La situazione disperata delle carceri femminili in Guatemala e El Salvador | Fotoreportage di Ana Maria Arevalo

Nel primo Paese le donne indigene si scontrano con un sistema di giustizia governato da uomini e con norme di tipo occidentale, nel secondo le ragazze entrano giovanissime nella bande criminali per un senso di appartenenza e di identità. Molte di loro hanno trascorso fino a quattro anni di isolamento.

 

Per anni il governo di El Salvador è stato alle prese con la violenza causata dalle attività legate alla droga e alle bande. Nonostante gli sforzi per arrestarne i membri, gli omicidi e le affiliazioni continuano ad affliggere la nazione. Le donne spesso si uniscono alle bande durante l’adolescenza in cerca di un senso di appartenenza e di identità.
Molte provengono da famiglie disastrate e vivono esperienze di povertà, abbandono e violenza domestica. Il carcere femminile di Ilopango ospita donne appartenenti a bande attive, alcune delle quali stanno scontando pene fino a 150 anni. Ultimamente, queste prigioniere sono state in isolamento per quattro anni, senza poter ricevere visite, pacchi, o poter chiamare i loro avvocati, e con la possibilità di trascorrere solo un’ora d’aria al giorno. A questa triste realtà si aggiunge il fatto che El Salvador ha la più grande popolazione carceraria pro-capite del mondo, a causa di una massiccia repressione di sospetti membri di bande nel 2022.
Questi provvedimenti hanno portato al trasferimento di donne da carceri esclusivamente femminili a carceri più piccole e non femminili, aggravando le già deplorevoli condizioni di internamento. Nel vicino Guatemala, le donne indigene devono affrontare un sistema di giustizia criminale governato da norme occidentali e gestito da uomini. Spesso vengono condannate per parricidio dopo anni di violenza di genere da parte dei mariti. Il monolinguismo spagnolo viola ulteriormente i loro diritti umani, poiché faticano a comprendere gli arresti e i procedimenti penali. Una volta condannate, sono spesso abbandonate dalla loro comunità e dalla famiglia e devono fare affidamento su aiuti esterni per le forniture essenziali necessarie per la vita quotidiana, come l’acqua. I sistemi carcerari di entrambi i Paesi sono sovraffollati e carenti: le donne vivono in condizioni insalubri, con accesso limitato all’igiene di base e la mancanza di un sostegno adeguato per il reinserimento nella società. Questo fa sì che siano inclini a commettere crimini anche dopo il rilascio, dato che spesso faticano a trovare speranza, un lavoro e una rete di sostegno tra amici e familiari.
Una dimensione particolarmente complessa di questa esperienza carceraria di genere è la maternità. In Guatemala, le detenute hanno in genere tra i 18 e i 36 anni, sono spesso capofamiglia e madri di una media di tre figli. La separazione dai figli una volta che questi hanno compiuto i quattro anni ha un profondo impatto psicologico sia sulla madre che sul bambino, così come sull’intera costellazione familiare.
Il dramma di queste donne solleva diverse domande. Qual è l’impatto psicologico delle condizioni di detenzione su queste donne? Come fanno le prigioniere a continuare la loro vita dopo il rilascio e a ricongiungersi con le loro famiglie? Che cosa ci dice il successo o il fallimento della loro reintegrazione sulla società salvadoregna e guatemalteca? Affrontare questi temi è fondamentale per comprendere le implicazioni più ampie del sistema carcerario sulla vita di queste donne e delle loro famiglie e per garantire il rispetto dei loro diritti umani. (A.M.A.)

 

Ph. Claudia, 31 anni, detenuta in una prigione del Guatemala, si è fatta tatuare la faccia con le parole “Amarte Duele”, amarti è doloroso.

 

Il servizio completo è pubblicato su Reportage numero 56 (ottobre-dicembre 2023), acquistabile qui in formato cartaceo e in digitale.

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