L’odissea forzata di Mohamedu, da dodici anni prigioniero a Guantanamo – di Ilaria Romano

Un racconto popolare della Mauritania narra di un tale terrorizzato dai galli, al punto che quando ne incontrava uno andava quasi fuori di senno. 

“Perché ha così tanta paura dei galli?”, gli chiede lo psichiatra.
“Il gallo è convinto che io sia granoturco”.
“Lei non è granoturco. Lei è un uomo grande e grosso. Nessuno può scambiarla per una piccola pannocchia di mais”, dice lo psichiatra.
“Lo so dottore, ma il gallo non lo sa. Il suo compito è andare da lui e convincerlo che io non sono granturco”.
L’uomo non guarì mai, perché è impossibile parlare con un gallo. Fine della storia.
Da anni sto cercando di convincere il governo degli Stati Uniti che io non sono granturco.

Mohamedu Ould Slahi oggi ha 44 anni ed è detenuto a Guantánamo da dodici, anche se il giro del mondo senza fine per lui era già cominciato nel 2000. Il suo diario, oltre 400 pagine rieditate da Larry Siems, scrittore e attivista per i diritti umani, è diventato un libro diffuso in 16 paesi e pubblicato in Italia dalle Edizioni Piemme. Un caso unico finora, non solo perché per la prima volta a parlare al grande pubblico è un prigioniero di una delle carceri più discusse al mondo, ma soprattutto perché Mohamedu è ancora là.

La sua è una storia personale e collettiva allo stesso tempo, raccontata sempre con la massima lucidità, un filo di ironia e un’intelligenza che isolamento, torture, frustrazione non hanno piegato. Una storia dove il protagonista impara a convivere con la privazione, la paura, ma non per questo smette di distinguere il bene e il male, di cogliere i tratti umani di tutte le persone che incontra in questa sua odissea forzata, dai vicini di cella alle guardie, passando per gli oltre cento diversi “inquisitori” di almeno sei Paesi che continueranno ad interrogarlo per anni, alla ricerca di un suo mai provato coinvolgimento nel grande complotto.

Il diario è stato scritto nel 2005, quando Mohamedu, dopo quasi cinque anni di detenzione, gli ultimi tre passati a Guantánamo, riesce ad ottenere di incontrare due dei suoi avvocati d’ufficio. Ogni pagina del manoscritto è stata passata al vaglio del governo americano e ancora oggi il libro viene pubblicato con una serie di bande nere su alcune parole e frasi, presumibilmente nomi e ruoli degli inquisitori e delle guardie, ma anche date e luoghi, per una precisa scelta dell’editor di sottolineare comunque la presenza di informazioni che non è dato leggere.

Quel manoscritto, redatto in inglese, lingua che il detenuto impara in cella, inizialmente non riceve il nullaosta alla diffusione, ma viene secretato e messo sotto chiave come documento di massima sicurezza; l’autorizzazione arriverà solo nel 2012 quando un giudice federale accoglierà l’istanza di revisione presentata da Slahi due anni prima e ne ordinerà il rilascio, una decisione questa che ancora oggi, nel 2015, non ha avuto seguito perché il governo Usa ha presentato ricorso.

foto guantanamoCiò che cambia per sempre la vita di Mohamedu e che lo conduce in questo mondo di sospetti terroristi è la decisione di tornare nel suo Paese dopo diversi anni trascorsi all’estero. Nato e vissuto in Mauritania fino all’età di 18 anni, il giovane decide nel 1988 di fare domanda per una borsa di studio all’Università tedesca di Duisburg, dove vuole specializzarsi in ingegneria. Si trasferisce così in Germania, ma tre anni dopo interrompe gli studi per partire in Afghanistan e combattere al fianco dei mujaheddin, contro le forze governative ancora in piedi dopo la ritirata russa. Qui partecipa a una sessione di addestramento organizzata da Al Qaeda, e all’inizio del 1992 si unisce ad un’unità di combattimento, ma solo per pochi mesi (il governo della Rda, la Repubblica democratica dell’Afghanistan cadrà nell’aprile di quell’anno). A quel punto Mohamedu decide di tornare in Germania, come racconterà più volte negli innumerevoli interrogatori, perché non condivide la lotta intestina per la presa del potere.

“Decisi di tornare a casa perché non volevo combattere contro altri musulmani e non vedevo ragione per farlo. Neanche oggi del resto vedo motivo di combattere per stabilire chi deve essere presidente o vicepresidente. Il mio scopo era soltanto di combattere contro gli aggressori, soprattutto i comunisti, che proibivano ai miei fratelli di praticare la loro religione.”

Durante gli anni Novanta si laurea in ingegneria, comincia a lavorare e viene raggiunto dalla moglie. Resta in contatto con alcuni amici dell’Afghanistan, tra loro c’è anche Abu Hafs al-Mauritani, uno dei consiglieri teologici di Bin Laden, che in due occasioni gli chiede di aiutarlo ad inviare soldi alla sua famiglia.

Nel 1998, non riuscendo ad avere un permesso permanente in Germania, su consiglio di un amico decide di fare domanda di soggiorno in Canada e l’anno dopo si trasferisce a Montreal. Qui frequenta la moschea locale, e come hafiz, persona che conosce il Corano a memoria, è invitato a condurre le preghiere quando l’imam è in viaggio. È trascorso appena un mese dal suo arrivo quando un cittadino algerino viene fermato mentre tenta di entrare negli Usa dal Canada con la macchina carica di esplosivo. Si tratta di Ahmed Ressam, ritenuto una delle menti del Millennium Plot, un attacco terroristico pianificato per far saltare l’aeroporto di Los Angeles la notte di capodanno del nuovo millennio.

Non c’è nessun elemento che riporti a un coinvolgimento di Mohamedu in questa storia, ma anche Ressam viveva a Montreal e frequentava la stessa moschea, seppure in un periodo precedente e questo basta per mettere sotto controllo tutta la comunità musulmana della città canadese. Slahi viene interrogato per la prima volta e da quel momento comincia a maturare l’idea di rientrare nel suo Paese. Il 21 gennaio del 2000 prende un aereo per Bruxelles e, da qui, per Dakar. Il suo diario comincia proprio dal Senegal, dove viene arrestato per la prima volta e trasferito in Mauritania, poi condotto in segreto in Giordania, Afghanistan e infine Cuba, a Guantánamo.

Prima sospettato di essere coinvolto nel Millennium Plot, poi nella pianificazione degli attacchi dell’11 settembre, nel suo libro Mohamedu racconta la sua odissea da un Paese all’altro, attraverso prigioni segrete, celle, interrogatori, dando vita, attraverso alla cronaca, a una riflessione su Stati Uniti, lotta al terrorismo, ruolo dei paesi “amici”, al di fuori di qualsiasi legge nazionale e internazionale.

Devi sapere, caro lettore, che un paese che consegna i suoi stessi cittadini non può avere vita facile. Il presidente avrebbe preferito non dovermi consegnare. Perché se gli Stati Uniti mi catturano in Afghanistan e per una qualsiasi ragione mi portano a GTMO (Guantanamo, ndr), il mio governo non può essere incolpato, visto che andare in Afghanistan è stata una mia scelta. Ma rapirmi nel mio paese, dentro casa mia, e consegnarmi agli Stati Uniti, violando la Costituzione della Mauritania, le leggi internazionali, i trattati e le consuetudini, questo non può andare bene. 

La Mauritania, pur ammettendo che non c’è alcun reato per il quale possa accusarlo, ne autorizza il trasferimento in Giordania per mano dei servizi americani, con uno dei voli segreti della Cia delle extraordinary renditions. Non esistono mandati di estradizione, né capi di imputazione. Da Amman, dove resterà otto mesi in una delle carceri segrete dei servizi giordani, Mohamedu Slahi sarà poi prelevato e spedito a Bagram, in Afghanistan, e meno di un mese dopo portato a Guantánamo. Scoprirà da solo qual è la meta finale, grazie alle sue deduzioni e alle parole scambiate con i compagni di detenzione, perché un detenuto “fantasma” non ha diritto di sapere dove viene portato e nemmeno che giorno è.

12 anni a Guantanamo, un titolo che riecheggia quello del film “12 anni schiavo”, è il racconto di un’esperienza straordinaria e terribile, che alla fine del libro porta a interrogarsi sulla possibilità dell’uomo di restare tale, di adattarsi e riadattarsi a situazioni disumane, facendo dello scambio umano una ricchezza, nonostante la privazione, la paura e la sofferenza.

Le leggi della guerra sono dure. Se mai può esserci qualcosa di buono in una guerra è che tira fuori dalle persone il meglio e il peggio: alcuni cercano di approfittare della mancanza di legalità per fare del male al prossimo, altri tentano di ridurre al minimo la sofferenza altrui.

Fra il 2003 e il 2004 Slahi vivrà sulla sua pelle il piano di interrogatorio speciale: turni di sveglia sulle 24 ore, percosse, molestie sessuali, finte informazioni su altri arresti in famiglia, sbalzi di temperatura, isolamento costante, privazione del cibo o iper alimentazione, una simulazione di rapimento con il corpo cosparso di cubetti di ghiaccio. Nonostante questo riuscirà a instaurare rapporti umani sinceri con alcune delle guardie, grazie anche alla sua profonda fede. E questo in un mondo che consiste in una cella di due metri per tre, dove anche solo un’ora di sonno o una bottiglia d’acqua fanno una grande differenza.

Immaginate soltanto di andare a letto, mettendo da parte tutte le vostre preoccupazioni, godendovi la vostra rivista preferita che vi accompagnerà nel sonno, dopo che avete messo a letto i bambini e la vostra famiglia sta già dormendo. Non avete paura di essere trascinati fuori dal letto nel mezzo della notte, portati in un posto che non avete mai visto prima, privati del sonno e terrorizzati. Ora immaginate di non avere nessuna voce in capitolo riguardo alla vostra vita, quando dormire, quando svegliarsi, quando mangiare, e a volte quando andare in bagno. Se immaginate tutto questo, ancora non potete capire cosa sia la prigione a meno che non l’abbiate provata in prima persona.

 

Nota. Sui prigionieri (yemeniti) a Guantanamo potete leggere anche il servizio di Laura Silvia Battaglia pubblicato sull’ultimo numero di Reportage.

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