“Quando hanno aperto la cella. Storie di corpi offesi” – di Luigi Manconi e Valentina Calderone

di Maria Camilla Brunetti

Quando hanno aperto la cella – di Luigi Manconi e Valentina Calderone (Il Saggiatore)

Libro-inchiesta a firma di Luigi Manconi e Valentina Calderone, “Quando hanno aperto la cella” affronta uno degli aspetti più oscuri della realtà concentrazionistica italiana attraverso il racconto delle storie di cittadini comuni che sono entrati nelle carceri, negli ospedali psichiatrici giudiziari, nelle questure italiane e ne sono usciti privi di vita. Sono storie di false testimonianze, insabbiamenti, corruzione, depistaggi, che coprono prassi di tortura e di omertà, uno dei volti più torbidi e feroci del nostro Paese. Il caso Pinelli, quello di Stefano Cucchi, la storia di Federico Aldrovandi, di Giuseppe Uva – tra le altre – testimoniano il fallimento del patto sociale, del rapporto tra la vita del cittadino e la capacità dello Stato di difenderla. Tra i primi doveri dello Stato vi è, infatti, l’intangibilità fisica e quindi psichica delle persone. Quando è lo Stato a profanare questa incolumità, esso perde la sua funzione primaria di garante e quindi la sua legittimità istituzionale. Cosa succede all’interno delle carceri, delle questure italiane? Come è possibile che cittadini vi entrino in salute e non ne escano vivi? Chi sono i responsabili? Da chi sono protetti? Di quali tappe si compone il calvario dei familiari delle vittime, che non si arrendono all’evidenza e lottano per chiedere che giustizia sia fatta? Questo libro inchiesta è anche la storia di coloro che restano, la storia di Ilaria Cucchi e di Haidi Giuliani, la storia di Licia Pinelli e di Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi. In postfazione al libro Ilaria Cucchi scrive: “Quando ti tocca in sorte una simile tragedia, devi mettere in conto tante e dolorose conseguenze. E il solo strumento che hai è lottare, con quel briciolo di forza che ti rimane, spesso contro tutto e tutti. È il solo modo per far sì che le persone «comuni» escano dallo stato di assuefazione in cui tutti noi siamo ridotti e si rendano conto che le storie raccontate in questo libro, e le tante altre che quotidianamente si ripetono, riguardano il mancato rispetto dei diritti umani fondamentali. Riguardano il rapporto acutamente deteriorato fra lo Stato e i suoi cittadini. E pertanto devono necessariamente riguardare ciascuno di noi. E ciascuno di noi è tenuto a farsene carico”.

 

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Ne parliamo con Luigi Manconi.

Le storie raccontate in “Quando hanno aperto la cella” testimoniano che in Italia ci sono, come li definisce Gustavo Zagrebelsky in prefazione al libro, “luoghi inespugnabili dove più che la sovranità del diritto regna la legge dell’arbitrio”. Carceri, ospedali psichiatrici giudiziari, questure, Cie. Luoghi impenetrabili di pratiche concentrazionistiche in cui si viola la sacralità del corpo dell’uomo. È così?

È esattamente così e noi nel libro lo documentiamo ricostruendo vicende, di vita e di morte, che si dipanano all’interno di strutture dello Stato dove la tutela che l’ordinamento prevede, per coloro che vi si trovano custoditi – alla prova dei fatti – si rivela spesso debole, talvolta debolissima, altre volte addirittura inesistente. Diritti e garanzie che, all’interno di luoghi per definizione dello Stato, è come se venissero o costantemente violati o pervicacemente ignorati o comunque ridotti ai minimi termini. Una prima domanda da porsi è se questo succeda ovunque. Se avvenga in tutti questi luoghi, strutture, istituti. Ovviamente no. Altrettanto ovviamente è impensabile fare una rilevazione statistica che certifichi la percentuale dei luoghi dove domina l’arbitrio. I dati da noi raccolti, le vicende che raccontiamo, dicono in primo luogo che quell’arbitrio si trova con notevole frequenza, in seconda istanza che la tendenza non va verso una normalizzazione che riduca il reiterare dell’arbitrio ma – al contrario – va verso un più frequente ricorrere di quello stesso arbitrio. Si assiste in Italia a una sorta di circuito integrato del sorvegliare e punire, una sorta di sistema chiuso costituito da molte tappe, da una pluralità di passaggi, che scandiscono i movimenti di una parte della popolazione che dentro quegli istituti successivamente si trovano a passare. Come se vi fosse una sorta di rete del sorvegliare e punire, della repressione, dell’esclusione, della negazione dei diritti che è fatta sì dal carcere ma anche dall’ospedale psichiatrico giudiziario, sì dai Cie ma anche dal Tso, che viene utilizzato come strumento di disciplinamento e non di controllo ai fini di cura. Tutti questi passaggi poi sono, a loro volta, scanditi da altre tappe che segnano il precipitare lungo la scala sociale di determinati gruppi di persone. Le mense della Caritas, il numero sempre crescente di persone che recuperano avanzi dalla spazzatura; comportamenti e gesti che rimandano a una sorta di impoverimento di una quota sempre più crescente della popolazione.

Cittadini vittime di uno Stato che per definizione, deve assicurare loro tutela. Quando si tratta di cittadini extra comunitari la situazione si fa ancora più critica. Il silenzio è totale. Non viene fornito loro un interprete, nessuna copertura legale, non gli viene data la possibilità di mettersi in contatto con le famiglie. Le loro vite, così come i loro decessi, divengono invisibili. La condizione della popolazione penitenziaria straniera è un fattore rilevante, considerato che rappresenta il 37% della complessiva popolazione carceraria italiana. Qual è la situazione? Che ruolo ha il lavoro svolto dalle associazioni che operano in questo senso?

Negli ultimi anni la situazione è solo peggiorata, tutti i dati che esponiamo nel libro, così come le storie che abbiamo raccontato, disegnano un panorama che fino a che non vi saranno provvedimenti radicali, profondi, con grande investimento di mezzi, persone e risorse economiche non può far altro che peggiorare. La popolazione straniera detenuta si mantiene a livelli molto alti e grande parte di questa popolazione è costituita da centinaia e centinaia di persone che sono responsabili, solo ed esclusivamente, di ingresso o soggiorno irregolare, quindi non di reati contro il patrimonio o contro la persona ma di comportamenti collegati al loro stato esistenziale. Sono migranti, necessariamente chi migra si sposta, chi si sposta può talvolta rispettare le regole e talaltra no. Quando queste regole non vengono rispettate, come previsto dal pacchetto sicurezza, queste persone possono incorrere in sanzioni che li portano addirittura al carcere. Finché ci saranno queste norme e finché non si interverrà con strategie di lungo periodo e anche con risorse significative, la situazione non potrà fare altro che peggiorare. Le associazioni funzionano, talvolta egregiamente, da tampone, da cerotto, da pronto soccorso, ma non possono avere un ruolo risolutivo. Io sono presidente di un’associazione che si occupa di questo, che svolge azione di tutela legale, ma so che la nostra opera, benché la consideri fondamentale, tuttavia è un provvedimento tampone.

Di cosa si occupa, nello specifico, “A buon diritto”, l’associazione di cui è presidente dal 2001?

È un’associazione particolare perché non fa proselitismo, non mira ad avere associati, militanti, iscritti. È sostanzialmente una lobby, ma dal momento che in Italia il termine “lobby” è screditato, qualcuno dice che siamo una lobby virtuosa, una lobby buona. Non ritengo sia necessario fare questo tipo di specificazione, e quando accetto la definizione di lobby intendo semplicemente dire che noi non siamo un’associazione di iscritti. Siamo un gruppo che indaga con strumenti sociologici la realtà, trasferisce le informazioni e le analisi raccolte sul piano mediatico e interviene sul piano politico. Da anni conduciamo ricerche su tre temi. Il primo è quello della privazione della libertà, dalle carceri agli ospedali psichiatrici giudiziari, al trattamento sanitario obbligatorio. Il secondo tema è l’immigrazione, abbiamo fatto le prime ricerche in assoluto sul rapporto tra italiani e stranieri, e parlo dell’89. Lavoriamo molto sull’assistenza legale ai richiedenti asilo, che è una delle nostre principali attività, con due sportelli legali e più di venti avvocati. Il terzo tema che trattiamo è quello del testamento biologico e delle questioni legate al fine vita. Una visione che risponde a specifiche modalità d’azione. In genere il lavoro che facciamo nasce dalla ricerca sul campo e dall’indagine sociale che diventa una buona capacità di comunicazione e infine una concreta azione parlamentare.

Un altro aspetto comune a quasi tutte le pratiche di violenza, è quello della degradazione della biografia delle vittime da parte degli apparati responsabili delle violenze stesse. È successo per Stefano Cucchi, per Federico Aldovrandi, per Giuseppe Uva, tra gli altri. Una seconda morte inflitta mediante la distruzione della loro dignità di esseri umani, della loro credibilità, “quasi che l’inaudito scandalo della responsabilità dello Stato nella morte di un cittadino possa essere attenuato da un processo di svalutazione della sua dignità”. Il 4 settembre Lucia Uva, sorella di Giuseppe Uva l’operaio quarantenne morto la notte del 14 giugno 2008 dopo essere stato trattenuto per due ore e mezzo nella caserma dei carabinieri di Varese, scrive una lettera al pontefice nella quale parla della storia del fratello e chiede udienza. L’11 settembre, insieme a Ilaria Cucchi e ad altre donne familiari di vittime di violenza di Stato, Lucia viene ricevuta in udienza da papa Francesco. Può essere considerato un precedente importante?

È un fatto molto importante in sé e ancora più importante per Lucia Uva. Questa donna da sola, totalmente da sola, ha fatto sì che la vicenda della morte di suo fratello non finisse in archivio e non venisse condannata all’oblio. L’ha fatto in una città che non le ha mai dato ascolto – Varese – e non le ha dato alcun sostegno. Questa donna è riuscita a far sì che quel tema diventasse questione di rilievo nazionale. Non solo ha mandato un fax al papa, ma il papa l’ha ricevuta in udienza, le ha parlato e lei ha potuto consegnargli una cartelletta contenente le biografie delle cinquantasette vittime della violenza di Stato. Da sola, in questo suo straordinario lavoro per riuscire a rompere il muro del silenzio, è riuscita ad ottenere grandi risultati. Nella risposta a un’interrogazione da me fatta, il Ministro della Giustizia Cancellieri – che ha ricevuto Lucia Uva, Ilaria Cucchi e altri familiari di vittime di Stato – sulla questione relativa alla morte del fratello ha detto parole finalmente inequivocabili che possono far sperare sull’apertura di un procedimento che da anni invece è stato tralasciato, trascurato, sostanzialmente ignorato.

Ed è stata un’azione di rottura del silenzio anche quella di Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, che scelse di aprire un blog, riuscendo a far sì che la tragedia della morte del figlio non fosse dimenticata e che si iniziasse ad indagare su quanto successo.

Sì, nel libro dedichiamo molta attenzione proprio alle figure di queste donne. Tutte le vicende che abbiamo raccontato, a partire dal 1969 dalla morte di Giuseppe Pinelli, evidenziano il ruolo straordinario svolto da mogli, sorelle, figlie. Nel libro tentiamo anche un’interpretazione di questo fenomeno, perché è qualcosa di davvero importante.

Un’interpretazione approfondita di quella che può essere considerata la figura di Antigone?

Sì, è esattamente questo: un’interpretazione però in chiave contemporanea, e quindi molto diversa, della figura di Antigone. Antigone rappresentava il conflitto tra le ragioni del cuore e le ragioni dello stato, del potere. Qui è diverso. Perché queste donne non oppongono pura emozione a ragion di stato, non oppongono sentimento a razionalità, emozione a legge. Assolutamente no. Loro oppongono legge a cattiva legge, diritto a violazione del diritto, oppongono la loro lettura – a mio avviso non solo legittima ma rispondente a lettera e sostanza della Costituzione – oppongono questa loro lettura alla lettura del potere che spesso viola i propri stessi vincoli, le proprie stesse disposizioni, i propri stessi valori. Non dicono i nostri figli, i nostri padri non devono essere giudicati perché sono i nostri figli, i nostri padri. Dicono, al contrario, la legge che voi impersonate – voi poliziotti, voi carabinieri, voi giudici – dice che la persona fermata, soggetta a trattamento sanitario obbligatorio, la persona arrestata, quella detenuta devono essere tutelate. Bene, allora tutelatele. Voi dovevate tutelarli e non lo avete fatto. Ne avete consentito la morte, talvolta quella morte l’avete agevolata, talvolta l’avete causata. Siamo a cospetto dell’affermazione del principio della legge contro la violazione della legge. Quello che resta della figura di Antigone è la forza del femminile, fatta di razionalità e devozione, di sentimento e intelligenza. Dopodiché il campo di battaglia, il conflitto, si gioca intorno alla trasposizione contemporanea dell’antico antagonismo.

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