E nel Myanmar proliferano i ghetti dei musulmani | testo di Emanuele Giordana foto di Svetva Portecali

A Sittwe vige un omertoso silenzio nei confronti di un lento genocidio, che rimane nascosto. All’interno dell’area islamica vivono quattromila persone, che non si sa come vivano, dato che nessuno può entrare, né uscire. La situazione degenerò nel 2012 dopo un caso di stupro.

 

Quanto tempo ci vuole per dimenticare il dolore? E quanto ce ne vuole perché il dolore diventi abitudine, sistema di vita, quotidianità? Un musulmano di Sittwe lo sa, anche se in questa città settentrionale del Myanmar le apparenze ingannano. La capitale del Rakhine, lo Stato birmano da cui tra il 2012 e il 2017 almeno 850mila musulmani rohingya (una comunità di lingua bengalo-assamese e indo-ariana che vive qui da secoli) sono stati obbligati a fuggire da una sistematica persecuzione, sembra una città tranquilla e invitante. Il lungomare porta a un belvedere affacciato da una parte sul Golfo del Bengala e dall’altra al delta di un fiume limaccioso che confonde le sue acque con quelle del Mar delle Andamane. Lungo la passeggiata, coppiette mano nelle mano, bambini festosi e giovani che si allenano. Sulla spiaggia, qualche surfista occidentale e giovani allegri che nuotano su pneumatici gonfiati come enormi salvagenti. Sul bagnasciuga, decine di baracchini con birra, gamberi arrostiti, piacevolezze da week-end e sorrisi. Sullo sfondo, pagode ristrutturate con lamine dorate.

Nel cuore della città vecchia però si respira tutt’altra aria. Se l’occhio va oltre l’alto muro di cinta che circonda un’antica costruzione ottocentesca, la grande moschea di Sittwe – piccolo gioiello d’arte islamica con suggestioni mogul – è ora un ammasso di rovine. La struttura esterna ha resistito ma dentro è tutto devastato. Le piante si arrampicano rapide lungo i muri sbrecciati, corrosi dall’umidità e dall’incuria. E se dimenticare è dif cile, alla natura bastano otto anni per cominciare a riprendersi ciò che era suo. Succede lo stesso per altri luoghi di culto islamici della città ed è accaduto anche a monasteri e templi buddisti, seppur in maniera minore. Non lontano dalla moschea si apre il ghetto islamico. Non ci si può entrare e non si può uscire. Quanti sono gli abitanti? Adesso 4mila, il cinque per cento dei musulmani che vivevano a Sittwe. Come sopravvivono? È un altro mistero di una città divisa da una guerra per bande scoppiata nel 2012 che, nel giro di qualche mese, ha chiuso un bilancio per il solo Rakhine – dice un rapporto del 2013 di Pysichians for Human Rights – di almeno 280 morti, circa 135mila sfollati e la distruzione di oltre 10mila abitazioni, decine di moschee, madrase e monasteri. (…)

 

 

ph. Un palazzo in stile islamico in Merchant street, nel centro di Sittwe.

 

L’articolo completo è pubblicato su Reportage numero 44, acquistabile in libreria e qui in versione cartacea e in digitale.

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