Intervista a Christopher Morris | di Claudia Cavaliere

Christopher Morris ha iniziato la sua carriera di fotografo di guerra lavorando per Time Magazine. Nei primi dieci anni del Duemila ha documentato la presidenza Bush, una sua scelta per non assistere più in prima persona alle atrocità del mondo.

 

Christopher Morris è nato in California nel 1958 e ha iniziato la sua carriera come fotografo di guerra lavorando quasi esclusivamente per Time Magazine, dove è stato a contratto dal 1990. Dal 2000 al 2009 ha documentato la presidenza di George W. Bush alla Casa Bianca. È un fotografo poliedrico: oltre che di zone a rischio e politica, si è occupato anche di moda, che spesso ha rappresentato per lui la fuga dalle atrocità. Per la sua copertura di alcuni dei più significativi momenti storici del nostro tempo – dall’invasione americana di Panama, alla guerra in Iraq dopo il crollo delle Torri gemelle, alla guerra civile nello Yemen – ha ricevuto numerosi premi tra cui la Robert Capa Gold Medal, l’Olivier Rebbot Award, il Journalism Award dalla Overseas press club, due Infinity Awards per il fotogiornalismo dall’International center of photography di New York e il World press photo.

“Ottantasette anni fa i nostri padri fecero nascere in questo continente una nuova nazione, concepita in libertà e votata al principio che tutti gli uomini siano creati uguali. Ora siamo impegnati in una grande guerra civile, per verificare se quella nazione, o qualsiasi nazione così concepita e così dedita, può resistere a lungo”, disse Abraham Lincolm nel suo discorso pronunciato a Gettysburg nel 1863, durante la guerra di secessione. Cos’è successo lo scorso 6 gennaio 2021 a Washington?

Le divisioni negli Stati Uniti ci sono sempre state. Ci sono certi gruppi sociali in America che i politici, così come accade in ogni Paese, usano per alimentare la paura negli altri e questo va avanti da molto tempo da noi. È la paura dei neri, è la paura degli asiatici, degli ebrei, di chiunque sia diverso da loro. Ma negli ultimi quattro anni, durante l’era Trump, ho visto accelerare un sentimento di accettazione dell’odio verso gli altri, questa fede cieca nella ricerca di quello che l’America era. Penso che ci sia una parte della società che pensi che l’America sia persa e ritengo che possa richiamarsi a quello che in questo Paese abbiamo conosciuto come le leggi Jim Crow, l’apartheid d’America. Le elezioni dovevano essere una frode, perché alcune delle persone che hanno avuto accesso al voto non sono veri americani, i loro voti non contano, perché sono asiatici, perché sono latini, perché sono neri. Queste argomentazioni sono state a lungo portate avanti dal leader del nostro Paese e il partito repubblicano lo ha seguito. Hanno fatto credere alla nazione che sarebbe stato giustificato scavalcare le recinzioni intorno al Campidoglio, aggredire altre persone, perché era come se stessero liberando il loro paese da comunisti, socialisti, anarchici, transgender, gay, neri. Ho guidato dalla Florida a Washington la notte prima, perché sapevo che qualcosa sarebbe successo. Il mio primo incontro è stato con un gruppo di sostenitori di Donald Trump: erano coperti dalla testa ai piedi e addosso avevano chi la bandiera americana, chi quella confederata. Ho preso la mia macchina fotografica e ho iniziato a scattare e loro mi hanno urlato contro e poi chiesto: “Perché indossi la mascherina?”. A quel punto ho notato che nessuno ne portava una e quell’idea mi ha disturbato per il resto della giornata. (…)

 

 

Ph. Un funerale di bambini uccisi da un’esplosione a Sarajevo nell’inverno 1994. Credit: Christopher Morris.

 

L’intervista completa è pubblicata su Reportage numero 46, acquistabile in libreria e qui in versione cartacea e digitale.

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