“Osservatorio” – I casi di femminicidio in Italia continuano a salire.

– di Maria Camilla Brunetti.

Nel n. 11 di Reportage (luglio-settembre 2012) ci siamo occupati di femminicidio in Italia, di violenza sulle donne, delle matrici culturali e sociali di questo fenomeno. Sono 98 ad oggi, dall’inizio del 2012, le donne che in Italia sono state uccise per mano degli uomini a loro più vicini. L’ultimo, tragico, caso di aggressione è quello che ha portato alla morte di Carmela Petrucci, uccisa perché il suo corpo ha fatto da scudo a quello della sorella Lucia, che veniva aggredita dall’ex-fidanzato. Carmela è morta per le coltellate ricevute, aveva 17 anni. In attesa del 25 novembre, la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, abbiamo deciso di dedicare questo approfondimento al lavoro di coloro che da anni  si occupano di donne vittime di violenza, anche per comprendere le lacerazioni che tutto questo determina nel privato e nella società.

Ho conosciuto Antonella Petricone, operatrice antiviolenza della cooperativa Be free (www.befreecooperativa.org), che da anni si occupa di antiviolenza in Italia, in occasione della presentazione di Reportage n.11, al caffè letterario Kespazio! della Casa Internazionale delle donne di Roma.
Ci siamo riviste nella sede della loro associazione, a pochi passi dalla Piramide Cestia, pieno centro di Roma, dove ho incontrato anche Oria Gargano, la presidente della cooperativa Be Free.

Oltre a occuparsi di formazione e di sensibilizzazione, Be free gestisce quattro servizi attivi sul territorio di Roma. Il servizio SOS Donna, lo Sportello Donna 24h all’interno dell’Ospedale San Camillo Forlanini di Roma, lo Sportello per Donne Lesbiche che subiscono violenza all’interno della Casa Internazionale delle donne e lo Sportello socio-psicologico e legale a favore delle Donne vittime di tratta all’interno del Cie di Ponte Galeria.

Oria, quando nasce Be free?

“Be free nasce nel 2007 da persone che come me, da più o meno tempo, lavoravano già nei centri antiviolenza e avevano un’esperienza consolidata in questo campo. Nasce perché per noi era diventata un’urgenza cercare di realizzare un format d’intervento completamente nuovo rispetto a quello che esisteva già e che conoscevamo molto bene dall’interno”.

Quali sono stati motivi che vi hanno portato a sentire l’esigenza di questa nuova esperienza?

“Ciò che, personalmente, iniziavo a trovare criticabile di alcune pratiche operative dei centri antiviolenza era da un lato un sottile modo di “rivittimizzare” le donne che venivano a colloquio, dall’altro – inscindibile dal primo – una criminalizzazione indiscriminata dell’uomo. La tendenza ad attuare una precettistica rigida per ogni episodio di violenza, non tenendo conto dell’unicità, dell’interezza, della complessità di ogni storia e di ogni donna. Si tendeva a stigmatizzare l’uomo che diventava solo il cattivo e il violento. Le operatrici si sostituivano in un certo senso, nel giudizio, al pensiero e alle parole delle donne che venivano a colloquio. Devi fare e pensare questo. Lui è questa cosa. La tua storia è uguale a quella di moltissime altre. Io credo che invece si debba avere il rispetto e la delicatezza di non sostituirsi mai alle persone con le quali si opera, di non fornire loro delle vie limitate di azione, perché è esattamente la cosa che fa un uomo violento, il quale impone un determinato modello che la sua compagna deve assolutamente seguire. Per questo, quando ancora non era nata Be free, sul lavoro, durante i colloqui, iniziai a chiedere cose come: ma tuo marito è un bell’uomo? è affascinante? In questo modo, la persona che mi era davanti tornava a prendere consapevolezza di sé, del perché si trovasse in quella situazione; tornava a essere una persona nella sua piena responsabilità e capacità di scelta”.

“Definirsi vittime di violenza, andare nei luoghi dell’anti-violenza è cosa atroce – durissima – per una donna. Se noi, che dobbiamo accogliere e accompagnare queste donne in un percorso così delicato, rimandiamo loro costantemente un’immagine che le vittimizza, si sentiranno sempre più impotenti, schiacchiate dalla loro esperienza. Ricordare invece i motivi per cui liberamente e consapevolmente hanno scelto il loro uomo è un passo importante, nella presa di coscienza di ciò che stanno vivendo. Perché tutte, quando scegliamo una persona che ci stia accanto, facciamo un patto reciproco di lealtà, di rispetto e di fiducia. È importante quindi, in primo luogo, capire insieme perché questo patto di fiducia, a un certo punto, è venuto a meno. Dobbiamo sempre assumere un criterio di complessità e calarlo ogni volta nella singola storia. Non si devono, per alcuna ragione, sclerotizzare i ruoli perché procedere per schemi rigidi è un approccio pericoloso e tendenzialmente fallimentare. Per fare questo, però, è fondamentale predisporre un’équipe che sia fissa, coesa, non precaria e costantemente formata e supervisionata su tutti i servizi. Questo è l’altro punto nevralgico che sono molto felice di avere potuto finalmente realizzare con Be free”.

Avete collaboratori o siete in contatto con associazioni maschili che si occupano di violenza sulle donne?

“Un altro aspetto che contraddistingue Be free da altre realtà è che a noi piace confrontarci con lo sguardo maschile, perché siamo consapevoli che per vincere questa battaglia un patto tra uomini e donne è irrinunciabile. Così come non generalizziamo le storie che ci troviamo ad affrontare, allo stesso modo non sclerotizziamo la figura maschile. Abbiamo una collaborazione professionale molto stretta con l’associazione Maschile plurale (www.maschileplurale.it), organizziamo una Summer School di politiche di genere, alla quale hanno partecipato, sia tra i relatori che tra gli studenti, moltissimi ragazzi. Perché no?”

Questo è importante anche per lavorare sulla costruzione di modelli maschili positivi?

“Quando facciamo formazione nelle scuole medie e superiori, abbiamo due collaboratori uomini che possono lavorare, forse meglio delle colleghe donne, allo scardinamento di alcuni stereotipi della mascolinità aggressiva, di certe forme di virilità deviante. Alla vista di questi operatori gli studenti iniziano a farsi delle domande. Per i ragazzi, soprattutto quando operiamo in realtà di periferia, in un primo momento è strano vedere un ragazzo che si dedica alla sensibilizzazione sui temi dell’anti-violenza con tanta convinzione e generosità. Metterli a confronto con modelli maschili positivi è estremamente importante perché si va ad agire sulla costruzione di un’identità di genere che i più giovani agiranno poi nella società. Come amici, futuri mariti, futuri padri”.

Antonella Petricone e Maria Silvia Soriato spiegano il loro lavoro di operatrici antiviolenza.

Antonella, socia fondatrice di Be free, ha una formazione letteraria, è arrivata a occuparsi di violenza sulle donne partendo dalla matrice delle scritture femminili. Le chiedo della sua esperienza all’interno dello Sportello Donna 24h dell’Ospedale San Camillo Forlanini di Roma.

“Ho lavorato allo sportello donna 24h del San Camillo dalla sua apertura – due anni fa – fino all’aprile di quest’anno. Lo sportello donna del San Camillo (ora in fase di stand by per una riorganizzazione interna) è stato un servizio senza precedenti nel panorama italiano, in primo luogo perché attivo 24h, e poi per la specificità di essere all’interno di una struttura ospedaliera. Ha rappresentato un’avanguardia, in tutti i sensi. Molte di noi venivano da esperienze di lavoro nelle case rifugio, nelle case protette per donne maltrattate e quell’esperienza doveva essere riportata all’interno dello sportello ma traslata in metodologie d’intervento specifiche alla natura di una struttura di “avanguardia”, per la quale non c’era una prassi operativa già sperimentata. Il nostro percorso si è arricchito di un’esperienza che abbiamo maturato all’interno della struttura stessa, elaborandola caso per caso”.

Come avviene il primo contatto con le donne che arrivano al pronto soccorso di un grande ospedale come il San Camillo di Roma?

“All’interno di un Pronto Soccorso la richiesta di aiuto non avviene immediatamente, non hai una donna che ti chiama e che ti cerca perché vuole venire da te. Hai una persona che incontri in un momento drammatico della sua vita, in un contesto molto delicato, di grave emergenza. Abbiamo dovuto fare un enorme lavoro e abbiamo dovuto farlo in fretta, per riuscire a offrire un servizio il più efficace possibile e il servizio – in effetti – è partito immediatamente. Prima di iniziare pensavamo ci sarebbe stato bisogno di un certo periodo di tempo, per farci conoscere nel circuito dell’ospedale, e perché le donne si affidassero a noi, invece questo passaggio è stato velocissimo. La richiesta è stata da subito, purtroppo, imponente”.

Maria Silvia, altra socia fondatrice di Be free, è una psicologa.

“Sono arrivata a operare all’interno dell’ambito della violenza domestica in seconda battuta, perché la mia primissima esperienza, come tirocinante post-laurea in psicologia, è stata all’interno di un centro di accoglienza per donne vittime di tratta, all’interno del quale ho conosciuto, possiamo dire, metà dell’attuale collettivo di Be free”.

Da un punto di vista psicologico, come si entra in contatto con donne che arrivano al pronto soccorso perché vittime di violenza?

“A nostro avviso l’approccio da parte delle operatrici deve essere il più possibile empatico e non giudicante. Bisogna riuscire a modulare gli aspetti personali senza entrare in una relazione invischiata o direttiva nei confronti della donna. Non è facile, perché il coinvolgimento personale può essere molto forte, da qui nasce la necessità di una supervisione che al San Camillo, come in tutti gli altri servizi che Be free gestisce, abbiamo sempre richiesto. Un punto di vista esterno che ci possa aiutare nell’operare in un modo il più possibile efficace e professionale”.

Mi puoi parlare delle donne che arrivano da voi? In che modo ci arrivano? Qual è la prassi di accoglienza?

“Le donne arrivano al Pronto Soccorso quasi sempre accompagnate dall’uomo artefice della violenza, in qualche caso dalla famiglia. L’uomo le accompagna proprio per evitare che possano raccontare ciò che è successo. Nel momento in cui la donna viene accolta dagli infermieri e dalle operatrici, dopo l’accettazione, si cerca di evitare che l’uomo la segua. La prima cosa che dobbiamo fare è cercare di instaurare un’esperienza di fiducia. In che modo? In primo luogo non giudicandola, perché la sua mole di vergogna e di senso di colpa è qualcosa di così forte da potere essere percepito fisicamente. Riuscire a entrare in empatia anche con questa vergogna è fondamentale, per fare sentire a quella donna che conosci ciò di cui sta parlando, che conosci ciò che le è successo e che non la giudichi ma al contrario sei lì per ascoltarla  e per aiutarla. Se si instaura questa esperienza di fiducia può capitare che da lì a breve si riesca a prendere l’appuntamento per un secondo colloquio e quindi si possa iniziare un vero e proprio percorso di fuoriuscita dalla violenza”.

Incontro Emanuela Donato, socia di Be free, psicologa-psicoterapeuta responsabile del Servizio SOS Donna, alla sede del loro sportello poco distante dalla fermata della Metro A di Subaugusta, Roma Tuscolano.

Quando nasce e come operate al servizio SOS Donna?

“SOS donna nasce nel 2010 per svolgere un servizio aggiuntivo rispetto a quello che i centri antiviolenza svolgono di prassi. La peculiarità del nostro servizio è la mobilità, la possibilità di recarci sul luogo, in supporto a eventuali istituzioni o servizi, che entrano in contatto con donne vittime di violenza. Operiamo su un duplice livello. Quello dell’accoglienza programmata delle donne che ci contattano ma anche quello, appunto, di presenza in quei luoghi e in quei casi che necessitano della nostra specializzazione. Siamo un’equipe fissa multidisciplinare di cinque operatrici specializzate. Abbiamo una media di 40 nuovi contatti al mese, quindi dobbiamo cercare di seguire ogni singola donna nel modo più adeguato possibile, senza interruzioni di sorta, per questo siamo sempre in copresenza”.

Chi sono le donne che si rivolgono a voi?

“La tipologia di donne che si rivolge a noi è eterogenea, ma forse con una leggera maggioranza di donne di classi medio alte, che lavorano e con una buona formazione culturale. Mentre fino a qualche tempo fa, le donne straniere – regolari e non – erano in minoranza ora la percentuale si attesta sul 50 per cento. Difficilmente ci contattano donne prive di strumenti minimi”.

La violenza ha caratteristiche di recidività?

“La grande maggioranza delle donne che si rivolgono a noi sono vittime di violenza domestica e quindi di violenza reiterata. Quello che ci riportano a colloquio è una sorta di normalizzazione della loro condizione di vita. Il lavoro più delicato da fare è proprio quello di aiutarle a sviluppare una nuova lettura della loro storia familiare. Spesso sono loro a dire “in fondo questa volta mi ha solo spinto”, giudicando meno grave l’atto perché i danni fisici sono stati di minore entità. Alla base di ogni forma di violenza fisica c’è un elemento di violenza psicologica, in primo luogo in forma di sbilanciamento dei valori all’interno della coppia. Un legame asimmetrico, costruito nel tempo con l’intento di isolare la donna, di sminuirne il pensiero, di limitarla nelle frequentazioni amicali, familiari o lavorative, svalutarne, al cospetto dei figli, la capacità di essere madre o sminuire la sua capacità di essere moglie. Arrivano da noi donne che non sono più in grado di dire chi sono se non usando le parole giudicanti attraverso le quali, i compagni o i mariti, le hanno definite negli anni”.

In quale clima si generano questi episodi?

“Tra tutti i casi che ho seguito credo di non avere mai incontrato donne che non fossero innamorate del proprio compagno, dal quale spesso erano ricambiate. Paradossalmente, infatti, la violenza si viene a generare proprio in quel clima di amore e di fiducia all’interno del quale si tollerano più facilmente determinate violazioni. Ed è questo, per una donna, l’elemento più destabilizzante. Vedersi vittima di un uomo che sa dimostrare grande amore. Vedersi al cospetto di un carnefice che può e sa amare. Per questo durante i colloqui non omettiamo e non sminuiamo mai questa componente. Metabolizzare che la persona che si ama possa essere allo stesso carnefice e capace di amore è un passaggio delicatissimo. Siamo certe che non è solo demonizzando la figura maschile che aiutiamo la donna ad affrancarsi da dinamiche di violenza. Dobbiamo continuare a lavorare su tutto ciò che di culturale e sociale sottende alla violenza. In Italia è proprio il substrato culturale nel quale viviamo, del quale ci nutriamo che determina, già all’origine, uno sbilanciamento tra uomo e donna. Quello che sconvolge ogni volta è capire come ancora oggi quando le donne, prima di rivolgersi a noi, parlano della loro condizione in famiglia si sentono spesso rispondere che “è solo un momento, devi capirlo… vedrai che non succederà più, ma tu devi stargli vicina”. Una rimozione della violenza stessa. Questo crea un senso di colpa enorme nel richiedere un secondo aiuto. È una cosa devastante e, purtroppo, ricorrente”.

L’uomo violento lo è dal primo momento o, come si sostiene in alcuni casi, lo è diventato “in seguito a”?

“Per quella che è la mia esperienza, l’uomo che arriva a commettere atti di violenza fisica o psicologica, è violento dal primo momento. Certo, in molti casi purtroppo si assiste a un’escalation della frequenza o della gravità della violenza, ma i presupposti di quello che avverrà ci sono fin dall’inizio. Da come si impostano le basi di un rapporto. È violento l’uomo che vuole o che cerca di condizionare, manovrare, manipolare e possedere la sua compagna. Lo è nel momento in cui le dice “non ti preoccupare, tu rimani a casa, non lavorare, ci penso io a mantenerti” se il suo intento è quello di privarla dell’indipendenza economica e quindi di ridurne la possibilità di scelta e di movimento. Lo è quando la sua gelosia lo porta a isolare la sua compagna dalla rete di frequentazioni amicali o anche solo familiari. Lo è nella volontà di decidere ciò che per lei è bene o male. Lo è in tutte quelle azioni volte a toglierle potenzialità, facendole credere che tutto ciò avvenga per il suo bene. Un altro aspetto che riscontro in moltissimi casi di violenza è una paura ossessiva che l’uomo ha di essere tradito, un’attenzione patologica nei confronti della femminilità della propria compagna. Che porta a una pratica coercitiva e limitante di tutte quelle occasioni di contatto esterno in cui lei può trovarsi ad agire”.

 

 

 

 

 

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