Sandro Penna, una strana gioia di vivere – di Fernando Acitelli

“Sandro, faremo l’amore fino a novant’anni”
Pier Paolo Pasolini.

 

Corso Vittorio, Piazza dell’Oro, la basilica di san Giovanni Battista dei Fiorentini, il Lungotevere alla vista. La poesia non può che sgorgare. E la grande poesia ha abitato da queste parti. Al civico 28 di via della Mola dei Fiorentini – stradina un po’ in discesa che poi si pone in piano e che alla fine mostra una scalinata che sbocca sul Lungotevere – è rimasto soltanto un cognome a permetterci di tornare al tempo di Sandro Penna, di ricreare il “sapore d’epoca”; di rivedere l’ultimo tratto di vita del poeta. Si tratta della famiglia Lacchè, citata anche da Elio Pecora nella sua bella biografia sul poeta, uscita nel 1984.

La sensazione, là davanti, è che soltanto quel cognome ci consente di riagganciarci a quell’esistenza lirica. Verrebbe da chiamare qualcuno della famiglia, salire, farci raccontare quanto del poeta nato a Perugia nel 1906 ancora non sappiamo. Ci potrebbero essere dei raccontini, delle “scorciatoie” inedite che soltanto quella famiglia potrebbe narrarci. Ci si imposta davanti al citofono e per un attimo si ha voglia di pigiare il pulsante e farsi aprire per salire in alto. Raggiungere l’ultima dimora di Penna, al quarto piano. Già salire le scale sarebbe come accarezzare i passi remoti del poeta, sfiorare la ringhiera di ferro da lui toccata, ripercorrere le sue uscite ed i rientri con la sua maglia di lana a bottoni e con una giacca gessata, residuo d’un antico completo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La famiglia Lacchè aveva le chiavi della casa di Penna, il quale ormai non usciva più da casa. Lo aiutavano in tante faccende, dall’acquisto del cibo ai medicinali. Il portone ora è dipinto con una vernice grigio chiaro e del legno originario (e senza vernice) è rimasta l’immagine che m’impressi dentro più di trent’anni fa. Non una targa, a ricordare il poeta. Eppure s’è trattato d’un grande poeta. E pensare che dall’altro lato del Tevere, precisamente in Lungotevere Mellini, più spostati verso il quartiere Prati, sopra un portone è fissata una lastra di marmo che ricorda la nascita, lì, d’un altro poeta, Giorgio Vigolo, grande studioso del Belli e autore, fra le altre opere, di Città dell’Anima (Roma) e Conclave dei sogni. Ma torniamo a Penna: è quel portone al civico 28 il luogo dove poter riflettere sulla vita del poeta dimenticandoci per un attimo dei suoi splendidi versi. E’ quello il domicilio conosciuto; è il luogo dove visse “recluso nella vecchiezza” avvistata da sempre e tanto temuta; e dentro, una stanza colma di tutto: pile di libri, quadri, medicinali, maglioni, il telefono in attività anche di notte; insomma s’era in quell’abbandono che soltanto un poeta può concepire. Forse nella raccolta Stranezze c’è un accenno a questa casa: “La camera mobiliata nel vicoletto./ Il campanile su dai piedi del letto./ Non è forse l’amore un nodo stretto/ fra l’angoscia e il diletto?/” Degli altri suoi domicili romani soltanto nebbia e fumo: casa in via Caio Mario e via Quintino Sella con la madre, il fratello e la sorella.

Prima d’inoltrarci nei versi che meglio di altro sanno spiegare le eleganze e il dolore del poeta quaggiù, si potrebbe dire che Roma fu la città che Penna cercava sin dall’adolescenza, la città dove incontrò Umberto Saba, in un Caffè a piazza Barberini dopo che nelle poesie inviate alla libreria di via S. Niccolò a Trieste s’era firmato con lo pseudonimo Bino Antonione. Si riconobbero con i primi versi d’una poesia che Penna/Antonione gli aveva inviato e che recitò a colui che lo stava fissando: “Nel fresco orinatoio alla stazione/ sono disceso dalla collina ardente”. Gli abbracci vennero subito.

Vi sono luoghi esatti, anonimi ma strategici nella poesia di Penna; con Roma a disposizione, avrebbe avuto tanti fondali da citare ma non nomina mai il luogo esatto della città, il quartiere, lo scorcio; e lo stesso accade per i cinema, i caffè, le trattorie. Al contrario del Vigolo e, ad esempio, del suo Vicolo Scandeberg

Nelle prose Un po’ di febbre qualche nome ogni tanto appare come Lido di Roma, Quartiere Trionfale, San Pietro ecc. Nelle poesie tutto, senza indicazione, si fa assoluto, e ogni luogo innalzato nel suo tratto universale scansa di fatto la dimensione temporale; la paura della precisione ha forse a che fare con il timore del divenire, di perdere giorni e così l’innocenza anche della recita, del fraseggio amoroso. Nella sospensione del tempo, l’immobilità delle forme è una certezza. La fuga dalla storia è realizzata e in una tale condizione peccato-punizione- angoscia concedono una tregua. Potremmo anche dire che la solitudine riguardò Penna per tutta la vita: “E poi son solo. Resta/ la dolce compagnia/ di luminose ingenue bugie”.

A indovinare i luoghi di Roma è impresa ardua. Proviamoci con la poesia intitolata Notturno: “Il sedile di marmo mi era caro/più che la chiesa che intanto guardavo./” (…) Di quale luogo potrebbe trattarsi? E allora sogniamo un poco per vedere all’opera Penna: il sedile di marmo potrebbe essere a San Pietro ma anche quello di palazzo Farnese e la chiesa quella a sinistra dell’Ambasciata di Francia, ovvero S. Brigida. Ma poi egli continua: “Ma quello che più amavo, o mia città/ straniera, quasi più non ritrovavo./(Dormiva respirando piano piano:/ quasi ad ogni finestra io lo vegliavo”. Il fanciullo è chiamato in scena ma non c’è; forse lo vedrà, lo rivedrà ma per il momento c’è il sedile di marmo e la chiesa, cioè la morte. Ecco la sfida continua di Penna, il suo tormento.

Nella poesia di Penna l’indicazione del “dove ci si trova” non serve perché la realizzazione momentanea di sé (quello che veramente salva) viene subito dopo il fondale reso col tocco: fanciullo, ragazzo, soldato. Il talismano è composto, neutralizzato il peccato e allora si può procedere, affrontare altri scenari del giorno. Quest’ultimo è un orario continuato sull’amore, un affresco senza fastidi. Tutto è presente ma delineato beatamente in un confuso sogno. Il passato è archiviazione (e spesso dolore) mentre il futuro è minaccioso.

Non è necessario dare spiegazioni sui luoghi, eppure, ripetiamo, siamo in un’infinità di location barocche, di vestigia romane, di antri popolari: tutto comunque tace. Ma se Pasolini definì Penna “il più grande critico d’arte orale del Novecento”, ebbene, avremmo desiderato che Piuma, come lo chiamava Montale, avesse illuminato in versi l’arte di certi scorci urbani, trattandoli, appunto, da poeta.

Penna è stato uno dei rarissimi poeti che ha scansato lo sfoggio di sapere, e poi ideologie e impegno, le consorterie letterarie, le aspirazioni e il brigare facile, spesso caratteristica degli artisti. Sempre fuori le quinte di scena della storia infinita: mai finirci dentro.

Si limitò a cantare il suo amore: “Sempre affacciato a una finestra io sono,/ io della vita tanto innamorato.” (…) Osava schegge di sublime perché innamorato appunto della vita e dei fanciulli. Il resto, il “mondo adulto” non solo lo intristiva ma non lo capiva, lo impressionava perché fuori dal “dolce rumore della vita”. Una gioiosa indifferenza dinanzi ai grandi eventi: “La folla gridava «a noi!» «a noi!»/ ed il nero imperava sotto il sole./ Ma il nuovo piano Regolatore!/ L’irrequietezza degli orinatoi!/ E la sera la calma paura dei gatti”.

Le vere location sono i posti da lui vissuti. Ecco alcuni incipit:  “Sul l’esiguo sedile accampati, mi voltava il suo quarto di luna”. E ancora: “Non moriva la luce ove un soldato/solitario sedeva a un parapetto”. Quindi: “Nei vicoli notturni ove rimane/ un fanciullo superstite la mia/ vita si gonfia di malinconia”. Per giungere poi alla descrizione d’un interno caldo, affettuoso e familiare: “Se appare il mio ragazzo all’osteria”. Si direbbe che la tensione emotiva ha il suo sbocco nei versi là dove l’incontro con l’amato ha possibilità di compiersi già soltanto con la vista. E’ già il prima a donare il sereno, l’accomodarsi della mente su una possibilità. Poggiarsi su una splendida immagine e poi sognare di acchiapparla, possederla; non è necessario che poi si realizzi il sogno ma ogni luogo è per il poeta una sorpresa, una speranza amorosa: “Ragazzi, questa sera/di giugno, non tornerà più mai./Queste cose sapete./Ma come dire, come dire a voi,/quello che siete/questa sera”. (…)

Ma tutto questo reca con sé anche la paura, quella che il paradiso terrestre creato dal poeta, vero “legislatore mitico” per dirla con Cesare Garboli, finisca all’improvviso e che le cose si facciano terribilmente serie.

Grande Sandro Penna! Hai insegnato a tanti, in silenzio, cosa significhi essere poeta, come non cambiare mai il tema e il modo in cui trattarlo per tutta la vita è una grandezza perché fa splendere passione e dolore. Grande il tuo startene in disparte e attutire i colpi bassi della vita e anche dell’amore.

Tutto il centro di Roma odora di Sandro Penna, dai Lungotevere alle stradine attorno a Campo de’Fiori e via Giulia. Ripercorriamolo l’itinerario penniano, è facile se si è in confidenza con il vagabondaggio e con la distanza da tutto meno che dall’amore: Piazza Navona, bar Domiziano, via di Tor Millina, via della Pace, Vicolo del Corallo, via del Governo Vecchio, piazza dell’Orologio, via dei Banchi Vecchi, piazza dell’Oro. E poi un taccuino in tasca e un lapis. A quel punto, giungendo sotto la sua casa, è giusto e confortante ripetere: “Amavo ogni cosa nel mondo. E non avevo/ che il mio bianco taccuino sotto il sole”.

 

 

ph. Sandro Penna con Pier Paolo Pasolini

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