Amnesty, 50 milioni di profughi nel 2014 – di Ilaria Romano

 

Un anno difficile per i diritti umani, il 2014, segnato dal triste primato di 50 milioni di persone sfollate dalle loro case e dai paesi d’origine. Il Rapporto annuale di Amnesty International, che come ogni anno presenta un’analisi dettagliata della situazione di 160 paesi del mondo, suddivisi per aree geografiche, dice che un numero crescente di persone è costretto a vivere sotto il controllo di gruppi armati, o in regimi che limitano le libertà personali, e che la comunità internazionale non è ancora in grado di offrire un’alternativa concreta di assistenza e protezione. Non manca, tuttavia, qualche notizia positiva. Nel dicembre scorso, dopo una campagna ventennale, è entrato in vigore il Trattato globale sul commercio delle armi (130 firme e 62 ratifiche), che dovrebbe limitare i trasferimenti internazionali di armi e munizioni; altri cinque paesi (Eritrea, Guinea Equatoriale, Figi, Niger e Suriname) hanno votato a favore della risoluzione sulla moratoria della pena di morte, mentre altri quattro sono passati dal voto contrario all’astensione (Bahrain, Myanmar, Tonga e Uganda). Ma vediamo la situazione area per area.

Africa Subsahariana

Se la povertà nel suo complesso è diminuita nell’ultimo decennio, in Africa è comunque aumentato il numero delle persone che vivono al di sotto della soglia di 1,25 dollari al giorno. Nigeria e Repubblica Democratica del Congo, registravano da sole nel 2014 il 40 per cento dei poveri di tutto il continente. La sicurezza è peggiorata anche in Kenya, Somalia e Mali, a causa della crescente violenza esercitata da gruppi armati come Al Shabab e Boko Haram. La Repubblica Centrafricana è stata martoriata da attacchi contro i civili, omicidi, stupri, torture e reclutamento di bambini soldato, nonostante lo schieramento della missione Onu Minusca.

amn intIn Somalia, nelle regioni centrale e meridionale sono stati uccisi, feriti o sfollati almeno 100mila civili. E anche nei paesi dove non è in corso una guerra si è registrata una riduzione dello spazio politico e delle libertà fondamentali: in Etiopia sono riprese le campagne del governo contro i media indipendenti, in Eritrea restano in carcere esponenti politici delle opposizioni, come pure prigionieri di coscienza. In molti paesi come Ciad, Rwanda, Gambia, Guinea e Uganda, i giornalisti e i difensori dei diritti umani sono andati incontro a minacce, detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate.

Sul piano internazionale, sebbene lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale potesse contare sull’adesione di 34 Paesi africani, una serie di espedienti politici ne hanno di fatto limitato l’applicazione: in Kenya, per esempio, sono stati proposti cinque emendamenti al documento, compresa la modifica dell’articolo 27 per impedire di perseguire penalmente i capi di stato e di governo ancora in carica. Nel maggio dello scorso anno, i ministri dell’Unione Africana hanno concordato di ampliare l’elenco di coloro che avrebbero potuto beneficiare dell’immunità, cosa che ha permesso a molti leader di evitare incriminazioni per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

La Commissione Africana sui diritti umani ha adottato una risoluzione che condannava violazioni sulle persone in base all’orientamento sessuale, ma in realtà alcuni Paesi hanno aumentato le azioni giudiziarie per “reati” legati all’identità sessuale, hanno rafforzato legislazioni esistenti e inique o ne hanno introdotte di nuove. In particolare, il presidente del Gambia ha promulgato un progetto di legge approvato dal parlamento che introduce il reato di omosessualità aggravata.

Americhe

Nel 2014 l’aumento delle violazioni dei diritti umani ha segnato anche una crescita delle proteste di massa: la gente è scesa in piazza più volte contro le pratiche repressive negli Usa, in Brasile, in Messico e in Venezuela. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite ha registrato 40 omicidi di difensori di diritti umani nelle Americhe solo nei primi nove mesi del 2014. Emblematico il caso del Messico, nel settembre scorso, dove sono spariti 43 studenti di Scienze della formazione arrestati a Iguala, nel Guerrero, dalla polizia locale. A dicembre è stato annunciato il ritrovamento dei resti di uno dei giovani, ma degli altri 42 non si è più saputo nulla. Le incomplete e limitate indagini su questo caso hanno messo in evidenza i rapporti di collusione fra autorità di pubblica sicurezza e criminalità organizzata.

L’immigrazione ha continuato ad essere un rischio per chi si sposta dal Sud al Nord delle Americhe: tra ottobre 2013 e luglio 2014 oltre 52 mila migranti minorenni non accompagnati sono stati fermati negli Usa, una cifra pari a quasi il doppio dell’anno precedente. Tutti i cittadini stranieri che tentano di entrare negli Stati Uniti dal Messico sono andati incontro a rapimenti, estorsioni, omicidi da parte di bande criminali, spesso con la copertura di pubblici funzionari.

Nell’ambito della violenza di genere resta aperto il dibattito sull’aborto: in Cile, El Salvador, Haiti, Honduras, Nicaragua e Suriname è rimasto in vigore il divieto assoluto di interruzione di gravidanza, e negli ultimi 10 anni almeno 129 donne sono state messe in carcere per questo motivo. A fine anno 17 di loro erano in attesa di un’istanza di grazia, e stavano scontando pene carcerarie fino a 40 anni per omicidio aggravato. Anche dove la legge consente l’aborto terapeutico, le procedure burocratiche lo hanno reso quasi impossibile, soprattutto per chi non può permettersi una struttura privata.

Rispetto alla “lotta al terrorismo”, il presidente Obama ha ammesso per la prima volta l’uso della tortura nei casi di accertamento delle responsabilità degli attacchi dell’11 settembre. A fine 2014 nella struttura di Guantanamo erano trattenuti ancora 127 uomini, per la maggior parte senza avere mai avuto un processo, e nemmeno la formalizzazione di un’accusa. Il 3 aprile 2014 il Comitato Selettivo sull’intelligence del Senato Usa ha deciso di desecretare la sintesi del rapporto sul “programma di detenzione e interrogatorio” della Cia, ma il documento integrale è rimasto codificato.

Asia e Pacifico

La regione copre per popolazione la metà del mondo, e in questi ultimi anni è cresciuta economicamente orientando un mutamento nella geopolitica globale. La tendenza di fondo in fatto di diritti umani però non è stata quella di un miglioramento. Anzi, ci sono stati segnali di una crescente intolleranza e discriminazione: in Afghanistan, dove dopo 13 anni è terminata la missione Isaf, Pakistan, Myanmar e Thailandia sono proseguiti i conflitti armati; nella Corea del Nord centinaia di migliaia di persone sono rimaste nei campi di prigionia, senza accuse né processi. Di fronte ad un crescente attivismo della società civile, paesi come la Cina e la Cambogia hanno reagito con un aumento della repressione. In Thailandia il colpo di stato di maggio e l’imposizione della legge marziale hanno portato alla detenzione arbitraria di molte persone e al divieto di tenere riunioni pubbliche con più di cinque partecipanti. Nelle Filippine l’uso della tortura è rimasto uno strumento tollerato per estorcere confessioni. In Giappone, la polizia può ancora trattenere i sospettati fino a 23 giorni prima dell’incriminazione, proprio per strappare confessioni anche con mezzi brutali.

Alcuni paesi hanno violato il divieto internazionale di refoulement, rimandando forzatamente indietro rifugiati e richiedenti asilo. E’ successo in Australia, in Malesia e in Sri Lanka. Sono anche proseguite le aggressioni basate sulle differenze religiose, di genere, origine etnica. In tutta la regione le donne subiscono a tutt’oggi violenze e discriminazioni : la Commissione Indipendente per i diritti umani in Afghanistan ha registrato 4154 casi di violenza olo nei primi sei mesi dello scorso anno. In Indonesia è stata approvata una legge che ha limitato a 40 giorni il periodo di tempo in cui le vittime di stupro possono accedere legalmente all’aborto.

La pena di morte è stata mantenuta in diversi paesi, e la Cina ha continuato a eseguire sentenze, come pure il Giappone e il Vietnam. Il Pakistan, a seguito dell’attentato in una scuola di Peshawar, costato la vita a 149 persone, delle quali 134 bambini, ha annullato la moratoria e ha messo a morte di diversi detenuti incriminati per terrorismo.

Un passo in avanti si è registrato in India, rispetto ai diritti delle persone transgender, con la storica sentenza della Corte Suprema che ha imposto alle autorità di riconoscere in autocertificazione maschi, femmine e terzo genere.

Europa e Asia Centrale

Non stallo ma regressione, dice Amnesty: il conflitto in Ucraina e l’annessione della Crimea alla Russia hanno caratterizzato il 2014 in quest’area. A fine anno almeno quattromila persone erano state uccise in Ucraina orientale, anche se Mosca ha continuato a negare il sostegno ai ribelli. Ci sono state violazioni del diritto internazionale umanitario e i civili non sono stati protetti. In Crimea la situazione è peggiorata, perché le leggi russe sono state applicate per limitare libertà di espressione, riunione e associazione di chi si era opposto all’annessione. Al contempo la popolarità di Putin è aumentata ed è cresciuta anche la propaganda anti-Ucraina e antioccidentale nei media.

In Turchia il presidente Erdogan ha vinto le elezioni di agosto nonostante il coinvolgimento in una serie di scandali legati a fenomeni di corruzione. Il partito di governo ha rafforzato il controllo sull’informazione, e i giornalisti indipendenti sono stati arrestati. La libertà di riunione, dopo la repressione di Gezi Park nel 2013, ha continuato ad essere osteggiata con norme restrittive.

Per la prima volta gli sfollati nel mondo hanno superato i 50 milioni, la risposta dell’Unione Europea è stata animata, seppure con qualche eccezione, dal desiderio di tenerli fuori. A fine anno, dei quasi quattro milioni di rifugiati siriani che hanno lasciato il paese, sostiene Amnesty, solo 150mila sono entrati in Europa, circa lo stesso numero di persone entrato in Turchia in una settimana, solo dall’area di Kobane al momento dell’attacco dello Stato Islamico.

Rispetto ai flussi migratori nel Mediterraneo, nei primi dieci mesi del 2014 l’operazione di ricerca e soccorso dell’Italia Mare Nostrum ha salvato più di 100 mila persone, ma a fronte di pressioni ricevute da altri stati membri Ue, è stata chiusa il 31 ottobre e al suo posto è stata messa in campo Triton, un’operazione alternativa collettiva, coordinata da Frontex, l’Agenzia Europea per il controllo delle frontiere, ma con una portata di intervento ben più limitata. Si calcola che nel corso dell’anno siano morte in mare 3.400 persone, nel tentativo di raggiungere le coste italiane.

Diversi Stati, come Polonia, Lituania e Romania, hanno ospitato siti segreti di detenzione o hanno dato supporto al governo americano per trasferimenti illegali, sparizioni forzate e tortura su detenuti. La Bielorussia resta l’unico Paese europeo a mantenere la pena di morte, nel 2014 ha eseguito tre condanne, nonostante la richiesta di sospensione del Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite.

Medio Oriente e Africa del Nord

Nel 2014, le speranze di cambiamento che avevano guidato le primavere del 2011 si sono confermate un lontano ricordo, in un anno scosso dai conflitti di Siria, Iraq, Gaza, Libia. In Egitto, il generale Abdel Fatah al-Sisi che ha guidato la destituzione del primo presidente post rivolta, Mohamed Morsi, ha avviato un’ondata di repressione che ha preso di mira i Fratelli Musulmani, ma anche attivisti e operatori dell’informazione. Dalla destituzione di luglio 2013 alla fine del 2014 sono stati 1400 i morti durante le manifestazioni, e almeno 16 mila gli arrestati.

In Siria e Iraq, la rapida avanzata dell’Isis ha finito con il mettere in secondo piano la persistente brutalità del regime siriano, e la protezione dei civili sunniti in Iraq considerati simpatizzanti dello Stato Islamico e per questo diventati spesso bersaglio delle milizie filogovernative.

A Gaza, la scorsa estate, sono stati uccisi duemila palestinesi, compresi 500 bambini. Entrambe le parti hanno compiuto crimini di guerra, il blocco degli spazi aerei, marittimi e di terra imposto dalle autorità israeliane non ha fatto altro che aggravare l’impatto del conflitto.

Tutti i governi della regione hanno continuato a reprimere il dissenso, imponendo restrizioni alla rete come alla libertà di parola. In Iran ci sono stati imputati per moharabeh, inimicizia a dio, considerato reato capitale. Negli Emirati come in Bahrein, Kuwait e Oman chi ha espresso critiche al governo è stato privato della cittadinanza.

In Libia le milizie rivali hanno trattenuto migliaia di detenuti, alcuni dei quali in carcere dal 2011, senza alcuna possibilità di rilascio o fine pena. Arabia Saudita, Iran e Iraq sono rimasti i paesi con il più alto numero di esecuzioni. Molte delle condanne a morte per decapitazione in Arabia Saudita sono state eseguite in pubblico, 26 solo nel mese di agosto. La Giordania ha ripreso le esecuzioni dopo 8 anni, mentre in Libano sono state emesse sentenze capitali ma le autorità non hanno dato il via libera alle esecuzioni, come Algeria, Marocco e Tunisia, dove esiste una moratoria de facto.

La crisi siriana è stata la peggiore in termini di “numeri”: a fine anno erano quattro milioni le persone scappate dal conflitto. Il 95% di queste sono state ospitate nei paesi confinanti: Libano, Turchia, Giordania, Iraq e Egitto. E in molte località, a fronte di una mancanza di fondi internazionali, il flusso di profughi ha gravato enormemente sulle risorse dei paesi ospitanti.

Nel Golfo i migranti hanno svolto un lavoro fondamentale nell’industria delle costruzioni e nei servizi. Ma hanno continuato a non avere tutele e sono stati vittime di sfruttamento e abusi. Per quanto riguarda i diritti delle donne, la Tunisia ha rappresentato un’eccezione positiva, con la condanna esemplare di due poliziotti colpevoli di stupro e la nomina di un comitato di esperti per la predisposizione di un quadro normativo anti violenza.

 

 

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