“Lo scrittore afropolitano è un’invenzione della critica” – Intervista a Alain Mabanckou

di Francesca Bellino

“Il pericolo maggiore per i neri è rinchiudersi nella propria negritudine”. Secondo lo scrittore congolese Alain Mabanckou l’autocritica  deve essere la prima cosa per gli africani, emigrati e non. L’importante è di non vivere in contrapposizione  con la cultura bianca. Nato nella caotica Pointe-Noire, nel Congo Brazzaville, vissuto in Francia dove ha studiato e ora trasferitosi a Los Angeles dove insegna all’università,  Mabanckou la sua autocritica ha scelto di farla attraverso la letteratura. Ha scritto numerosi romanzi ottenendo sempre importanti riconoscimenti e facendosi conoscere in tutto il mondo. In Italia, grazie alla casa editrice 66thand2nd, sono arrivati “Black Bazar”,  che è stato tra i primi venti romanzi più venduti in Francia, “Domani avrò vent’anni”, che ripercorre la sua infanzia e, ora, “Zitto e muori”, un divertente poliziesco in cui il protagonista, Julien Makambo, diventa vittima dei suoi complici della mafia congolese a Parigi, dunque della sua comunità, del suo mondo.

Tutti i libri di Alain Mabanckou sono un’ottima opportunità per capire come funziona l’immigrazione africana in Francia e per ridere su alcune ossessioni collettive. In “Zitto e muori”, tradotto da Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco, in particolare, si scopre quando importante sia l’abbigliamento per i congolesi descritti come edonisti simili a pagliacci, maniaci del lusso e del colore, ossessionati dagli abiti firmati. I personaggi cadono spesso nel ridicolo, ma allo stesso tempo appaiono così veri. Non solo gli africani, ma anche i parigini che popolano il libro, come le ragazze pronte a tutto pur di avere amanti di colore.

Mabanckou_AlainAlain, nei suoi libri mostra diversi aspetti della vita degli africani a Parigi. C’è molta differenza tra le abitudini di una comunità africana e un’altra o esiste un’identità nera unica in Francia?

In “Zitto e muori” s’incontrano più comunità: i maliani, i congolesi, i caraibici. Questo dimostra che non esiste una comunità unica in Francia. Ogni gruppo di africani è vincolato da legami con il suo Paese d’origine. E queste comunità non sono necessariamente collegate. C’è una grande differenza tra la vita dei maliani e quella dei congolesi che vivono in Francia. Questo è forse il motivo per cui non si può dire che esiste una comunità nera in Francia, come nel caso degli Stati Uniti.

Che ne pensa dell’etichetta “afropolitan”,  riferita all’insieme  di romanzieri africani cosmopoliti che vivono nei Paesi occidentali e ne descrivono la globalità? Si riconosce in questa definizione?

È un pericolo incasellare gli scrittori dentro delle categorie. Esiste una cultura “afropolitana”? Non penso. Ogni individuo vive un’esperienza personale legata al suo percorso. E la globalizzazione non è un fenomeno dei tempi recenti. Anche nei romanzi africani dell’epoca coloniale si trattava il tema dell’incontro tra culture: l’Europa e l’Africa, o l’America. Preferisco lasciare il compito di parlare di “afropolitanismo” ai critici letterari. Non mi ritrovo in questa definizione. Resto dell’idea  che ogni scrittore fa la sua strada. La storia della letteratura mostra che la creazione non ha confini e che le più grandi opere sono state a volte scritte all’estero. Per esempio, Gabriel Garcia Marquez ha scritto “Cent’anni di solitudine” in Francia.

Ha vissuto molti anni in Francia, ora vive in California. Quali sono le principali differenze nella vita degli immigrati africani?

Cover zitto e muoriL’Europa non è stata in grado finora di gestire la questione dell’immigrazione. Forse perché era una potenza durante il colonialismo. Gli africani sono arrivati in Europa perché sono stati chiamati durante le guerre mondiali o per studiare, ma anche a causa della situazione politica ed economica africana. Oggi, in Europa, l’immigrato è considerato un “nemico”. L’America è una terra di popolamento: sono tutti immigrati, tranne gli indiani. C’è già la cultura dell’etnia negli Stati Uniti. Eppure non tutto è roseo: i messicani e di altri latinos soffrono della politica  americana nei loro riguardi.

Come è nata l’idea di “Zitto e muori”?

Ho vissuto in un quartiere della città di Montreuil, vicino Parigi. Qui vivono i maliani e alcuni africani del Maghreb. Per me è stato un laboratorio sociale, il mio romanzo è nato dall’osservazione delle abitudini di questi immigrati.

Quanto è importante l’ironia nella letteratura di oggi?

È necessaria, e viene da lontano. Si trova nelle favole, nei grandi romanzi del passato. L’ironia è senza dubbio il modo più libero di affrontare la questione del malfunzionamento delle società.

In letteratura, esiste il “giallo all’africana”? Ha dei modelli tra gli scrittori specializzati nel genere poliziesco?

È difficile  dire, perché la definizione del romanzo poliziesco è diventata vasta. Non c’è più un ispettore che indaga su un crimine e nient’altro. Il thriller mostra ora altre angolature: può riferirsi a una storia in cui non vi è alcun omicidio. I problemi psicologici sono diventati importanti. In questo senso posso dire che molti dei romanzi africani di oggi possono essere considerati polizieschi, thriller. Io sono molto ispirato dall’americano Chester Himes. Perché ha saputo dipingere la società americana, l’ambiente dei neri americani.

Cosa consiglierebbe ai politici italiani ed europei per evitare altri morti nel Mediterraneo ?

Queste tragedie ci mettono davanti alle nostre responsabilità. L’Europa si presenta come un paradiso, gli africani pensano che sia sufficiente andarci per avere successo. È necessario, quindi, che l’Europa abbia una politica reale d’immigrazione che si concentri anche sull’aiuto dei Paesi dai quali prende le sue materie prime. Ma le dittature africane hanno anche una responsabilità: se la democrazia esistesse in Africa avremmo meno drammi come quello appena visto a Lampedusa.

 

 

 

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