Dove i corvi non cantano. Intervista al fotografo Elton Gllava – di Valentina Piccinni

Elton Gllava è un fotografo albanese che indaga la relazione tra uomo e territorio grazie a un reportage a lungo termine – “Dove i corvi avrebbero cantato” – che lo ha riportato in patria e, precisamente, a Bulqizë, un piccolo paese conosciuto soltanto per la scoperta, nel ’39, di grandi quantitativi di cromo nel sottosuolo. Da allora sono state scavate numerose miniere, statali e private, che oggi producono il 25 per cento del Pil nazionale e sulle quali grava un forte interesse politico. La maggior parte dei capitali che provengono dalle estrazioni sono puntualmente reinvestiti all’estero. Quella che Elton Gllava racconta con le sue foto è, come lui stesso afferma, “la storia di un paese seduto su una montagna d’oro che vede scivolare via inesorabilmente giorno dopo giorno ciò che resta della sua ricchezza e delle sue menti”.
Gllava è arrivato in Italia nel ’92, come migliaia di suoi connazionali, in fuga dall’Albania. Negli ultimi 24 anni ha vissuto a Roma, svolgendo lavori di qualsiasi genere per riuscire a costruire una base di normalità che gli permettesse di iniziare un percorso di vita stabile. Cinque anni fa ha deciso di diventare fotografo e da due anni e mezzo la fotografia è il suo lavoro. Insieme ad altri colleghi, Gllava ha fondato un’associazione che si occupa di servizi fotografici per il turismo, ma anche di formazione per le grandi aziende. Parallelamente si dedica al fotoreportage. “Dove i corvi avrebbero cantato” lo vedremo esposto a Castelnuovo Fotografia, quinta edizione del festival ideato da Elisabetta Portoghese, che inaugura domani, 30 settembre. Landscape/Portrait è il tema di quest’anno, un focus sull’esplorazione della dimensione esistenziale del paesaggio.

Elton, già in passato sei tornato in Albania per realizzare “The hidden identities” un progetto fotografico sui pazienti dell’ospedale psichiatrico di Vlore. Come nasce l’idea di questo tuo nuovo lavoro?
Ho iniziato questo reportage nel 2013. All’epoca ero in Albania per seguire altri progetti fotografici e sono venuto a conoscenza degli scioperi della fame dei lavoratori delle miniere di cromo distanti da Tirana un sessantina di chilometri. La tematica mi ha incuriosito e ho deciso di fare un sopralluogo. La prima volta che sono stato a Bulqizë mi ha quasi impaurito. La cittadina era ferma nel tempo. Tutto era grigio, le costruzioni fatiscenti. Pochi gli edifici recenti. Quando mi hanno visto con la macchina fotografica sono stato circondato dagli abitanti che mi guardavano con sospetto, come se non avessero mai visto un “forestiero”.


Qual è il tuo rapporto con l’Albania oggi e come questo rapporto ti suggerisce di ritornare per raccontare attraverso la fotografia delle storie?
È un rapporto conflittuale, contrastante. Da una parte c’è la nostalgia, chiaramente non della dittatura, ma di quello che significa l’Albania per me: nostalgia dei luoghi, della gente, delle tradizioni, della mia infanzia. Dall’altra provo un sentimento di rifiuto, verso quello che l’Albania sta diventando. Per diversi anni, ogni volta che ritornavo avevo la sensazione che la mia nazione stesse regredendo.

Spesso per i fotografi è molto più semplice entrare in sinergia con luoghi e persone di posti estranei, agire in un campo neutro, dove la diversità culturale diventa un motivo in più di confronto e ispirazione. Qual è il tuo punto di vista?
Sono assolutamente d’accordo. Per me fotografare l’Albania è una sfida. Quando sei in un paese che non è il tuo “tutto” è più semplice, se sei nella tua nazione chiedere è più complicato. Ho lottato a lungo con i miei limiti e con quelli della gente di Bulqizë. Dopo due anni che andavo lì, nonostante mi conoscessero, c’erano ancora delle barriere da superare. Ad un certo momento qualcosa è cambiato ed è stata una scoperta per me. Avevo stretto un legame di amicizia con un gruppo di giovani minatori. Sono stati loro a chiedermi una sera di andare a giocare a biliardo. Mi portarono in una sala, a due chilometri dal luogo in cui spesso passavamo il tempo insieme, un piccolo edificio immerso nel nulla, solo due case intorno. Abbiamo fumato e bevuto insieme. È stato un momento di svolta, il momento in cui ho capito che probabilmente questo blocco nell’entrare in intimità con i soggetti non era dovuto al loro atteggiamento ma dipendeva da me. Alle volte ci si aspetta che siano gli altri ad aprirsi, mentre non ci si rende conto che siamo noi stessi, noi fotografi che mettiamo su un muro difensivo. In quell’occasione, in un momento di pausa, di gioco, stavo fotografando, e loro si prestavano tranquillamente. Mi divertivo e, senza pensarci troppo, fotografavo. Da allora qualsiasi cosa facessero ero invitato. È  stata per me una grande lezione di fotografia, ma soprattutto di vita. Ho abbattuto un muro dentro di me.


Come si è declinata questa conquista di fiducia di cui parli?
Negli anni ho assunto credibilità ai loro occhi data dalla mia perseveranza, dalle mie cicliche visite, ma anche da un gesto semplice che ho fatto: portare loro delle foto che avevo scattato in miniera. Si sono resi conto che il mio era un progetto concreto, oltre ad avermi avvicinato umanamente a loro.

Per realizzare questo progetto hai utilizzato principalmente un Hasselblad, un apparecchio fotografico analogico, di difficile gestione in condizioni estreme, e le miniere sono luoghi estremi. Perchè hai scelto proprio questa camera?

Il mio processo creativo è legato alla sperimentazione, cambio spesso macchine, non mi metto limiti, dipende da come penso un progetto. Durante il mio primo sopralluogo avevo con me questa macchina che stavo utilizzando per altri progetti. L’avevo acquistata da poco, per mettermi alla prova con un nuovo formato e un nuovo approccio. Quando sono tornato in Italia e ho sviluppato i primi rulli, mi sono reso conto che la pasta della pellicola e il medio formato rendevano esattamente l’atmosfera di Bulqizë e il modo in cui io vedevo questi luoghi. Consapevole delle difficoltà che avrei incontrato – strumentazione pesante, utilizzo di un faro nei cunicoli delle miniere, mancanza di agilità nei movimenti – non ho esitato ad aggiungere un ulteriore elemento di sfida a questo progetto.

Come nasce l’idea del titolo di questo lavoro?
Sono sempre stato attratto dai corvi. In questa città ce ne sono tantissimi e spesso mi isolavo per fotografarli, o coglievo l’occasione di farlo nei momenti di pausa o di attesa. Un giorno ero nella periferia della città vicino a una scuola, in attesa che passasse un corteo funebre, una di quelle occasioni in cui mi dedicavo ad osservare i corvi. La gente era incuriosita da me, si chiedevano cosa stessi facendo o cosa stessi fotografando. A un certo punto mi si è avvicinato un signore con la faccia segnata dalla fatica e mi ha detto qualcosa che poi ho trasformato nel titolo del libro: “Figlio mio, qui se non ci fosse stata la miniera i corvi avrebbero cantato”.

La mostra “Dove i corvi avrebbero cantato” è stata esposta quest’anno a Fotoleggendo e adesso a Castelnuovo, con la curatela di Lina Pallotta e Sara Palmieri. Quale sarà la prossima tappa?
Il mio desiderio è quello di portare la mostra in Albania, proprio nel paese di Bulqizë. Realizzare una grande installazione nell’unica via pedonale della cittadina. Ho un sentimento di dovere verso tutti gli abitanti del luogo che hanno reso possibile questo reportage, che non parla solo di loro, ma anche di me. Ho moltissimo materiale inedito, legato alla documentazione storica della miniera. Ho rifotografato l’archivio del paese che era conservato in due grandi scatole deteriorate dal tempo e dall’umidità. È sorprendente e straniante notare, accostando le foto scattate da me in questi ultimi anni e i ritratti dei minatori che risalgono a tutta la seconda metà del Novecento, che nulla sembra essere cambiato. Un giorno mi è venuto a parlare un uomo, ex capo della polizia ai tempi del comunismo e mi ha fatto notare che il lavoro che stavo facendo non era solo fotografico, ma anche storico, stavo immortalando la storia di un paese che si stava perdendo. Sto anche lavorando per trasformare questo progetto in un libro. Per adesso ho realizzato un dammy book, che contiene una settantina di scatti. Non è stato semplice editare il lavoro, fare delle scelte, escludere alcune foto. Continuerò a perfezionarlo per partecipare ai festival internazionali e per avere qualcosa di concreto dariportare agli abitanti di Bulqize in occasione della futura mostra.

www.eltongllava.com

CASTELNUOVO FOTOGRAFIA 2017 – V EDIZIONE
Piazza Vittorio Veneto, Castelnuovo di Porto (Rm) – Castello Rocca Colonna
30 settembre – 8 ottobre 2016

Orari di apertura al pubblico: 
30 settembre: 10:00 – 20:00 / 1 ottobre: 10:00 – 20:00 / 8 ottobre: 15:00 – 20:00
Tutti gli eventi sono a ingresso gratuito
Dal 2 al 7 ottobre è possibile visitare le mostre su appuntamento, inviando una mail a: castelnuovofotografia@gmail.com

 

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