Europa, la parità uomo-donna ancora un miraggio – di Ilaria Romano

L’uguaglianza di genere con l’emancipazione di donne e ragazze è l’obiettivo numero cinque dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. Per considerarlo raggiunto bisognerebbe mettere fine a ogni forma di discriminazione e violenza nella sfera privata e pubblica, eliminare le pratiche abusive come i matrimoni precoci, combinati, le mutilazioni; riconoscere e valorizzare il lavoro domestico non retribuito attraverso l’offerta di servizi pubblici e politiche di protezione sociale e promozione delle responsabilità condivise all’interno delle famiglie. Inoltre si dovrebbe arrivare a garantire la piena ed effettiva partecipazione femminile alla vita politica, economica e pubblica ad ogni livello, oltre che garantire pari accesso alle risorse economiche e alla titolarità delle proprietà, dei servizi finanziari, delle tecnologie dell’informazione.

Anche per l’Europa le pari opportunità e l’impegno per la parità di genere sono temi chiave, come recita l’articolo 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue: “La parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione. Il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato”.

Eppure i dati dicono che in tutti i Paesi membri il problema è tutt’altro che in via di superamento. Con numeri diversi fra loro, senza dubbio, ma con un elemento comune: il divario di genere esiste, e condiziona stipendi, ore di lavoro, carriere. Solo per restare all’ambito occupazionale.

Secondo il rapporto 2017 della Commissione Europea sull’uguaglianza di genere, nel terzo quadrimestre dello scorso anno il tasso d’impiego medio europeo per gli uomini era del 77,4%, per le donne del 65,5 per cento. Un dato rimasto abbastanza costante negli ultimi anni, con circa 12 punti percentuali di differenza: nel 2010 il tasso di occupazione maschile era del 75,6% e quello femminile del 62,3%, nel 2015 del 76,5% contro il 64,6 per cento.

Se si guarda ai singoli stati membri, i numeri possono variare, certo, ma con un’evidenza di fondo: in tutta l’Europa le donne sono meno inserite nel mercato del lavoro. Con percentuali migliori in Austria (tasso di occupazione maschile 80%, e femminile 71%), Svezia (84% contro 80%), Germania (83% contro 75%), Estonia (83% contro 72%), dove il divario con l’occupazione maschile è più contenuto, e decisamente peggiori in Italia (72% di occupazione maschile contro il 52% di quella femminile), Grecia (67% contro 48%), Malta (83% contro 56%), Romania (77% contro 59%) e Spagna (70% contro 59%), dove la disparità si allarga.

Lavoro flessibile, pagato e informale

Il mercato del lavoro cambia e si caratterizza per lo sviluppo di nuove forme di impiego “atipiche” e sempre più spesso a breve scadenza. E anche nel campo della “flessibilità”, nemmeno a dirlo, le donne sono in testa: i contratti temporanei le riguardano per il 14,1% dei casi, contro il 12,9% degli uomini. Aumentano anche le libere professioniste, da 7,3 milioni del 2010 a 7,6 milioni del 2016, ma restano comunque la metà degli uomini con lavoro autonomo, passati da 14,3 milioni a 14,6 negli ultimi sei anni.

Un altro dato che mette in evidenza una differente ripartizione del lavoro in base al genere è quello dato dal rapporto fra lavoro pagato e non pagato. Gli uomini lavorano in media 39 ore alla settimana, contro le 33 delle donne. Ma se si guarda alle occupazioni domestiche di cura di bambini e anziani, come pure di pulizia e manutenzione degli spazi, il carico che grava sugli uomini europei è in media di dieci ore contro le 22 delle donne. Oltre al mero numero di ore lavorate, emerge che le donne sono quelle che tendono a riprodurre molto più frequentemente lavori di routine, in rapida alternanza o anche simultaneamente, soprattutto con la maternità e l’impegno nell’assistenza ai familiari. Dai 18 ai 64 anni, il 20% delle donne e il 18% degli uomini sono anche lavoratori informali, e il 7% delle donne lo è quotidianamente, contro il 4% degli uomini.  Se si guarda il dato italiano, le ore di lavoro settimanale retribuito sono 30 per le donne e 38 per gli uomini, mentre quelle di impiego informale sono rispettivamente 24 e 9.

Garantire le condizioni per un’equa ripartizione del carico di lavoro e di responsabilità fra i sessi è uno degli obiettivi europei: nel 2016 dieci paesi membri hanno ricevuto specifiche raccomandazioni per la partecipazione femminile al mercato del lavoro. Si tratta di Repubblica Ceca, Germania, Estonia, Irlanda, Spagna, Italia, Austria, Romania, Slovacchia, Regno Unito, che sono stati incoraggiati a implementare i servizi per l’infanzia, l’assistenza, l’indipendenza economica. In Austria è stato adottato il Family Time Bonus Act, entrato in vigore nel marzo scorso, per supportare la cura dei figli condivisa fra uomini e donne. In Germania il congedo parentale va nella stessa direzione, e il 34% dei padri tedeschi trascorre a casa fino a tre mesi dalla nascita dei figli.  In Italia, secondo i dati Ocse, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, pubblicati un anno fa, siamo in coda alla classifica fra i paesi Ue in fatto di congedo parentale, mentre si arriva fino al 40% in alcuni paesi del Nord Europa e in Portogallo.

Salari “di genere” 

Anche in condizioni lavorative ottimali, le differenze di compenso in base al genere non solo esistono, ma attraversano l’Europa in maniera trasversale. Spesso le donne sono impiegate in settori meno pagati, o più frequentemente part time o in altre forme atipiche. In Spagna l’Istituto per le donne e le pari opportunità ha sviluppato un piano per contrastare il divario nei salari. Per ogni azienda il gap viene quantificato, e per ognuno si indicano le raccomandazioni per ridurlo. Il governo svedese ha invitato il parlamento ad esprimersi sulle differenze di salario ingiustificate.

Le donne in ruoli dirigenziali e politici

Dai dati Eurostat emerge poi che, meno di un quarto delle donne europee occupano ruoli chiave in grandi aziende e solo Francia, Italia e Finlandia raggiungono il 30% di partecipazione femminile nelle dirigenze delle società. Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Malta e Portogallo si fermano a zero.

Le donne continuano a essere sottorappresentate nei posti decisionali a tutti i livelli, nella maggior parte degli stati membri, nei parlamenti e nei governi. Tuttavia la proporzione delle donne nei parlamenti nazionali in Ue è cresciuta dal 22,1% del 2004 al 28,7% del 2016. Nel 2016 le donne hanno raggiunto anche livelli di leadership in alcuni parlamenti (32,1%) e partiti (18,8%). Con le debite differenze fra Finlandia e Svezia che hanno incluso dei rispettivi parlamenti il 40% di donne, e Bulgaria, Grecia, Croazia, Cipro, Lettonia, Ungheria, Malta e Romania che tengono la “quota” al di sotto del 20%.

Se si guarda ai ministeri degli stati membri, le donne sono presenti in 135 complessivamente: il 27,4% sono agli Esteri, agli Interni, alla Difesa e alla Giustizia, il 44,4% si occupano dei dicasteri per Salute, Famiglia, Lavoro, Sport e Cultura, l’11,9% sono alle Infrastrutture e il 16,3% all’Economia. Gli uomini sono invece 349: il 44,7% è agli Esteri, Interni, Difesa, Giustizia, il 23,5% all’Economia, il 12,6% alle Infrastrutture, il 19,2% al Sociale.

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