Come sono sopravvissuto ai campi di Pol Pot – di Davide Falcioni

“Come sono sopravvissuto ai campi di Pol Pot”

di Davide Falcioni

Il 17 aprile 1975 i khmer rossi entrano a Phnom Penh e rovesciano il regime di Lon Nol, appoggiato dagli Stati Uniti, che per anni avevano bombardato la giungla per impedire che i partigiani cambogiani dessero man forte a quelli vietnamiti: il Sentiero Ho Chi Minh, attraverso il quale guerriglieri del Vietnam del Nord si infiltravano nel sud, passava infatti anche attraverso la Cambogia: da lì transitavano uomini, provviste e armi. Nella notte la città si era ritrovata sotto il fuoco dell’artiglieria. L’esercito, dislocato nelle periferie a difesa delle principali vie di accesso, si era ritirato nel centro. Alle 9 del mattino, tuttavia, le truppe si arrendono: alla radio un giornalista – soprannominato “Faccia di Luna” per il suo viso paffuto – annuncia terrorizzato l’arrivo dei khmer rossi: “Eccoli, eccoli, eccoli che entrano. Che Dio ci salvi”. I guerriglieri entrano indisturbati in città, mentre dalle finestre delle case sventolano bandiere bianche in segno di resa. Sono perlopiù ragazzini, armati di kalashnikov e con le facce grigie e smunte dopo anni di clandestinità nelle foreste. Sono malati, stanchi e selvaggi come animali, ma nella popolazione suscitano subito una certa simpatia. “Finalmente – pensano i più – la guerra è finita”. Hanno ragione, ma non sanno che quella che sta per iniziare è la pace del camposanto.

Kong Ravy oggi fa la guida turistica di lingua italiana al seguito dei viaggiatori in bicicletta. Quel giorno aveva 25 anni, una moglie e un figlio. Viveva a Phnom Penh, in una casa non distante dal Mekong. Esultò anche lui all’arrivo dei liberatori. Ma una mattina quei ragazzini grigi e malati gli piombarono in casa con i fucili in pugno: “Via, via, tutti fuori: gli americani presto bombarderanno la città”. Ravy non capiva. Gli ordinarono di preparare un fagotto di viveri e vestiti, poi lo spinsero fuori di casa con la promessa che nel giro di qualche giorno avrebbero potuto farvi ritorno. Fece appena in tempo a salutare la sua donna che un guerrigliero lo colpì con il calcio del fucile e lo invitò a camminare alla svelta: insieme a lui a migliaia scappavano dalle proprie case, increduli.

Non ci fu nessun bombardamento americano. Era tutta una messa in scena organizzata da Pol Pot (il suo vero nome era Saloth Sar), il capo delle truppe ribelli e nuovo primo ministro, che nella sua folle lucidità voleva costruire una nuova Cambogia, ripartendo da zero, sul modello della Rivoluzione culturale cinese. Abbattere il capitalismo e la classe borghese per lui non voleva dire cambiare radicalmente il sistema economico. No, abbattere la borghesia voleva dire – letteralmente – abbattere la borghesia. Professori, intellettuali, maestri, impiegati vennero immediatamente passati per le armi. In pochi mesi fece decine di migliaia di morti tra coloro che, semplicemente, sapevano leggere. Vennero distrutte le biblioteche, venne abolito l’uso del denaro. Chiusero tutte le scuole (alcune divennero prigioni per i presunti “dissidenti politici”), vennero vietati i mercati, smantellate le banche. Le città si svuotarono completamente e divennero luoghi tetri e desolati. L’edificazione della nuova società di “uguali” doveva ripartire dalle campagne.

“Fantasmi, eravamo dei fantasmi”, racconta Ravy. Lui venne spedito in un villaggio a 400 chilometri da Phnom Penh. Gli consegnarono un pigiama nero, come a tutti gli altri, compresi la moglie e il figlio, dai quali era diviso ma che fortunatamente riusciva a vedere più o meno una volta al mese. I suoi genitori invece vennero uccisi perché avevano collaborato con i colonizzatori francesi. Per loro valse la regola: “Tenervi non comporta alcun beneficio, eliminarvi non comporta alcuna perdita”. Ravy marciò a piedi per giorni fino a raggiungere una risaia. Lì iniziò il suo inferno. Dall’alba al tramonto doveva stare chino a lavorare, con un militare a fianco. “Era vietato parlare – racconta – perché per loro voleva dire cospirare contro la rivoluzione. Così chi si lamentava veniva preso, di notte, e portato lontano poi ucciso a bastonate, poiché i proiettili costavano troppo. Io dormivo lì, per terra, con un telo di plastica in testa, e sentivo le urla della gente ammazzata. Tremendo”.

“Tremendo” e “fantasmi” sono le parole ricorrenti nel racconto di Ravy. “Per tre anni, otto mesi e venti giorni non ho mai visto un pezzo di sapone. Mangiavo un pugno di riso al giorno e quando qualcuno di noi si ammalava – e capitava spesso – doveva cercarsi le cure nella foresta. C’erano dei giorni felici, i pochi in cui incrociavo mia moglie. Oppure quando i khmer rossi organizzavano delle feste: allora si mangiava un po’ di più e c’era della musica. Mai sentita una canzone d’amore, solo di propaganda, ma meglio del silenzio quotidiano nelle risaie”.

Come si è salvato Ravy? Con tanta fortuna, riuscendo a sopravvivere alle malattie. E tenendo la bocca chiusa. Per quasi quattro anni praticamente non ha detto una parola. Ha lavorato chino sulla risaia, non ha parlato con nessuno, ha mangia il suo boccone, sperando che le cose cambiassero. E le cose cambiarono: i vietcong, anche loro comunisti, ma di altro tipo, con il sostegno di molti khmer rossi pentiti invadono la Cambogia e, il 6 gennaio del 1979, rovesciano il regime di Pol Pot. “Capii che le cose stavano cambiando una mattina, mentre come al solito ero chino sulle spighe di riso: udii una sparatoria, delle voci, i khmer rossi che fuggivano e i vietcong che avanzavano. Poi giunse la notizia che il regime era stato sconfitto. Allora mi incamminai verso il fiume, salii su una zattera e lo ridiscesi fino a Phnom Penh dopo giorni di navigazione. Trovai la città semi deserta: chi vi era tornato, come me, dopo anni, non ritrovò più la sua casa, oppure la trovò occupata da altri inquilini. Anche io mi infilai nella prima casa libera che trovai. Fortunatamente si salvarono anche mia moglie e mio figlio”.

Il regime di Pol Pot è stato uno dei più spietati della storia. In meno di quattro anni produsse quasi due milioni di morti, direttamente massacrati o deceduti durante il lavoro forzato e per fame, circa un terzo della popolazione cambogiana. Pol Pot è morto 15 anni fa.

 

 

 

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