“Quando lo torturavano gridava il mio nome”. La storia di Valerio Fiorentini, ucciso alle Fosse Ardeatine, raccontata dalla figlia – di Aldo Benassi

“Io ce so’ andata al processo de Priebke, alla fine gli ho gridato ‘assassino, assassino!’, ancora me sentono”. Chi parla è Celeste Fiorentini, figlia di Valerio, capo dei quindici gappisti del Partito comunista italiano che durante i nove mesi di occupazione nazifascista a Roma operavano nell’ VIII zona (comprendeva le borgate del Prenestino, Torpignattara, Quadraro, Centocelle e Quarticciolo). Valerio venne arrestato il 4 marzo 1944 a causa di una delazione, mentre insieme ad altri quattro gappisti si recava a piazza Bologna con la circolare interna per uccidere un ufficiale italiano a servizio delle Ss. Fu torturato a via Tasso e barbaramente assassinato alle Fosse Ardeatine venti giorni dopo, subirono lo stesso destino due compagni che erano con lui, Paolo Angelini e Carlo Camisotti.

La prima volta che sono stato accolto da Celeste nel suo appartamento a Centocelle, in via Tor de Schiavi, volevo raccogliere quanti più elementi possibili mi permettessero di ampliare la mia tesi di laurea triennale sui Gap del Pci a Roma. Ma nel corso dei nostri colloqui mi sono reso conto dell’importanza della memoria privata, che va oltre la declinazione pubblica fatta di cerimonie, libri e speciali in televisione. L’emblema di tutto ciò è rappresentato da una scatola in cui sono conservati alcuni abiti di Valerio, le sue lettere dal carcere di Regina Coeli – in cui aveva trascorso un periodo di detenzione nel 1943 – un cedolino che certifica il versamento a suo favore di 50 lire da parte della moglie Paolina Vapori e il cartellino numero 116 assegnato dal medico Attilio Ascarelli, la cui opera di ricomposizione e riconoscimento di 333 delle 335 salme dei Martiri Ardeatini è ricordata da una lapide fissata a una parete del Mausoleo.

Prima che un perfetto estraneo come me ci mettesse le mani, Celeste non era mai riuscita a guardare dentro quella scatola: “Un giorno dissi a Domenico (il marito, ndr), perché non l’apriamo? Ma poi niente, non ce l’ho fatta”. Dei partigiani che non hanno avuto la possibilità di raccontare la propria esperienza in forma scritta oppure orale è quasi impossibile poter ricostruire il periodo precedente all’impegno nella Resistenza. A questo proposito, Celeste estrae da un cassetto un mucchietto di foto tenute insieme da un elastico, in alcune di esse il padre Valerio viene ritratto durante il periodo – a metà degli anni ’30 – in cui insieme alla famiglia si era trasferito in Libia, a Bengasi, per cercare fortuna. “Guarda n’do stava mi padre, qui s’era arrampicato su un albero di datteri, era proprio matto”, afferma ridendo, poi aggiunge: “Mo’ che mi viene in mente, queste foto mio padre le mandava a una zia che abitava nello stesso palazzo in cui abitava mamma, così le faceva avere sue notizie”.

Fausta, la madre di Valerio, si era sempre opposta al fidanzamento con Paolina: “Mi nonna c’aveva l’hobby de esse tirchia e non si voleva imparentare con la famiglia di un bottigliaro, ovvero mio nonno materno Alceste. Quando i Fiorentini tornarono da Bengasi comprarono una casa a Porta Furba, un po’ de soldi l’avevano messi da parte. Dopo che papà era morto un giorno mamma mi portò in braccio da Torpignattara a casa de nonna per chiedere un piatto di minestra, io non mangiavo da un giorno. Lei rispose che il piatto di minestra per lei e per la figlia (non ero la nipote, ero solo la figlia di mia madre) c’era, ma non c’avrebbe dato una lira. Era tremenda”. Nonostante tutto, Valerio e Paolina si sposarono l’8 dicembre 1940: “Il viaggio di nozze l’hanno fatto al cinema Brancaccio. Vanno lì, ma non trovavano posto, così papà disse a mamma “Paolì non te move” e lui si mise a fumare il sigaro, la gente se ne andò e je disse hai visto, t’ho trovato il posto. Quello che però me dispiace è che papà era troppo geloso con mia madre, se si pettinava voleva sapere dove fosse andata e volava pure qualche schiaffo”.

Celeste è nata il 28 ottobre del 1941: “Mi padre era disperato perché l’aveva preso come un dispetto, so’ nata nell’anniversario della marcia su Roma! Evidentemente aveva già iniziato l’attività col partito…”. È la nonna materna Tommassina a raccontarle di Valerio negli anni successivi alla morte: “Nonna m’ha cresciuta, è stata favolosa. Me raccontava che quando papà era detenuto a Regina Coeli, c’era un fornaio che davanti casa nostra se faceva telefonà e io parlavo con lui, ma io ovviamente non me lo ricordo. Quando invece stava a via Tasso, un giorno venne a casa un ufficiale tedesco perché papà quando lo torturavano faceva sempre il mio nome. Ce portò delle gallette e altre cose”. Poi “mamma me mise in lutto, col fiocco nero in testa, i pedalini neri, il vestitino con la striscetta qui – indica il braccio – e quando portavo il lutto de papà c’avevo due anni e mezzo. La mia è stata una fanciullezza triste, mi madre per anni ha vestito de nero e gli è calata la vista per questo. Era bella, alta, ‘na carabiniera, ma non ha voluto altri che Valerio”.

Dopo la liberazione di Roma nel giugno 1944, la famiglia rimase per mesi senza notizie di Valerio: “Mamma l’ha saputo dopo sette mesi, misero i manifesti per strada che invitavano ad andare alle Fosse Ardeatine. Mi madre insieme a nonno Gastone andarono lì, riconobbero papà dagli scarponi fatti a mano, il cappotto da sposo perché faceva freddo e dai denti. Tutto questo m’è stato raccontato talmente tanto presto che dopo un po’ era diventata come una favola, non ce piangevo”. Ma come mai a Valerio Fiorentini è stata assegnata la medaglia d’argento e non quella d’oro? “Mamma non se n’è mai approfittata di questo status, non ha voluto girare per gli uffici affinché papà fosse medaglia d’oro e ha rifiutato la licenza di una tabaccheria come risarcimento. Ha lavorato come bidella e poi all’avvocatura del Campidoglio. Una cosa che me ricordo bene è la cerimonia di consegna delle medaglie alla caserma Macao, sembrava un campo de pallone aperto e c’era un palco dove ti chiamavano… poi c’erano i militari, la banda, ricordo come se fosse una festa, anche se era per una cosa brutta”.

Una mattina io e Celeste ci incontriamo alle Fosse Ardeatine, sono trascorsi pochi giorni dal 25 aprile. Celeste non partecipa mai alle celebrazioni ufficiali: “Non me piace, non voglio mettermi in mostra. Da piccola c’andavo con nonna, ricordo che partivamo a piedi da Torpignattara e arrivavamo qui, come se fosse una gita fuori porta. Sai perché non me piace? Se mettono lì sul palco tutti impettiti, con le medaglie e non mi garba. E non me piace nemmeno quella pietra d’inciampo che hanno messo davanti casa a via Torpignattara, perché ce se monta sopra, se calpesta, passano mille persone e la scritta sicuramente si consumerà”. Quando entriamo a visitare la grotta si commuove: “Me ricordo come fosse oggi che qui all’inizio era tutto pieno de bare, non c’era ancora il Mausoleo. Pensa che accanto alla tomba de mi padre c’è quella di Banzi Aldo, la madre la trovavo sempre lì seduta accanto. Un giorno c’era l’autobus che aspettava che salisse, ma poi la trovarono morta lì”. Nonostante la memoria della Resistenza rischi di sbiadirsi per la progressiva scomparsa dei suoi protagonisti, Celeste è fiduciosa: “Io ho conservato i libri e la scatola perché ce tengo al fatto che i miei figli, i miei nipoti e quelli che verranno c’avranno da ricordà una cosa triste con orgoglio. Questa storia non andrà mai persa, perché è come quella de Nerone, se tramanda. Così sarà pure pe’ le Fosse Ardeatine”.

 

 

 

 

Ph. Benito Mussolini durante il discorso di dichiarazione di guerra dell’Italia a Gran Bretagna e Francia, 10 giugno 1940.

 

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