico che mi colpì in modo inusuale. Per la scelta del tema trattato e soprattutto per la sensibilità con cui questo tema riusciva ad arrivare a noi.

Sto parlando di Picture an Arab man della fotografa canadese-irachena Tamara Abdul Hadi.

Iniziato nel 2009, il lavoro consiste in una serie di ritratti a uomini arabi; uno sguardo intimo in grado di restituirne la delicatezza e la sensualità. Una riflessione profonda che riesce a indagare gli stereotipi attraverso i quali i media occidentali rappresentano, ripercorrendo all’infinito certe prassi orientaliste, la mascolinità araba. Prevaricatrice, retrograda, in posizione di dominanza rispetto al femminile. Senza interesse alcuno alla molteplicità, alla complessità di visione, all’eterogeneità.

Lo sguardo di Tamara Abdul Hadi ci porta in un terreno visivo altro, importante e necessario perché in grado di svelare le complessità di ciò che è più profondo e più sofisticato dell’immediatamente visivo. C’è un altro lavoro di Abdul Hadi che ho trovato di particolare evocazione narrativa: the Flying boys, una serie di ritratti a giovani uomini che si tuffano nel mare di Beirut e in quello di Acri, in Palestina, città geograficamente divise da soli 120 km di distanza ma che rappresentano anche le estreme complessità della geografia Mediorientale.

Recentemente ho avuto modo di parlare di questi e di altri progetti insieme a Tamara. Dell’ispirazione che la guida nei suoi lavori e dell’approccio con cui affronta i temi della sua ricerca.

Nei tuoi progetti fotografici dedichi molta attenzione alla rappresentazione e all’auto-rappresentazione di comunità poco documentate. Una ricerca che sembra interessata alla decostruzione degli stereotipi occidentali che sempre di più descrivono il mondo arabo e gli arabi. Sto pensando a Self-portraits from inside Palestine e Picture an arab man. Come è nata l’idea di questi due progetti e come hai organizzato il lavoro per realizzarli?

Nel 2008 fotografai un giovane uomo palestinese a Dubai. Mi colpì la sua gentilezza e la delicatezza di quelle immagini. Allora pensai dentro di me “perché non abbiamo un libro, per esempio, che sfidi lo stereotipo sugli uomini arabi e che celebri la loro bellezza”? Fu in quel momento che decisi di iniziare questo progetto. Ritratti di giovani uomini arabi che, in primo luogo e soprattutto, descrivessero la loro umanità.
Questo progetto è stato ispirato da mio padre, dai miei zii, dai miei fratelli e dai miei amici.
La realizzazione del lavoro è stata un’esperienza molto gratificante, ogni uomo che ho fotografato ha creduto nell’idea alla base del progetto e proprio per questo motivo ha voluto esserne parte.

Il progetto Self-portraits from inside Palestine interroga l’idea di rappresentazione delle persone, in questo caso dei palestinesi internally displaced.
Mentre ero in Palestina nel 2010-2011, mi sono fatta delle domande su quale fosse il mio compito come fotografa, che cosa mi desse il diritto di rappresentare queste persone attraverso il mio sguardo. Così ho deciso di abbandonare questo potere e ho suggerito alle persone con cui venivo in contatto che fossero loro a fotografare loro stessi, dandogli così la scelta su come volessero rappresentarsi attraverso il medium della fotografia.

Questo progetto è stato un grande successo soprattutto per via della sua natura interattiva e perché incoraggia le persone a immaginare se stessi in maniera fervida e ricca attraverso il proprio stesso sguardo.

I tuoi genitori sono iracheni, tu sei nata negli Emirati Arabi Uniti, sei cresciuta e ti sei formata in Canada e hai vissuto negli ultimi anni in diverse città in Medio Oriente. In che modo il tuo background e le tue esperienze hanno formato la tua idea sugli stereotipi con cui l’Occidente osserva il mondo arabo?

Credo che la mia risposta sia già all’interno della tua domanda

Giustamente… Mi piacerebbe tornare un attimo a Picture an arab man. Il discorso occidentale sui rapporti tra i generi nel mondo arabo è spesso relegato a una disamina che ha come fulcro la donna e non sembra esserci un vero spazio per dialoghi che vadano oltre l’immagine congelata di un universo in cui le donne sono invisibili o comunque sottomesse e gli uomini sono prevaricatori che relegano le loro mogli, fidanzate, sorelle, figlie a ruoli marginali o subordinati. Il tuo lavoro è una decostruzione profonda di questi stereotipi. Quale è stata la reazione a Picture an arab man e che tipo di legame si è instaurato nel tempo con i ragazzi che hai ritratto? Credo che anche per loro questo progetto sia stato un modo per riflettere sulla loro identità e una possibilità di mostrare un aspetto più intimo della loro mascolinità.

La reazione al progetto è stata incredibilmente positiva. Dopo essere riuscita a finanziarlo con un crawdfunding sono partita per il Nord Africa. Ho incontrato e ho fotografato uomini che hanno creduto molto nell’idea che sostiene il lavoro e volevano esserne parte. Nella maggior parte dei casi, quando ho mostrato le immagini finali, la reazione è stata “non mi ero mai visto in questo modo”. Credo che la delicatezza che ho cercato di raggiungere con questi ritratti metta in discussione non solo il modo in cui gli uomini arabi vengono stereotipati, ma anche in qualche occasione, il modo in cui loro stessi si vedono. Fino ad ora ho mostrato questo lavoro In Europa, Canada, Stati Uniti e in diversi Paesi in Medio Oriente e le reazioni sono sempre state piuttosto positive.

Flying boys è un progetto in collaborazione con tua sorella Sundus Abdul Hadi, pittrice e artista multimediale. Puoi dirci qualcosa in più su questo lavoro e sulle forme di questa collaborazione?

Io e mia sorella siamo costantemente inspirate l’una dal lavoro dell’altra. Nel 2007 ho iniziato a documentare giovani uomini che si tuffavano in mare a Beirut e poi ho continuato con uomini che facevano la stessa cosa in Palestina. Mia sorella è una pittrice e un’artista multimediale e collaboriamo a questo progetto che si chiama The Flying series in cui lei usa le mie immagini tratte da The Flying boys e ri-immagina questi ragazzi attraverso il suo lavoro. Volare sopra i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa.

Tu sei una delle fondatrici di Rawiya, un collettivo che comprende cinque fotografe che si occupano e che sono basate soprattutto in Medio Oriente. Fai anche parte di The medium una piattaforma multimediale che comprende artisti, scrittori, musicisti, fumettisti, drammaturghi. Ci puoi raccontare un po’ di questi due progetti collettivi? Qual è l’urgenza di questa scelta e come si è sviluppato il lavoro negli anni?

Ho co-fondato Rawiya, un collettivo di cinque donne fotografe che lavorano in Medio Oriente, perché c’è una forza nel numero e volevamo fondare un gruppo dove non solo avremmo unito le forze, dal momento che condividiamo una stessa visione – uno stesso approccio – rispetto al lavoro, ma anche per creare una piattaforma in modo da dare spazio al lavoro di giovani fotografi della Regione.

The Medium è un collettivo che comprende artisti multimediali basati in diverse parti del mondo. Molti di noi avevano già lavorato insieme prima di fondare il collettivo e crediamo che collaborare produca ispirazione e creatività. Il mondo dell’arte è un ambiente estremamente competitivo e noi vogliamo lavorare insieme e insieme crescere in modo creativo.

In quanto irachena e in quanto fotografa qual è la tua visione in relazione a come il mondo arabo, coloro che lavorano sulla costruzione dell’immaginario, stiano riflettendo in merito a una narrativa di identità? Ci sono progetti che ti hanno ispirato, che continuano a ispirarti, in questo senso? Artisti, scrittori, attivisti, fotografi, persone la ricerca dei quali è stata o è particolarmente significativa per te?

Ce ne sono molti. Il lavoro di mia sorella Sundus Abdul Hadi, quello di molti dei miei colleghi artisti di The Medium. Mia madre Sawsan Al Sarraf è un’artista multimediale e attraverso il suo lavoro sta sovvertendo molti degli stereotipi di cui abbiamo parlato. Mio padre Taghlib Abdul Hadi è un architetto e sta portando avanti una campagna per la preservazione del patrimonio artistico iracheno. Ahmad Mousa è un giovane fotografo che sta mostrando l’Iraq in una luce molto diversa da quella che solitamente appare nei media mainstream. Sono costantemente inspirata dai tanti artisti, fotografi, scrittori, musicisti, disegnatori che stanno facendo lavori interessanti in Medio Oriente.

 

photo credit/Tamara Abdul Hadi

Photo- Self Portraits from Inside Palestine Taken by subject in Ramallah, Palestine 2011

Photo- Self Portraits from Inside Palestine
Taken by subject in Ramallah, Palestine
2011

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