Intervista a Guido Harari | di Simona Scalia

Guido Harari ripercorre le tappe della sua carriera di fotografo, ma anche grafico, curatore di libri e mostre, editore: “Non ho mai seguito una strategia, solo la mia insaziabile curiosità”. Dai personaggi celebri alle persone comuni. Che cosa significa “fotografare senza macchina fotografica”.

 

Nasce al Cairo, Egitto, nel 1952, ma a quattro anni approda con la famiglia a Milano. Il primo linguaggio di Guido Harari non è immediatamente fotografico. Tutto parte dalla passione per la musica che lo porta, ancora bambino, ad affrontare i miti musicali del tempo (Chuck Berry, Paul Anka, i Beatles, Elvis…) con la sua prima collezione di vinili. Già da adolescente, verso la fine del liceo classico, tramite alcune interviste, comincia a conoscere personalmente quelli che in seguito saranno i protagonisti dei suoi ritratti. Grazie alle sue fotografe e al suo stile avremo, ad esempio, un Giorgio Gaber che urla dritto in camera, un David Bowie sognante o un Vasco Rossi dalla mimica facciale insolita. Storica l’amicizia con De André, che ha seguito fotograficamente per vent’anni. E ancora Patti Smith, Kate Bush, Paolo Conte, Lou Reed, Frank Zappa. Ma anche, dopo che ha deciso di affrontare ambiti diversi dalla musica, Giorgio Armani, Dario Fo, Rita Levi Montalcini, Maria Teresa di Calcutta, Greta Thunberg. Il suo stile fotografico è inconfondibile: il suo proposito non è “iconizzare” il soggetto ritratto, ma di renderlo umano, quindi vero, per portarlo a donare la parte più fragile di sé. Il risultato è quasi sempre una testimonianza della persona, più che la conferma della percezione collettiva dell’idolo. Oggi Guido Harari vive ad Alba, dove si è ritirato per fondare la sua Wall of sound gallery. Al momento è in corso una sua retrospettiva in giro per l’Italia. Con lui ci siamo introdotti nel dietro le quinte di un fotografo che ha calcato backstage e palcoscenici musicali di tutto il mondo.

Guido Harari, partiamo dalla fine. Quando ci siamo sentiti, ci ha tenuto particolarmente a parlarmi del suo progetto itinerante, la “Caverna magica”, che nasce dalla sua esigenza di fotografare le persone comuni, dopo avere instaurato un rapporto con loro e aver ascoltato la loro storia. Ma non prima che avessero visitato la sua retrospettiva “Incontri. 50 anni di fotografie e racconti”, inaugurata alla Fabbrica del vapore di Milano e aperta al pubblico fino al primo aprile prossimo. Secondo lei, come potranno vivere l’esperienza i visitatori che incontrerà?

L’idea della “Caverna magica”, cioè di un set fotografico all’interno della mostra per realizzare dei ritratti che vengano esposti in tempo reale in una sala dedicata alla fine del percorso espositivo, è nata contestualmente al progetto della mia mostra antologica “Incontri. 50 anni di fotografie e racconti”. Volevo che la mostra fosse viva, un’occasione di incontro e confronto con i visitatori. L’iniziativa si è rivelata più intensa di quanto mi potessi aspettare. Le persone che venivano a farsi ritrarre avevano spesso bisogno non tanto di soddisfare la propria vanità, ma piuttosto di recuperare una dignità umiliata dall’isolamento subito durante la pandemia: la dignità di essere guardati, col bisogno di una catarsi per questo o quell’ambito delle loro vite che evidentemente l’esperienza del ritratto poteva consentire loro. A quel punto il mio ruolo è mutato, mettendomi in una posizione che non avevo mai sperimentato prima. È stata ed è tutt’ora una specie di rivoluzione che sta modificando il mio approccio al ritratto e alle persone, a cui ho deciso di dedicare almeno un’ora per capirle e conoscerle prima di scattare il ritratto. Il tutto all’interno di un’esperienza di visita che si traduce spessissimo in una riappropriazione di pezzi della propria vita da parte dei visitatori di qualunque fascia d’età. (…)

 

Ph. Guido Harari.

 

L’intervista completa è pubblicata in apertura di Reportage numero 57 (gennaio-marzo 2024),  acquistabile qui in formato cartaceo e in digitale.

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