I libri che abbiamo letto su Reportage numero 52

Che ci faccio io qui? | a cura di Maria Teresa Carbone (Italo Svevo Edizioni)

“La fotografia è la più grande sciagura del Novecento”, ha detto Thomas Bernhard. Il quale probabilmente prevedeva che un giorno, nello specifico con l’avvento dei social network, le immagini avrebbero forse superato numericamente le parole: oggi il mondo è un mondo di immagini, vere o false che siano, belle, sorprendenti, mediocri. Molto spesso, quelle dei “social”, inutili. Una perdita di tempo per chi guarda, la manifestazione del proprio narcisismo da parte di chi, senza alcun criterio selettivo e a bassa definizione, (si) fotografa. Un contributo decisivo alla trasformazione dell’occhio da attento a superficiale l’ha dato il network più recente, Instagram, fondato esclusivamente sulle foto degli iscritti che, come accade anche con Facebook – sono in primo luogo alla ricerca di consenso, elogi, sostegno, conforto. Grazie ai telefonini, oggi, ognuno di noi ha in tasca anche una “macchina fotografica” che può utilizzare in qualunque momento. Sedici scrittori italiani, tutti presenti su Instagram, sono stati sollecitati da Maria Teresa Carbone a chiedersi se – circondati, soffocati, influenzati da questa massa di immagini – non sia cambiato, per via di queste, anche il modo di scrivere. Il libro che ne è nato s’intitola – ricordando pericolosamente Chatwin – Che ci faccio io qui? Scrittrici e scrittori nell’era della postfotografia. Come dice Gherardo Bortolotti, “sono così tante le persone legittimate a produrre contenuti online che la figura dell’autore ne esce svuotata”. Come dire che l’ansia non è più per la “ firma”, ma – come quei pochi in televisione – quella di apparire a tutti i costi. Sul rapporto tra scrivere e fotografare l‘unica fotografa professionista del gruppo, Sabrina Ragucci, è piuttosto decisa: “L’immagine e la scrittura non dicono la stessa cosa, nemmeno se le poni di fronte allo stesso soggetto”. Alcuni scrittori utilizzano Instagram come un diario (Emanuele Trevi), fotografano dettagli o paesaggi anonimi (Giorgio Falco), o anche a casaccio, per amore del caso. Altri hanno aperto un profilo per avere un semplice “taccuino degli appunti”, anche se – lo dimostrano le foto contenute nel libro – con qualche velleità artistica (Francesco Pecoraro, Tommaso Pincio), o uno strumento della memoria (Helena Janeczek). Se ci stancheremo di questo “social” è difficile dire, senza dubbio non morirà per mancanza di contributi: la volontà generale è quella di mostrare a tutti, attraverso infinite prove documentali, che ci si diverte, che si è felici, che si frequentano posti incantevoli, che si hanno molti amici. Teoricamente. Riccardo De Gennaro

 

Il corpo in cui sono nata | di Guadalupe Nettel (La Nuova Frontiera)

In Il corpo in cui sono nata la scrittrice messicana Guadalupe Nettel racconta la sua infanzia e adolescenza negli anni Settanta e Ottanta tra Messico e Francia. Con una scrittura che non lascia spazio all’edulcorazione del ricordo, ma che invece indaga le ferite che l’hanno portata a essere la donna e la scrittrice che è diventata, Nettel ricostruisce la città e l’ambiente nel quale è nata: la Città del Messico degli anni Settanta, una famiglia progressista impegnata politicamente, il circolo degli esuli politici sudamericani. A confronto con la silente dottoressa Sazvlaski, che presumiamo essere la sua analista, Nettel affronta la storia dei genitori, la loro costante ricerca di modi anti- borghesi di vivere la famiglia e le relazioni, la dissoluzione del matrimonio. Ed è proprio da bambina che Guadalupe, affetta da un problema congenito alla vista, scopre la scrittura. La fine dell’infanzia arriva con la separazione dei genitori e la conseguente decisione della madre di tornare in Francia, lasciando per quasi un anno i bambini con la nonna. Poi la nuova vita in un quartiere periferico di Aix-an Provence. Nettel vede tutto da un’angolazione particolare, forse proprio grazie a quella macchia bianca sulla cornea dell’occhio sinistro: da quel punto di osservazione dà vita ai corpi che hanno abitato la sua storia e la storia collettiva. Come a dirci che la storia della loro vita, come della nostra, è in primo luogo la storia dei corpi in cui abitiamo. Maria Camilla Brunetti 

 

Ferrovie del Messico | di Gian Marco Griffi (Laurana Editore)

Ferrovie del Messico, ovvero le avventure di Cesco Magetti e di altri personaggi di fantasia, ai margini della Seconda guerra mondiale, con una comparsata di Hitler che viola il dress code di un evento ufficiale o il macabro golf dei soldati tedeschi che sfigurano morti. Cesco è un inetto tardoromantico, incapace di affrontare l’amore e il mal di denti. È attraverso la sua quête che ci troviamo immersi in un viaggio attraverso spazi e tempi lontani, fino a una vera e propria catabasi (nei “Bagni pubblici”). Ed è attraverso di lui che cumuliamo storie all’insegna della negazione e della dispersione: la mappa che non c’è, il soldato che non vuole scappare, la sepoltura di un bambino sconosciuto e quella dell’amico morto in Russia, la rincorsa di una donna innamorata di un altro e del libro che non si trova. Già, perché il libro del Messico è quello che stiamo leggendo, che scorre nel voltapagina come un treno su binari continuamente deviati, mentre ci disorientano lo sguardo luoghi finti e fatti plausibili, personaggi in azione o “spettri” e “fantasmi”. Il miracolo della scrittura è l’ingresso in un mondo che diventa reale espandendosi e acquistando rilievo proprio mentre sfugge da tutte le parti, nell’alternanza di fuochi, di voci, di toni, con qualche slabbratura e artificio, ma la costante del divertimento narrativo (per chi legge e chi ha scritto, con ogni evidenza). Su tutto, un richiamo ricorrente alla poesia che come l’ironia, svela l’autore, ci salva dalla disperazione. Non è vero ma ci credo: almeno finché dura il viaggio. Gilda Policastro

 

Inventarsi una vita. Un dialogo | Claudio MagrisPaolo Di Paolo (La Nave di Teseo)

Inventarsi una vita è frutto di diversi incontri e di moltissime ore di registrazioni e parole tra l’intellettuale triestino Magris (classe 1939) e lo scrittore romano Di Paolo (classe 1983). Un testo che genera una narrazione mista, ondivaga e senza oppressione “cronologica e tematica” e offre squarci ed epifanie sul senso di scrivere e di leggere il mondo, nella sempre più complessa sfida di decifrare il contemporaneo, sull’importanza degli anni formativi dell’infanzia e della
giovinezza nel plasmare una sensibilità letteraria. Magris accetta di buon grado, con la riservatezza, l’acume e la complessità della sua formazione culturale, di seguire Di Paolo in questo itinerario durante il quale emergono temi cari a entrambi: la possibilità di “autenticità” nella scrittura, il senso di ciò che si “perde” nell’atto di scrivere, l’importanza dei modelli letterari, il ruolo della vita “vissuta” e della vita “conosciuta” attraverso le parole altrui, il senso del tempo e il concetto di “eternità” come eterno presente. E dalle pagine emergono, come frammenti lucenti che accendono il testo di senso, ricordi degli anni dell’infanzia triestina di Magris, l’importanza del ginnasio liceo “in cui si insegnava a rispettare l’oggetto e non le proprie balordaggini”, la Mitteleuropa e il Danubio come “Babele del mondo odierno”, in un costante interrogarsi sulle infinite possibilità di una vita: perché “la vita vera non è tanto ciò che accade ma ciò che potrebbe, dovrebbe, sarebbe dovuto accadere”. Maria Camilla Brunetti 

 

Su tutti i vivi e i morti | di Enrico Terrinoni (Feltrinelli)

Fin dal titolo, Su tutti i vivi e i morti, questo avvincente saggio biografico, con tocchi narrativi, ci fa entrare in un colpo solo dentro l’opera e il vissuto di James Joyce. I dead dei suoi racconti e gli icastici personaggi dell’Ulisse aleggiano sempre nel tessuto letterario di queste pagine. Ma Enrico Terrinoni incide, come uno scultore nella pietra, soprattutto la fisionomia caratteriale e artistica di un innovatore assoluto del romanzo novecentesco. Sorprendentemente, rispetto alle tradizionali biografie di Joyce, il punto di partenza è il suo soggiorno romano. Lo sfondo ambientale lega il protagonista e il suo interpretante. Lo scrittore viene connesso a un luogo in modo radicale – Roma, tra l’altro, non è la città italiana che di solito associamo a Joyce,
più comunemente pensato a Trieste, in cui visse a lungo – e il critico diventa quasi un suo protagonista gemello. L’interpretazione è sempre attiva, pensante, a tratti sognante, soprattutto quando il fondale romano si carica di mistero, diventando la quinta perfetta per condurre il lettore nella densità creativa di Joyce, ma anche nel suo pensiero critico e nelle sue riflessioni politiche, così come nell’energia dell’interprete, la cui biografia condivide la profonda conoscenza di Roma e dell’Irlanda. Una simbiosi prospettica: letteralmente tra i “vivi” e
i “morti” – fra chi scompare e riappare nelle pagine della letteratura e chi, in mezzo alle antichità e al presente della città eterna, riconosce il potere di saper accendere per la letteratura uno sguardo autentico. Maria Borio

 

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